La rendita ai superstiti non indennizza la lesione all’integrità psico-fisica riportata in vita dal lavoratore infortunato
01 Giugno 2017
Massima
Anche dopo la socializzazione del danno biologico, il calcolo della rendita ai superstiti erogata dall'INAIL si effettua senza tener conto della quota di rendita per la lesione all'integrità psico-fisica in sé e per sé considerata percepita in vita dal lavoratore deceduto. Il caso
Un lavoratore, titolare di una rendita, costituita in conseguenza di una menomazione all'integrità psico-fisica pari all'85%, decedeva per cause collegate alla medesima malattia professionale già indennizzata dall'Inail, che costituiva in favore del coniuge la rendita ai superstiti che, come noto, compensa il solo danno patrimoniale derivato dal decesso.
Il coniuge superstite, allora, chiedeva al Tribunale la condanna dell'Istituto all'erogazione della rendita ai superstiti, prendendo come base di calcolo l'effettiva rendita per malattia professionale erogata al coniuge deceduto, comprensiva della componente del danno biologico o, in subordine, la condanna al ristoro integrale del danno biologico subito in vita dal lavoratore deceduto, calcolato servendosi delle Tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale adottate dal Tribunale di Milano.
Il giudice di prime cure respingeva la domanda, come anche la Corte di Appello, secondo i quali l'art. 13 del D.Lgs. n. 38/2000 non prevede che la rendita ai superstiti venga calcolata con la inclusione della componente liquidata a titolo di danno biologico, né la scelta del legislatore, rivolta ad indennizzare solo il danno patrimoniale derivato dalla morte, si rivela irrazionale, rientrando nella sua discrezionalità. Con ricorso per cassazione il coniuge superstite ha chiesto l'annullamento della sentenza, dolendosi che la Corte di Appello non avesse tenuto conto che la tutela del danno biologico è stata portata all'interno della copertura assicurativa e che, comunque, l'Inail avrebbe dovuto risarcire il danno dinamico-relazionale subito, calcolato con la Tabella in uso presso il Tribunale di Milano. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso. La questione
Le questioni esaminate dalla Corte di Cassazione sono le seguenti:
1) con l'entrata in vigore dell'art. 13 D. Lgs. n. 38/2000 la rendita ai superstiti deve calcolarsi tenendo conto della quota di rendita per il danno biologico riportato in vita dal lavoratore assicurato e poi deceduto? 2) in caso di decesso del lavoratore assicurato, in conseguenza di una malattia professionale già indennizzata dall'Istituto, quest'ultimo può essere condannato al risarcimento del danno biologico subito in vita dal lavoratore e non coperto dalla rendita ai superstiti, calcolato servendosi delle Tabelle in uso presso il Tribunale di Milano? La soluzione giuridica
Per la prima volta la Corte di Cassazione esclude sia che con la rendita ai superstiti si possa indennizzare anche la lesione all'integrità psico-fisica riportata in vita dal lavoratore infortunato, poi deceduto a causa della medesima infermità, che aveva determinato la menomazione all'integrità psico-fisica, sia che l'Inail debba compensare, oltre al danno patrimoniale derivato dal decesso, anche il danno biologico, quale componente del danno non patrimoniale, subito in vita dalla vittima.
La Corte perviene a tale conclusione, ricordando che nel regime anteriore al D. Lgs. n. 38/2000 la rendita ai superstiti garantiva “l'indennizzo forfettario del pregiudizio patrimoniale sofferto a ragione del rapporto di dipendenza economica con il defunto”, rimanendo ad essa estraneo il risarcimento del danno biologico, che avveniva secondo le regole del diritto comune (Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372).
Inoltre, ricorda la Corte, la rendita ai superstiti, contemplata nell'art. 66, comma 1, n. 4), DPR n. 1124/65 e regolata dal successivo art. 85, in base al quale essa si determina tenendo conto della retribuzione del lavoratore deceduto, calcolata secondo le disposizioni degli artt. da 116 a 120, rappresenta una prestazione autonoma rispetto alla rendita percepita in vita dall'assicurato in quanto:
- spetta iure proprio e non iure successionis (Cass. 4 marzo 2002, n. 3069; Cass. 24 novembre 1997, n. 11745); - il diritto alla rendita non appartiene al patrimonio del de cuius perché nasce alla morte dell'assicurato; - i titolari sono previsti dalla legge e l'indennità non si confonde con il patrimonio del defunto; - non è essenziale ai fini dell'erogazione della rendita ai superstiti che sia costituita la rendita in favore del de cuius (Cass. 27 novembre 1996, n. 10533; Cass. 3 giugno 1994, n. 5398); - la rendita ai superstiti compete anche se la rendita del congiunto sia stata liquidata all'assicurato in capitale e da questo investita (Cass. 29 maggio 1999, n. 5289).
Tale assetto regolatorio non è stato modificato dall'art. 13 D. Lgs. n. 38/2000, con il quale il legislatore delegato ha inteso sostituire solo la rendita erogata in presenza di un'inabilità permanente, contemplata dall'art. 66, comma 1, n. 2), DPR n. 1124/65, con un intervento legislativo selettivo e mirato rispetto alla precedente regolamentazione.
In effetti, la Corte costituzionale si era preoccupata di segnalare un vuoto legislativo, laddove il sistema assicurativo, gestito dall'Inail, non assicurava alla vittima di un infortunio “un'effettiva, tempestiva ed automatica riparazione” della lesione all'integrità psico-fisica, che aveva nel tempo soppiantato in ordine di importanza la vetusta categoria dell'attitudine al lavoro alias capacità lavorativa generica (Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 87, in Riv. it. med. leg., 1992, 679).
La scelta del legislatore, a parere della Corte, di inserire il risarcimento del danno biologico all'interno del sistema assicurativo obbligatorio modificando esclusivamente la disciplina della rendita dell'assicurato, si rivela legittima poiché la rendita ai superstiti, per come calcolata, appare ancora rispettosa dei principi di solidarietà sociale, garantendo il soddisfacimento delle esigenze di vita dei beneficiari.
Infine, la Corte ha respinto l'ulteriore doglianza, rivolta ad ottenere la condanna dell'Istituto al risarcimento del danno biologico riportato in vita dal lavoratore assicurato sulla base delle Tabelle di liquidazione adottate dal Tribunale di Milano, in quanto il sistema delle assicurazioni contro gli infortuni e le malattie professionali si fonda sul principio della previsione per legge delle prestazioni dovute, cosicché non è possibile includere nel novero delle prestazioni assicurative forme di indennizzo non espressamente previste dalla legge. Osservazioni
Con una motivazione ineccepibile la Corte impedisce una pretestuosa estensione dell'ambito operativo dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, respingendo la pretesa del coniuge superstite di trasformare l'indennizzo erogato dall'ente di previdenza in un ingiustificato risarcimento del danno, in spregio alla finalità perseguita con la tutela previdenziale, volta ad eliminare lo stato di bisogno in cui si vengono a trovare le vittime degli infortuni sul lavoro o delle malattie professionali attraverso l'erogazione di “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” (art. 38, comma 2, Cost.).
Sebbene con la rendita per l'inabilità permanente e la rendita ai superstiti si persegua sempre la medesima finalità di liberazione dallo stato di bisogno, i beneficiari sono distinti, perché la prima è destinata solo al lavoratore infortunato o tecnopatico, mentre la seconda viene attribuita ai suoi familiari superstiti, senza possibilità di commistioni l'una nell'altra, che travalicherebbero la finalità sociale dell'intervento assicurato dall'Inail.
In particolare, la rendita per inabilità permanente, parametrata all'età ed al grado di menomazione riportato, viene erogata esclusivamente in favore della vittima di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale per tutta la sua vita, salvo che non intervengano, nei limiti dei termini revisionali, dei miglioramenti nelle condizioni di salute che riducano, sino ad escluderla, la compromissione all'integrità psico –fisica in precedenza accertata.
In caso di decesso la rendita viene cessata perché viene meno la causa della sua costituzione, cioè la tutela di chi, vivendo del proprio lavoro, si viene a trovare in condizioni di bisogno a causa dell'infortunio riportato; si tratta, in sostanza, di una prestazione che presuppone la sopravvivenza del destinatario, la cui durata può incidere pure sulla consistenza dell'erogazione economica in capitale dovuta in presenza di una menomazione all'integrità psico-fisica compresa tra il sei ed il quindici per cento, nel caso in cui il beneficiario perda la vita prima che il suddetto importo in capitale sia stato corrisposto, poiché gli aventi diritto ricevono un indennizzo rapportato all'effettiva durata della sopravvivenza del de cuius e non a quello che sarebbe stato ottenuto applicando la “Tabella indennizzo danno biologico” se il lavoratore infortunato fosse rimasto in vita (art. 13, co.9, D. Lgs. n. 38/2000). Se l'infortunio o la tecnopatia determinano non solo la menomazione dell'integrità psico-fisica, ma anche il successivo decesso del lavoratore assicurato, al momento della cessazione della rendita per l'inabilità permanente, sorge contestualmente il diritto autonomo all'erogazione della rendita ai superstiti, costituita su domanda degli aventi diritto da presentare entro novanta giorni dalla data della morte (art. 122 e art. 253, DPR n. 1124/65), senza necessità di dimostrare la vivenza a carico, se i beneficiari si identificano con il coniuge e/o i figli sino a 18 anni e/o i figli inabili di qualsiasi età.
Il sistema assicurativo, infatti, si preoccupa di indennizzare automaticamente il pregiudizio patrimoniale sofferto dai più diretti congiunti, come conseguenza diretta dell'evento lesivo che ha colpito il lavoratore, in ragione della presunta dipendenza economica dei medesimi.
Appare, infine, condivisibile la sentenza, laddove viene respinta la domanda di condanna al risarcimento del danno biologico calcolato con le Tabelle in uso presso il Tribunale di Milano. Si tratta di una pretesa priva di fondamento non solo per le ragioni spiegate dalla Corte, ma anche perché “mentre l'accertamento effettuato dall'INAIL tiene conto del sistema tabellare che considera astrattamente le singole menomazioni del lavoratore, con riguardo alla incapacità generica ed in base a coefficienti di valutazione predeterminati, l'accertamento del danno da responsabilità civile ex art. 2043 cod. civ., essendo finalizzato alla completa reintegrazione del danneggiato, fa invece riferimento alle concrete condizioni soggettive dell'offeso in rapporto alle sue attitudini specifiche ed alle sue esigenze di vita” (Cass. ord. 7 dicembre 2012, n. 22280). In sostanza, il pregiudizio biologico indennizzato dall'Inail è generico, personalizzato, essendo parametrato ad età e sesso dell'infortunato, statico, riguardando l'esclusiva menomazione all'integrità d'organo o d'apparato, dinamico – relazionale, in quanto tiene conto delle conseguenze negative che generalmente derivano da quella menomazione sullo svolgimento “degli atti ordinari del vivere comune a tutti”; al contrario, rimangono escluse le conseguenze e i riflessi della menomazione di carattere soggettivo, estranee alla lesione in sé e per sé considerata ed alla finalità pubblicistica dell'intervento di natura previdenziale – la liberazione dallo stato di bisogno e non la restitutio in integrum della responsabilità civile; come anche il danno tanatologico o da morte immediata, “perché la lesione dell'integrità fisica con esito letale intervenuta immediatamente o a breve distanza dall'evento lesivo non è configurabile quale danno biologico” (Cass. 27 maggio 2009, n. 12326). Ciò comporta che non possa traslarsi sic et simpliciter in ambito previdenziale il sistema di calcolo adottato in ambito civilistico. |