Mancata reperibilità in malattia. Quando l'assenza del lavoratore alla visita fiscale giustifica il licenziamento?

Paolo Patrizio
03 Marzo 2017

Mediante la previsione di cui alla L. n. 638/1983, articolo 5, si è imposto al lavoratore un comportamento (e cioè la reperibilità nel domicilio durante prestabilite ore della giornata) che è, ad un tempo, un onere all'interno del rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, ma il cui contenuto resta, in ogni caso, la “reperibilità” in sè. Con la conseguenza che l'irrogazione della sanzione può essere evitata soltanto con la prova, il cui onere grava sul lavoratore, di un ragionevole impedimento all'osservanza del comportamento dovuto e non anche con quella della effettività della malattia, la quale resta irrilevante rispetto allo scopo (che la legge ha inteso concretamente assicurare) dell'assolvimento tempestivo ed efficace dei controlli della stessa da parte delle strutture pubbliche competenti, siano esse attivate dall'ente di previdenza ovvero dal datore di lavoro ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 5.
Massime

Mediante la previsione di cui alla L. n. 638/1983, articolo 5, si è imposto al lavoratore un comportamento (e cioè la reperibilità nel domicilio durante prestabilite ore della giornata) che è, ad un tempo, un onere all'interno del rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, ma il cui contenuto resta, in ogni caso, la “reperibilità” in sè.

Con la conseguenza che l'irrogazione della sanzione può essere evitata soltanto con la prova, il cui onere grava sul lavoratore, di un ragionevole impedimento all'osservanza del comportamento dovuto e non anche con quella della effettività della malattia, la quale resta irrilevante rispetto allo scopo (che la legge ha inteso concretamente assicurare) dell'assolvimento tempestivo ed efficace dei controlli della stessa da parte delle strutture pubbliche competenti, siano esse attivate dall'ente di previdenza ovvero dal datore di lavoro ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 5.

In tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell'assenteismo e basati sull'introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere operati dai servizi competenti accessi presso le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi dell'articolo 5, comma 14, Decreto Legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 1983, n. 638, la violazione da parte del lavoratore dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo entro tali fasce assume rilevanza di per sè, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, e può anche costituire giusta causa di licenziamento.

Il dipendente non può limitarsi a produrre il certificato medico attestante l'effettuazione di una visita specialistica, ma deve dare dimostrazione delle “comprovate necessità” che impediscono l'osservanza delle fasce orarie, e cioè che la visita non poteva essere effettuata in altro orario al di fuori delle predette fasce, “ovvero che la necessità della visita era sorta negli orari di reperibilità, tenuto conto che il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità, di cui all'articolo 5 della normativa sopra indicata, si identifica in una situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il controllo deve essere esercitato.

Il caso

La fattispecie in esame trae origine dal licenziamento per giusta causa, comminato dalla società Poste Italiane S.p.a. nei confronti del direttore di un ufficio postale, risultato assente in ben cinque occasioni alla visita di controllo della malattia, senza che il medesimo dipendente avesse nè preventivamente comunicato alla datrice il proprio impedimento né idoneamente giustificato la propria impossibilità di essere presente presso il domicilio eletto nelle fasce di reperibilità.

Il Tribunale di Ragusa, prima, e la Corte d'Appello di Catania poi, avevano infatti respinto i ricorsi proposti dal direttore e riconosciuto la legittimità della disposta risoluzione del rapporto di lavoro, sul presupposto che, per un verso, nessuna giustificazione, neppure ex post, fosse stata fornita dal lavoratore in merito all'ultima assenza riscontrata, mentre le scusanti addotte per le precedenti quattro occasioni dovevano ritenersi inadeguate a giustificare la condotta del dipendente.

Per altro verso, non poteva non tenersi conto della recidiva posta in essere dal ricorrente pur a fronte della relativa e conseguente progressione sanzionatoria, nonché del particolare ruolo ricoperto dal medesimo, quale direttore di ufficio postale, caratterizzato dall'esercizio di compiti di coordinamento e controllo di altri dipendenti.

Ricorre in Cassazione il lavoratore, deducendo, con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione dell'articolo 5, comma 14, Decreto Legge 12 settembre 1983, n. 463 convertito nella L. 11 novembre 1983, n. 638.. per non avere la Corte, capovolgendo la gerarchia di valori stabilita dalla norma, ritenuto prevalenti le esigenze di tutela della salute del lavoratore rispetto a quelle poste a giustificazione dell'obbligo di comunicare preventivamente al datore di lavoro la necessità di assentarsi durante le fasce orarie di reperibilità..”.

Sosteneva, inoltre, con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione di norme del CCNL “.. per avere la Corte applicato le richiamate disposizioni collettive in modo non coerente alla necessità di un contemperamento tra l'esigenza di punire una condotta disciplinarmente rilevante e la indispensabile valutazione dei fattori, nelle medesime espressamente indicati, volti alla commisurazione della gravità della condotta e della gradazione/proporzionalità della sanzione applicabile ..”.

La questione

La principale questione giuridica trattata dalla sentenza in commento involge la tematica della possibile rilevanza e della corretta valutazione disciplinare circa la violazione, da parte del lavoratore, dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo nelle fasce orarie entro le quali devono avvenire gli accessi, presso i domicili dichiarati, ad opera degli ispettori all'uopo designati dai servizi competenti.

La soluzione giuridica

Nel respingere il ricorso promosso dal lavoratore, la Suprema Corte ribadisce il proprio consolidato orientamento in merito alla natura, alla rilevanza ed alla concreta portata dell'obbligo di reperibilità del lavoratore, rimarcando alcuni principi basilari che devono fungere da linee guida nella regolamentazione della materia e della casistica giuridica.

L'organo della nomofilachia, infatti, dopo aver ricordato nella sentenza in commento che la disposizione normativa di cui all'articolo 5, Decreto Legge 12 settembre 1983, n. 463 (che impone la reperibilità del lavoratore in alcune determinate fasce orarie) “è, ad un tempo, un onere all'interno del rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro”, evidenzia come la violazione di detta previsione “assume rilevanza di per sè, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, e può anche costituire giusta causa di licenziamento”, in quanto ciò che rileva è il mancato rispetto della “reperibilità in sè”, considerata come inadempienza di un dovere comportamentale connesso al rapporto lavorativo (conforme sul punto Cass. sez. lav., 3 maggio 1997, n. 3837).

Ne consegue che “l'irrogazione della sanzione può essere evitata”, da parte del dipendente, non certo mediante la produzione di un certificato medico attestante la sussistenza della malattia, “la quale resta irrilevante rispetto allo scopo”, ovvero mediante la produzione di una prescrizione concernente l'effettuazione di una qualsiasi visita specialistica durante le fasce di reperibilità, in quanto, come in più occasioni sancito dalla Suprema Corte, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare la ricorrenza di “una situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il controllo deve essere esercitato” ovvero “che la visita non poteva essere effettuata in altro orario al di fuori delle predette fasce”, posto che l'assenza durante le fasce orarie di reperibilità non è giustificata dalla semplice necessità di doversi recare presso strutture sanitarie per eseguire visite di controllo o accertamenti diagnostici, occorrendo altresì la prova rigorosa della indifferibilità e dell'urgenza (Cass. 13 dicembre 2005 n. 27429).

Su tali presupposti, il Giudice di legittimità ha riconosciuto, dunque, la validità e l'immunità da censure del ragionamento e della statuizione della Corte territoriale, la quale ha accertato come il lavoratore non solo non avesse mai documentato, neppure ex post, alcuna causa di giustificazione in relazione all'assenza dal domicilio verificata in occasione dell'ultima visita di controllo (mentre, in relazione alle quattro assenze precedenti, avesse prodotto certificati medici ritenuti inidonei a provare un serio e fondato motivo che potesse giustificare l'assenza alle visite domiciliari di controllo) ma, oltretutto, lo stesso avesse reiterato il medesimo comportamento rilevante sul piano disciplinare, pur dopo l'applicazione delle varie sanzioni conservative irrogate secondo una progressione crescente dal datore di lavoro, in uno alla considerazione, ai fini del giudizio di proporzionalità in rapporto alla più grave misura espulsiva da ultimo inflitta, della rilevanza del contenuto delle mansioni assegnate al dipendente, quale preposto all'ufficio, tali da comportare compiti di coordinamento e di controllo di altri dipendenti.

Osservazioni

L'autorevole pronuncia in commento rappresenta uno degli ultimi interventi della Suprema Corte sul dibattuto e mai sopito tema della rilevanza disciplinare della violazione, da parte del lavoratore, dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo nelle fasce orarie entro le quali devono avvenire gli accessi, presso i domicili dichiarati, ad opera degli ispettori all'uopo designati dai servizi competenti.

Come è noto, invero, le visite fiscali, previste dallo Statuto dei Lavoratori, rappresentano lo strumento che l'ordinamento fornisce a datori di lavoro, INPS ed ASL, per verificare l'effettivo stato di malattia del dipendente assentatosi dal lavoro per dichiarato stato morboso, così inserendosi, a pieno titolo, nell'ambito del complessivo disegno legislativo volto a contrastare un fenomeno, quale quello dell'assenteismo, che, negli anni, ha assunto proporzioni ed articolazioni davvero preoccupanti.

Ed allora, con la sentenza in esame, prontamente seguita, neanche ad un mese di distanza, da altra statuizione per così dire “gemella” (vedasi Cass. sez. lav., 4 gennaio 2017, n. 64), il Supremo Consesso di Legittimità ha ribadito, senza mezzi termini, come la disposizione normativa che impone la permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche domiciliari di controllo costituisca non già un onere bensì un obbligo per il lavoratore ammalato, in quanto l'assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo in ordine alla sussistenza della malattia, integra un inadempimento, sia nei confronti dell'istituto previdenziale, sia nei confronti del datore di lavoro, che ha interesse a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e, perciò, a controllare l'effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione.

Ne discende, dunque, che, la violazione di detto obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, comporti di per sé solo la legittima sanzionabilità della condotta ingiustificatamente assenteista alla visita fiscale del dipendente malato e ciò, come chiarito a più ripresa dalla Suprema Corte, “a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, la quale è ritenuta addirittura “irrilevante” nell'ambito della relativa vicenda disciplinare, in quanto la ratio legis del previsto obbligo comportamentale non involge l'effettività o meno dello stato morboso del dipendente, ma deve rinvenirsi nella volontà di assicurare l'assolvimento tempestivo ed efficace dei controlli da parte delle strutture pubbliche competenti, in uno alla correlata tutela dell'interesse datoriale di poter così verificare l'effettiva sussistenza della causa che impedisce l'espletamento della prestazione lavorativa dei propri sottoposti.

Ed allora, se, come sancito dalla Cassazione nella pronuncia in commento ed, ancor più palesemente, nella successiva sentenza 4 gennaio 2017, n. 64, non rileva ai fini dell'appurato inadempimento dell'obbligo de quo nemmeno “il fatto che in un momento successivo alla visita non eseguita per assenza della lavoratrice fosse stata confermata, da parte del medico dell'INPS, la malattia diagnosticata con la relativa prognosi”.

Deve giocoforza riconoscersi la validità del consolidato orientamento della Suprema Corte, che, nella sentenza in esame, hanno ribadito come, per andare esente da provvedimenti sanzionatori di natura disciplinare “il dipendente non può limitarsi a produrre il certificato medico attestante l'effettuazione di una visita specialistica, ma deve dare dimostrazione delle “comprovate necessità” che impediscono l'osservanza delle fasce orarie, e cioè che la visita non poteva essere effettuata in altro orario al di fuori delle predette fasce, “ovvero che la necessità della visita era sorta negli orari di reperibilità, tenuto conto che il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità, di cui all'articolo 5, della normativa sopra indicata, si identifica in una situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il controllo deve essere esercitato”.

In ogni caso, non va dimenticato che, come sottolineato a più riprese dalla Suprema Corte (vedasi Cass. sez. lav., 2 agosto 2004, n. 14735 e Cass. sez. lav., 6 aprile 2006, n. 8012) “ai sensi dell'articolo 5, comma 14, Decreto Legge 12 settembre 1983, n. 463, il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall'obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l'allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità, dovendo pur sempre consistere in un'improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di responsabilità”.

Lungi tuttavia dal rappresentare l'idea che l'abitazione costituisca, allora, un luogo di forzata permanenza per il lavoratore in malattia, la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21/2008, ha da tempo riconosciuto, in conformità e rafforzamento della voluntas legis sulla previsione delle fasce orarie di reperibilità, che il dipendente ha libertà di movimento a seguito della visita del medico fiscale, evidenziando come, altrimenti, gli sarebbe imposto un forzato riposo quotidiano che potrebbe non essere né utile né compatibile con alcune malattie la cui cura non sarebbe pregiudicata dall'allontanamento da casa, purchè in ogni caso, detta libertà di movimento e azione non ritardi la guarigione, il recupero delle energie e il conseguente rientro al lavoro.

Da ultimo, ma non certo per importanza, si pone infine la questione della proporzionalità della sanzione disciplinare risolutiva del rapporto di lavoro, per le ipotesi di verificata assenza del dipendente alla visita fiscale.

Ebbene sul punto, la sentenza in commento, nonostante la sua apparente perentorietà, si insinua nel solco del costante orientamento garantista dettato dalla Suprema Corte e non appare, a ben vedere, in contrasto con i vari precedenti specifici in materia, ultimo dei quali costituito dalla sentenza n. 4695/2016, pronuncia con la quale il Giudice di legittimità aveva precisato che "in tema di licenziamento, la valutazione della gravità del fatto non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo" (finendo con il cassare la sentenza d'appello sul presupposto che la Corte territoriale non avesse spiegato se nella condotta del ricorrente fosse ravvisabile l'elemento intenzionale, e cioè la volontà di sottrarsi alla visita fiscale, una volta che la mattina del secondo accesso del medico fiscale si era recato presso l'ambulatorio, sottoponendosi a visita).

La vicenda oggetto dell'arresto appena riportato, infatti, risulta profondamente diversa dal caso esaminato dalla Cassazione nella pronuncia del 02 dicembre 2016, n. 24681, in commento. Infatti, nella fattispecie de qua, in ossequio alle disposizioni pattizie del CCNL di riferimento, nella valutazione dell'entità afflittiva del provvedimento disciplinare la Corte territoriale ha avuto riguardo non solo alla intenzionalità del comportamento del lavoratore, ricavabile dalla mancanza di alcuna giustificazione, neppure ex post, in merito all'assenza riscontrata nell'ultima visita domiciliare di controllo, ma anche al “grado di negligenza” dimostrato dallo stesso nella reiterazione, in un contenuto periodo di tempo, della identica condotta pur a fronte della relativa e conseguente progressione sanzionatoria, consumatasi a partire dall'ottobre 2007, con inevitabile piena operatività della disposizione di cui all'art 56 del codice disciplinare, che vede la “recidiva plurima, nell'anno, delle mancanze previste nel precedente gruppo” sanzionata proprio con la misura del recesso con preavviso adottata dalla società ed oggetto di impugnazione, oltre che del noto principio secondo il quale “in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza” (Cass. sez. lav., 13 febbraio 2012)

A ciò si aggiunga, inoltre, la compiuta valutazione, ai fini del giudizio di proporzionalità in rapporto alla più grave misura espulsiva inflitta con l'ultima delle sanzioni disciplinari, del particolare ruolo ricoperto dal lavoratore, quale direttore di ufficio postale, con compiti di coordinamento e controllo di altri dipendenti e, dunque, la considerazione, fatta propria dalla Suprema Corte anche nella menzionata sentenza 4 gennaio 2017, n. 64, che il rapporto fiduciario caratterizzante l'incarico dirigenziale comportava una valutazione maggiormente rigorosa del comportamento dal medesimo posto in essere.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.