Esecuzione forzata nei confronti della pubblica amministrazione
04 Ottobre 2017
Inquadramento
Il tema dell'esecuzione forzata dei crediti nei riguardi delle pubbliche amministrazioni presenta numerosi risvolti problematici. L'attuale assetto disciplinare della materia è la risultante di un tortuoso processo evolutivo, che si articola, in sintesi, nelle seguenti fasi: 1) la fase della “irresponsabilità” della pubblica amministrazione; 2) la fase della “equiparazione” tra pubblica amministrazione e debitore di diritto comune; 3) la fase della creazione di un regime differenziato della esecuzione forzata nei confronti della P.A., la cui specialità rispetto al modello codicistico si apprezza sotto tre distinti profili: i) il profilo procedimentale; ii) il profilo soggettivo; iii) il profilo oggettivo. Le peculiarità del “minisistema” di regole disciplinanti l'azione esecutiva nei confronti della P.A. – peculiarità indotte dalla necessità di tenere nella debita considerazione le esigenze di tutela della “funzione” al punto da determinare un adattamento del regime codicistico – si apprezzano, come notato in premessa, sotto tre diversi profili: il profilo procedimentale (individuazione delle regole da seguire per esercitare l'azione esecutiva nei confronti di una P.A.), il profilo soggettivo (individuazione dei soggetti del processo esecutivo) ed il profilo oggettivo (individuazione dei crediti pignorabili ovvero delle tecniche volte a limitare la pignorabilità di beni di pertinenza della P.A. esecutata). Segue: il profilo procedimentale
Viene in rilievo, da questo punto di vista, anzitutto la disposizione contenuta nell'art. 14, comma 1, d.l. n. 669/1996 e ss.mm. Nella versione attualmente in vigore (che ha consentito di superare i dubbi interpretativi suscitati dalla formulazione pregressa), la norma prevede un termine dilatorio (oggi di centoventi giorni) che deve necessariamente intercorrere tra la notifica del titolo esecutivo e quella dell'atto di precetto (escludendosi pertanto la possibilità di una loro notifica contestuale, in deroga a quanto previsto dall'art. 481 c.p.c.). Laddove tale termine non sia trascorso, «il creditore non può procedere ad esecuzione forzata» (e secondo la giurisprudenza amministrativa in atto prevalente è precluso anche il ricorso al rimedio dell'ottemperanza: TAR Campania, Napoli, sez. VII, 16 dicembre 2015, n. 5733; TAR Lazio, Roma, sez. I, 29 ottobre 2015, n. 12256; Cons. St., sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1772; contra TAR Lazio, Roma, 2 febbraio 2015, n. 1844). La disposizione nasce dalla estensione a tutti i soggetti pubblici (fatta eccezione per gli enti pubblici economici) di una istanza avanzata dall'INPS che chiedeva una “condizione di proponibilità” dell'azione esecutiva sulla falsariga di quanto previsto per le azioni intraprese per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli, in quanto il difetto di coordinamento tra le varie strutture territoriali dell'ente (in specie quella che si occupava della fase amministrativo-contabile e quella che si occupava della fase giurisdizionale) determinava la moltiplicazione delle azioni esecutive iniziate sulla scorta di un medesimo titolo. La sua ratio va individuata, come rilevato dalla Corte costituzione (Corte cost., 23 aprile 1998, n. 142; Corte cost., 16 dicembre 1998, n. 463/o.), nella esigenza di garantire al debitore esecutato «uno spatium adimplendi per l'approntamento dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei crediti azionati», onde evitare «il blocco dell'attività amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando in tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche»: tale esigenza è stata ritenuta conforme ai principi costituzionali (vedi le pronunce sopra citate) e, inoltre, alla normativa unionale in materia di lotta contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali (CGUE, 11 settembre 2007, n. 265). Ciò nondimeno, considerato l'ambito soggettivo di applicazione della disposizione (pubbliche amministrazioni ed enti pubblici non economici; si è escluso che tale norma possa essere applicata alle società in house: Trib. Napoli, 19 novembre 2014; Trib. Napoli Nord, 10 febbraio 2015/o.; controversa è la sua applicabilità ai Consorzi di bacino istituiti per la gestione dell'emergenza rifiuti in Campania: in senso favorevole, v. Trib. Napoli Nord, 17 febbraio 2015/o.), si è condivisibilmente ritenuto che il legislatore abbia “ecceduto lo scopo”, dal momento che vi sono ricompresi soggetti «che per il pagamento di somme possono non adoperare lo strumentario della contabilità pubblica».
L'esame della giurisprudenza evidenzia che, in relazione alla norma di cui si tratta, sono sorte tre rilevanti questioni problematiche.
Qualche cenno merita anche la disposizione contenuta nel comma 1-bis dell'art. 14 d.l. n. 669/1996: essa ha dettato (in epoca anteriore all'introduzione dell'art. 26-bis c.p.c.), in primo luogo, una peculiare regola sulla competenza territoriale, in quanto l'azione esecutiva intrapresa contro Enti previdenziali va “instaurata” innanzi al G.E. della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'Ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. La disposizione «deroga dunque al principio tradizionale, rispondente all'esigenza di causare il minor disagio possibile al terzo [ma vedi oggi quanto previsto dall'art. 26-bis c.p.c. in specie al secondo comma, n.d.s.] che non è parte del processo e radica invece la competenza avendo riguardo alle sole esigenze organizzative del debitore, con perfetta insensibilità alle eventuali variazioni nell'organizzazione su base territoriale dei servizi di cassa», con l'obiettivo «di consentire alla sede INPS che ha gestito la fase giudiziale contenziosa di seguire anche quella esecutiva». In secondo luogo, la disposizione prevede che «il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia disposta l'assegnazione». Se si leggono le varie proposizioni del comma in esame in modo “sequenziale” occorre ritenere che la disposizione attiene solo alle procedure riguardate dal periodo antecedente (e quindi solo dalle procedure espropriative presso terzi intraprese nei riguardi di Enti previdenziali) in quanto se si fosse voluto attribuire a tale disposizione un ambito precettivo più ampio sarebbe stato necessario inserirla in un comma a sé stante. D'altro canto, a parte questo argomento “sintattico”, depone nel senso anzidetto la considerazione che la previsione normativa, per il suo carattere eccezionale, andrebbe interpretata in modo restrittivo. È stato poi notato che la norma «con meccanismo assolutamente inedito nel nostro ordinamento ricollega la perdita di efficacia di un atto di parte (…) ad una condotta omissiva del giudice che non disponga tempestivamente l'assegnazione dei crediti pignorati mediante la pronuncia della relativa ordinanza». La questione, a dire il vero, si poneva in un quadro normativo diverso, quale quello anteriore alle riforme del 2005-2006 che – prima ancora delle riforme successive e più recenti – hanno profondamente inciso sull'assetto regolatorio del procedimento presso terzi: a quel tempo, infatti, non era prevista la limitazione oggi contemplata dall'art. 546 c.p.c. (l'importo del credito precettato aumentato della metà) e la Cassazione era orientata nel senso che «nell'esecuzione presso terzi di somme di denaro o di prestazioni continuative di somme di denaro, oggetto del pignoramento non è una quota pari al credito per il quale l'esecutante agisce in via esecutiva, ma la somma unitaria o frazionata nel tempo di cui il terzo è debitore dell'esecutato» (Cass. civ., 22 aprile 1995, n. 4584; con nota di Acone; Cass. civ., 29 gennaio 1999, n. 798; Cass. civ., 4 gennaio 2000, n. 16. Su questo aspetto, vedi di recente Corte cost., 22 dicembre 2010, n. 368 secondo cui la previsione del limite al vincolo esecutivo del pignoramento rappresenta il frutto di una scelta non incongrua né irragionevole del legislatore nell'ottica dell'ottimale contemperamento dei diversi interessi in gioco: da un lato l'interesse del creditore; dall'altro quello del debitore di non subire il “blocco totale” delle somme di propria pertinenza detenute dal terzo). Alla luce del quadro normativo allora vigente e tenuto conto dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità, gli enti debitori correvano il rischio di veder bloccate ingenti linee di credito a fronte di crediti azionati di importo inferiore, anche perché – sempre tenuto conto del compendio normativo allora vigente – se si riteneva che il momento perfezionativo del pignoramento coincidesse con la dichiarazione del terzo o con l'accertamento giudiziale del credito il termine annuale previsto da tale disposizione sarebbe decorso da tale momento: il che portava alla sostanziale vanificazione della ratio della disposizione, ovvero creare un regime di favore per gli enti previdenziali. Guardando al tenore letterale della disposizione (che si riferisce al «compimento del pignoramento») e considerato (senza voler entrare nel merito della complessa questione se il pignoramento presso terzi si perfezioni solo al momento della fornitura della dichiarazione da parte del terzo) che la notificazione del pignoramento segna il momento iniziale dell'esecuzione ed il momento a partire dal quale ogni atto dispositivo del bene o del credito pignorato è inopponibile al creditore procedente (Cass. civ., 9 marzo 2011, n. 5529) nonché il momento a partire dal quale il debitore è facultato a proporre l'opposizione agli atti esecutivi (Cass. civ., 23 marzo 2011, n. 6666), pare preferibile ritenere che il termine di un anno decorra dalla notifica del pignoramento: è dubbio se, con riguardo al giudizio endoesecutivo di accertamento, sia predicabile quella «interpretazione che consideri la possibilità di ritenere sospeso il termine in questione fino alla definizione del giudizio di accertamento» che taluno ipotizzava con riguardo alla disciplina anteriore alle modifiche del 2012. Infine, a mente dell'ultimo alinea del comma 1-bis, art. 14 d.l. n. 669/1996, qui esaminato, «l'ordinanza che dispone ai sensi dell'art. 553 c.p.c. l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate». Ebbene, rilevato che ai sensi dell'art. 553 c.p.c. l'assegnazione avviene “salvo esazione”, e che ai sensi dell'art. 2928 c.c. «il diritto dell'assegnatario verso il debitore che ha subito l'espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato», si dovrebbe a rigore sostenere che tutte le volte che, entro un anno dalla data di emissione dell'ordinanza di cui si tratta, non intervenga il pagamento da parte del terzo, l'ordinanza stessa perderebbe efficacia. Tuttavia, è stata proposta una diversa interpretazione della norma secondo cui sarebbe opportuno «sganciare il requisito dall'effettivo incasso del credito assegnato, prendendo atto che la ratio dell'art. 2928 c.c. è diversa da (e per certi versi opposta a) quella della norma oggi in esame e che, quindi, il termine ivi previsto potrebbe ritenersi rispettato con la semplice attivazione di procedure formali di riscossione, prescindendo dai tempi di realizzazione effettiva del diritto». Segue: il profilo soggettivo
La peculiarità del debitore-pubblica amministrazione si apprezza anche sotto un distinto punto di vista. Precisamente, come rilevato dalla migliore dottrina, laddove il bene che il creditore intenda pignorare sia un credito verso terzi (ed in specie nei riguardi del tesoriere), deve tenersi conto della circostanza che, per tale tipologia di bene, è previsto un particolare regime di circolazione. Prima della legge sulla tesoreria unica, rileva l'esame del combinato disposto degli artt. 325, r.d. n. 383/1934 e 205, r.d. n. 297/1991, secondo cui i crediti della P.A. potevano circolare soltanto in forza di mandati di pagamento. Inoltre, a mente degli artt. 23, commi 6 e 7, l. n. 153/1980 e del d.m. 26 gennaio 1981 l'espropriazione forzata del pubblico denaro si compiva mediante pignoramento presso gli Uffici della Tesoreria dello Stato che provvedevano al pagamento mediante vaglia del tesoro da estinguersi in conto corrente postale intestato al creditore. Infine, ai sensi dell'art. 40, l. n. 119/1981, il denaro pubblico va depositato presso la Tesoreria dello Stato (relativamente alle somme eccedenti il 12% delle entrate previste dal bilancio di competenza), laddove le aziende e gli istituti di credito che esercitano il servizio di tesoreria a favore degli enti pubblici sono tenuti ad eseguire operazioni di incasso e pagamento con riguardo a somme di cui materialmente non dispongono (secondo il regime dell'anticipazione di cassa). Da tale quadro normativo conseguiva che «le aziende e gli istituti esercenti il servizio di tesoreria per gli enti pubblici, citati innanzi al (…) Giudice dell'esecuzione non solo non possono eseguire alcun pagamento ma non possono neppure rendere una dichiarazione positiva ai sensi dell'art. 547 c.p.c.: essi devono indicare quale depositario del pubblico danaro e debitore del soggetto passivo del processo esecutivo la Tesoreria di Stato». Dopo una lunga serie di decreti non convertiti, la materia ha trovato nella l. n. 720/1984 la propria disciplina. Le operazioni di pagamento e incasso svolte dai tesorieri sono «a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato», dal che consegue la inconfigurabilità di un rapporto di credito-debito tra gli enti pubblici ed i rispettivi tesorieri (che peraltro neanche detenevano materialmente le somme). A tale inconveniente ha posto rimedio il legislatore con l'introduzione (ad opera del d.l. n. 359/1987) dell'art. 1-bis, l. n. 720/1984, secondo cui (comma 1) «i pignoramenti ed i sequestri, a carico degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1, delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al capo III del titolo II del libro III del codice di procedura civile, con atto notificato all'azienda o istituto cassiere o tesoriere dell'ente od organismo contro il quale si procede nonché al medesimo ente od organismo debitore». Il tesoriere assume la veste di terzo nel procedimento di espropriazione forzata del credito e, quindi, oltre a dover custodire le somme, deve rendere la prescritta dichiarazione di quantità. Tuttavia, «in caso di pignoramenti o sequestri di entrate proprie degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1 eseguiti anteriormente al versamento di queste in contabilità speciale, il cassiere o tesoriere provvede ugualmente al dovuto versamento nella contabilità speciale con annotazione del relativo vincolo» (art. 1-bis, comma 3, l. n. 720/1984). Restano però salve «le cause di impignorabilità, insequestrabilità ed incedibilità previste dalla normativa vigente, nonché i vincoli di destinazione imposti, o derivanti dalla legge» (art. 1-bis, comma 4, l. n. 720/1984). Alla stregua di tale dato normativo, dunque, il pignoramento poteva indifferentemente colpire le somme di pertinenza dell'ente esecutato già affluite nelle contabilità speciali quanto quelle incassate dal tesoriere ma da questi non ancora riversate nelle suddette contabilità (Cass. civ., 17 giugno 1988, n. 4136). Sennonché il quadro normativo è mutato ulteriormente per effetto della introduzione, nel tessuto del citato art. 1-bis, l. n. 720/1984 del comma 4-bis, che prevede che «non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla presente legge». A fronte della introduzione di tale norma si è posto il problema se l'indicazione del tesoriere quale terzo pignorato implichi l'impossibilità di aggredire crediti che l'ente esecutato vanti verso diversi soggetti, anche di natura privatistica. La giurisprudenza di merito appare prevalentemente orientata nel senso che l'esecuzione presso terzi intrapresa nei riguardi di un terzo diverso dal tesoriere debba essere dichiarata inammissibile, anche su rilievo d'ufficio (Trib. Napoli, 12 dicembre 2005). In dottrina, peraltro, si ritiene (a nostro avviso condivisibilmente) che, fuori dal caso peculiare in cui il debitore sia un Ente locale (o altro soggetto ricadente nell'ambito di applicazione dell'art. 159 d.lgs. n. 267/2000), la soluzione da preferire sia quella opposta. Si rileva, da un lato, che la ratio della disciplina sulla tesoreria sia quella di garantire una ordinata gestione della contabilità (e rispetto a tale ratio la rilevata inammissibilità del pignoramento appare ultronea) e, dall'altro lato, che una lettura costituzionalmente orientata del sistema dovrebbe condurre a ripudiare orientamenti che portino ad estendere la portata applicativa di ostacoli o impedimenti al pieno dispiegarsi del diritto di procedere in via esecutiva.
Disputata è la questione se sia ammissibile il pignoramento presso il tesoriere laddove il rapporto tra quest'ultimo e l'ente pubblico sia gestito secondo il regime della anticipazione di cassa. Due sono i punti critici: 1) quello concernente la inopponibilità al creditore pignorante non solo degli atti dispositivi, ma anche dei fatti estintivi verificatisi successivamente alla notifica del pignoramento ai sensi dell'art. 2917 c.c.; 2) quello concernente la qualificazione della posizione vantata dal debitore nei riguardi della banca quando tra l'uno e l'altro sussista un rapporto di anticipazione di cassa riconducibile allo schema del contratto di apertura di credito bancario. In virtù di questo contratto la banca si impegna verso il cliente a “tenere a disposizione” somme di denaro a favore di quest'ultimo (art. 1842 c.c.). 3) Si discute, quindi, se il cliente sia immediatamente creditore della somma (se sia cioè titolare, rispetto alla anticipazione, di un diritto di godimento) ovvero se l'impiego dell'anticipazione (art. 1843 c.c.) costituisca l'oggetto di un potere dispositivo da molti qualificato in termini di diritto potestativo. Ebbene, laddove tra il cliente e la banca sia convenuto che le somme rimesse a favore del cliente vengano imputate prioritariamente a titolo di “rientro dell'anticipazione”, ci si chiede, in definitiva, se tali rimesse, quando intervenute dopo l'atto di pignoramento (e prima della dichiarazione), ricadano o meno nel vincolo di indisponibilità che dal pignoramento promana. Alla posizione affermativa di certa giurisprudenza di merito (Trib. Napoli, 12 aprile 2010/o.) – basata essenzialmente sulla riconosciuta pignorabilità di crediti futuri o inesigibili - fa da riscontro l'opinione di una parte della dottrina che – ricordando una remota giurisprudenza in senso opposto a quella sopra citata (P. Monza, 3 marzo 1989) – evidenzia che l'accreditato ha la disponibilità economica della somma ma non anche la disponibilità giuridica della stessa con la conseguenza che l'assegnazione resterebbe subordinata alla mera volontà del debitore esecutato e sarebbe, quindi, impossibile: «non è possibile sottoporre a pignoramento il credito futuro, eventuale e condizionato che l'accreditato vanterà nei confronti della banca quando eserciterà, se lo vorrà, il potere di esigere le somme messe a sua disposizione, perché la posizione giuridica attiva non appare in questo momento dotata di capacità satisfattiva futura». A parere di questa dottrina, pertanto, se la chiave di lettura della questione è offerta (in un senso o nell'altro) dalla potestatività della posizione dell'accreditato, occorrerebbe notare che il diritto potestativo è, di norma, non cedibile; inoltre, la somma “anticipata” sarebbe impignorabile in quanto non solo temporaneamente inesigibile ma in quanto non dovuta, essendo la relativa debenza collegata all'esercizio di un diritto potestativo del debitore che non integra una condizione in senso tecnico ma un elemento costitutivo del tipo contrattuale di riferimento. Va però rilevato che – per i soggetti cui si applica la l. n. 720/1984 – trova applicazione l'art. 4, d.m. 4 agosto 2009 (attuativo della legge sulla tesoreria unica) e prevede che «le anticipazioni effettuate agli enti ed organismi pubblici dai tesorieri, nei limiti previsti dalla normativa in vigore, in mancanza di disponibilità non vincolate nelle contabilità speciali in essere presso la Tesoreria dello Stato, devono essere estinte, a cura dei tesorieri, non appena siano acquisiti introiti non soggetti a vincolo di destinazione sul conto corrente bancario intestato agli enti e organismi pubblici, ovvero entro il giorno lavorativo successivo qualora gli introiti siano stati acquisiti sulla contabilità speciale presso la Tesoreria dello Stato». Alla luce di ciò risulta difficile giustificare l'applicabilità al caso in questione dell'art. 2917 c.c. posto che le operazioni aventi ad oggetto somme di denaro necessarie per il “rientro dell'anticipazione” hanno funzione ripristinatoria e non solutoria. In definitiva, pare doversi propendere per la tesi che esclude – nei casi riguardati dal complesso normativo sopra esaminato – la possibilità di assegnare somme detenute dal terzo in regime di “anticipazione di cassa”: soluzione, questa, che potrebbe trovare una sponda nella giurisprudenza in tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, secondo cui «qualora le operazioni siano compiute anteriormente all'ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, occorre accertare, nel caso in cui il fallimento (successivamente dichiarato) del medesimo agisca per la restituzione dell'importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa a quella anticipazione contenga una clausola attributiva del diritto di ‘incamerare' le somme riscosse in favore della banca stessa (cd. patto di compensazione o di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto), atteso che solo in tale ipotesi quest'ultima ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito in dipendenza di operazioni regolate nel medesimo conto corrente senza che rilevi l'anteriorità del credito e la posteriorità del debito rispetto all'ammissione alla procedura concorsuale, non operando, in tale evenienza, il principio della cristallizzazione dei crediti» (da ultimo, v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3336). Al di fuori dei casi ricadenti nell'ambito di applicazione della l. n. 720/1980 e del connesso decreto attuativo, occorre verificare, in concreto, la disciplina del rapporto contrattuale, verosimilmente nell'ambito di un giudizio sommario di accertamento dell'obbligo del terzo ex art. 549 c.p.c.. Segue: il profilo oggettivo
Sebbene sia stato conseguito l'obiettivo della (tendenziale) equiparazione tra la pubblica amministrazione ed il debitore di diritto comune (quanto ad ampiezza della responsabilità patrimoniale ed assoggettamento alla regola generale di cui all'art. 2910 c.c.), limiti al diritto del creditore di procedere in via esecutiva possono discendere dalla sussistenza (ed opponibilità) di vincoli di indisponibilità delle somme detenute dall'amministrazione presso il proprio tesoriere: precisamente, tali vincoli possono sorgere o recta via per effetto di una disposizione di legge oppure per effetto di un provvedimento amministrativo, adottato sulla base della legge. La ratio dell'impianto normativo che ci accingiamo ad esaminare (senza pretesa di esaustività) fonda, evidentemente, su istanze protettive di una “funzione” o di un “servizio” affidati alla pubblica amministrazione: nella misura in cui una certa somma sia collegata expresse all'espletamento di tale funzione o di tale servizio, si prevede (per legge o in forza di provvedimento ad hoc) la sua non assoggettabilità ad esecuzione forzata. In altre ipotesi, le predette istanze protettive si sono tradotte, draconianamente, in divieti di esercitare l'azione esecutiva (o l'azione esecutiva individuale, come nel caso delle procedure “liquidative” disciplinate dagli artt. 248 e ss., d.lgs. n. 267/2000, c.d. TUEL; procedure che qui non mette conto di approfondire). Negli uni e negli altri casi, la Corte costituzionale è spesso intervenuta a “riequilibrare” il sistema, laddove lo stesso risultasse ingiustificatamente sbilanciato a vantaggio del debitore pubblica amministrazione.
Quanto ai vincoli derivanti una volta e per tutte da disposizioni di legge, si ricordano, tra le altre, le seguenti disposizioni:
- l'art. 1, d.l. n. 313/1993, conv. con modif. dalla l. n. 460 del 1994, o di «impignorabilità ad efficacia soggettivamente relativa». Ed infatti, anche sui fondi e sulle somme ex lege dichiarate impignorabili «è infatti comunque garantita la possibilità della espropriazione a tutela e per la soddisfazione di crediti qualificati dalla ragione causale della pretesa ascrivibile (…) a crediti alimentari o di mantenimento derivanti da separazione o divorzio tra i coniugi oppure ad emolumenti lato sensu retributivi (…) spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni interessate»; espropriazione che segue regole peculiari che qui non mette conto di esaminare;
- l'art. 6, d.l. n. 263/2006, che ha previsto la impignorabilità delle risorse finanziarie destinate a fronteggiare l'emergenza rifiuti in Campania;
- l'art. unico, comma 1348, l. n. 296/2006, che ha previsto la impignorabilità dei fondi destinati al pagamento di spese per servizi e forniture aventi finalità giudiziaria o penitenziaria, delle aperture di credito a favore di determinati Uffici pubblici, nonché dei fonti destinati al pagamento di somme liquidate ex lege n. 89 del 2001. Su tale aspetto va segnalata la “miniriforma” della legge Pinto, attuata tramite la legge di stabilità per l'anno 2016, imposta da una pronuncia di condanna della CEDU nei confronti della Repubblica italiana (CEDU, 21 dicembre 2010, Gaglione e altri c. Italia);
- l'art. 62, d.P.R. 24 novembre 2016, che prevede la impignorabilità dei fondi depositati sui conti correnti bancari dal DIS (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) dall'AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna e dall'AISI (Agenzia informazioni e sicurezza interna);
- l'art. 6, comma 4-bis, d.l. n. 93/2013 (introdotto dalla l. 137/2013, di conversione del d.l. n. 120/2013, sul riequilibrio della finanza pubblica), che prevede l'impignorabilità dei fondi destinati all'adeguamento dei centri di identificazione ed espulsione, anche attraverso la ristrutturazione di immobili demaniali. L'eventuale pignoramento è nullo e non vi sono obblighi di accantonamento in capo al tesoriere.
Casistica: espropriazione nei confronti delle Aziende sanitarie locali
Talora la legge si è spinta oltre prevedendo un divieto di azioni esecutive nei confronti dell'Ente locale: è il caso dell'art. 1, comma 51, l. n. 220/2010. Nella sua originaria formulazione la norma prevedeva che, nei confronti delle ASL operanti in Regioni che avessero adottato dei piani di rientro dai disavanzi sanitari ex lege n. 311/2004, non potessero essere «intraprese o proseguite azioni esecutive» (né azioni di ottemperanza ai sensi del Codice del processo amministrativo), fino al 31 dicembre 2012. Il termine è stato più volte prorogato e, nel novellare la norma, è stato anche previsto che «i pignoramenti (…) sono estinti di diritto» e «cessano i doveri di custodia» con obbligo dei tesorieri di rendere le somme immediatamente disponibili «senza previa pronuncia giurisdizionale». A fronte di un orientamento secondo cui il blocco previsto dalla normativa in questione operasse solo in presenza della effettiva predisposizione da parte delle ASL dei piani di rientro (e quindi alla effettiva individuazione dei debiti e delle modalità temporali della relativa soddisfazione) [Trib. Napoli, sez. Pozzuoli, n. 585/2011 e n. 660/2011], per altra opinione la normativa in esame si poneva tout court in contrasto con la Costituzione. La Corte, investita della q.l.c. riguardante la primigenia versione della norma, operato il “trasferimento” della stessa sul testo frattanto novellato (sul rilievo che la novella avesse approfondito il vulnus ai principi costituzionali già ricollegabile alla originaria formulazione della disposizione), ha osservato che «un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenza n. 155/2004 e n. 310/2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenza n. 277/2012 e n. 364/2007). Viceversa, la disposizione ora censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, già è stata, con due provvedimenti di proroga adottati dal legislatore, differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere, nella attuale versione, la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate, non prevede alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati (…). Va, altresì, considerata la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale ha creato una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all'art. 111 Cost.». Quanto ai vincoli stabiliti di volta in volta con provvedimento amministrativo va segnalata la tormentata evoluzione della normativa in materia di ASL (già USL) ed Enti locali. L'art. 1, comma 5, d.l. n. 9/1993, nel suo originario tenore, prevedeva la impignorabilità delle somme dovute a qualsiasi titolo alle unità sanitarie locali nei limiti degli importi dovuti a titolo di stipendio (o competenze comunque spettanti) al personale dipendente nonché «nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell'erogazione dei servizi sanitari definiti con decreto del Ministero della Sanità di concerto con il Ministro del tesoro da emanare entro due mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Parallelamente, in materia di Enti locali, l'art. 11, comma 1, d.l. n. 8/1993 prevedeva una similare ipotesi di impignorabilità sottoponendo, però, l'operatività del vincolo alla condizione «che la giunta, con deliberazione da adottarsi per ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e che dall'adozione della predetta delibera la giunta non emetta mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non soggette a fattura, della data di deliberazione di impegno da parte dell'ente». La Corte costituzionale fu investita della questione se la disciplina dettata per le ASL integrasse una irragionevole disparità di trattamento, assumendo la norma dettata per gli Enti locali come tertium comparationis. Il Giudice delle leggi, con la fondamentale pronuncia 29 giugno 1995, n. 285, ravvisò la illegittimità della asimmetria tra la posizione del creditore di una ASL (la cui azione esecutiva poteva essere paralizzata in virtù di una disposizione regolamentare, dettata una volta e per sempre, onde individuare i servizi essenziali erogati utilizzando risorse impignorabili) e quella del creditore di un Ente locale (la cui azione esecutiva, invece, poteva essere paralizzata solo dall'adozione di una delibera di impignorabilità con validità limitata nel tempo e sempre a condizione che non fossero emessi mandati di pagamento per finalità diverse da quelle protette se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture). In specie, si pervenne alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 1, comma 5, d.l. n. 9/1993, nella parte in cui «per l'effetto della non sottoponibilità ad esecuzione forzata delle somme destinate ai fini ivi indicati non prevede la condizione che l'organo di amministrazione dell'unità sanitaria locale, con deliberazione sa adottare ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e che dall'adozione della predetta delibera non siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, dalla data della deliberazione di impegno da parte dell'ente». L'art. 35, comma 8, d.l. n. 66/2014 ha modificato la norma appena citata al fine di “adeguarla” alla giurisprudenza costituzionale. Va peraltro segnalato che lo stesso decreto legge appena richiamato, con una norma di dubbia legittimità costituzionale, ha previsto che dalla data della comunicazione della delibera «il tesoriere è obbligato a rendere immediatamente disponibili [deve intendersi, nei confronti della ASL, n.d.s.] le somme di pertinenza dell'ente indicate nella deliberazione, anche in caso di notifica di pignoramento o di pendenza di procedura esecutiva nei confronti dell'Ente, senza necessità di previa pronuncia giurisdizionale» (così recita il nuovo comma 5-bis dell'art. 1, d.l. n. 9/1993). In altre parole, la sola adozione e comunicazione della delibera – prima che sia possibile appurare la sussistenza dell'operatività del vincolo – potrebbe avere l'effetto di vanificare l'effetto del pignoramento e ciò prima e al di là di qualsiasi controllo giurisdizionale. Segue: espropriazione nei confronti degli enti locali
L'art. 113, d.lgs. n. 77/1995 e ss.mm. ha innovato la disciplina dettata in materia di Enti locali, prevedendo una serie di limitazioni al diritto del creditore di procedere in via esecutiva sulle somme dovute in relazione a particolari finalità (pagamento delle retribuzioni, dei mutui in scadenza ed espletamento di servizi locali indispensabili) a condizione «che l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità». In altre parole mancava, rispetto alla pregressa normativa (che aveva funto anche da tertium comparationis nella q.l.c. riguardante la norma sulle ASL), la previsione che il vincolo perde efficacia se risulta violato l'ordine cronologico dei pagamenti effettuati per finalità diverse da quelle “protette”. La Corte costituzionale veniva investita della questione: stavolta ad essere assunta come termine di paragone per saggiare la irragionevolezza della scelta normativa fu la normativa dettata per le ASL così come “manipolata” dalla citata pronuncia della Corte cost. n. 285/1995. Pur non occupandosi della previsione (pure contenuta nel citato art. 113 e pure “eccentrica” rispetto alla disciplina parallela in materia di ASL) del potere di rilievo officioso della nullità del pignoramento ricadente su tali somme (perché non rilevante nei giudizi a quibus), la Corte ha ritenuto – in modo speculare a quanto ritenuto nel 1995 – che «la norma denunciata accordando, come si è visto, ai soli enti locali la possibilità di opporre l'impignorabilità di somme di denaro indipendentemente dalla osservanza di un determinato ordine cronologico nell'emissione di mandati a titoli diversi da quelli vincolati risulta immotivatamente diversa da quella in vigore per le unità sanitarie locali ed in quanto tale lesiva del principio costituzionale di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.». Di conseguenza, «si deve, pertanto, far luogo ad una dichiarazione di incostituzionalità che, nei limiti dell'ordinanza di rimessione, riconduca la disposizione denunciata in termini corrispondenti alla disciplina prevista dall'art. 1, comma 5, d.l. n. 9/1993, convertito nella l. n. 67/1993, come risulta a seguito della sentenza della Corte cost. n. 285/1995». In definitiva, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma censurata «nella parte in cui non prevede che l'impignorabilità delle somme destinate ai fini ivi indicati non opera qualora, dopo l'adozione da parte dell'organo esecutivo della delibera semestrale di quantificazione preventiva degli importi delle somme stesse, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente» (Corte cost., 20 marzo 1998, n. 69). Si è giunti così all'adozione del TUEL, il cui art. 159, d.lgs. n. 267/2000 nella sua originaria formulazione, prevedeva, in modo del tutto analogo alla primigenia versione dell'art. 113, d.lgs. n. 77/1995, che l'operatività del vincolo di impignorabilità fosse subordinata solo alla adozione (e successiva notifica al tesoriere) della delibera di impignorabilità, senza alcun riferimento a situazioni che determinassero l'inefficacia di quel vincolo (come la violazione dell'ordine cronologico dei pagamenti effettuati per altri finalità, diverse da quelle protette). Di tale profilo si è occupata, ancora una volta, la Corte costituzionale (sentenza 18 giugno 2003, n. 211), che ha preliminarmente rilevato che «la norma impugnata, per la parte che interessa, riproduce, infatti, il testo dell'art. 113, d.lgs. n. 77/1995 che, come si è ricordato, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza Corte cost. n. 69/1998», con la conseguenza «che le medesime considerazioni si ripropongono con riferimento alla disciplina ora impugnata». Fatta tale premessa, la Corte ha evidenziato che, nella citata sentenza della Corte cost. n.69/1998, «[si] ebbe (…) ad osservare che, stante la omogeneità delle situazioni giuridiche riferibili, rispettivamente, alle unità sanitarie locali ed agli enti locali, del tutto irragionevole risultava la disparità di trattamento della disciplina censurata nella parte in cui disponeva la impignorabilità delle somme di danaro destinate alla realizzazione degli scopi essenziali degli enti locali senza condizionarla, in conformità a quanto previsto per le unità sanitarie locali, alla inesistenza di pagamenti c.d. preferenziali e cioè effettuati da tali enti senza l'osservanza di un determinato ordine cronologico». Ne è conseguita, pertanto, «una dichiarazione di incostituzionalità della disposizione denunciata negli stessi termini di cui alla sentenza Corte cost. n. 69/1998». Riferimenti
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