Vecchie e nuove tutele avverso il licenziamento ingiustificato alla luce dei principi comunitari

Marta Filippi
02 Aprile 2015

Si intendono analizzare i principi normativi operanti nell'ambito del diritto comunitario in materia di licenziamento ingiustificato al fine di sviluppare una riflessione giuridica concernente la conformità a detti principi dell'attuale disciplina delle tutele previste dall'ordinamento italiano in materia.
La tutela del lavoratore avverso il licenziamento ingiustificato nelle fonti europee

Come noto la politica sociale europea in materia di diritto del lavoro ha cominciato a svilupparsi verso la metà degli anni 70, epoca in cui la maggior parte degli stati membri avevano già da tempo invece raggiunto un elevato livello di protezione dei lavoratori. Ad esempio l'Italia con l'approvazione della legge 300/70 St. Lav. in materia di licenziamento ingiustificato era giunta a garantire al lavoratore la massima tutela possibile costituita dalla reintegrazione nel posto di lavoro ed dal pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione. Uno standard di tutela tra i più elevati in Europa all'epoca.

Attualmente la dimensione sociale dell'UE è sicuramente più tangibile. Per quel che riguarda la materia in particolare, fondamentale è l'art. 153.1.d) del TFUE il quale attribuisce al Parlamento europeo e al Consiglio la competenza di adottare mediante direttive le prescrizioni minime applicabili progressivamente in relazione alla “protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro”. Tuttavia, poiché l'esercizio di tale competenza è condizionato dalla regola dell'unanimità la sua attuazione è fin ora risultata decisamente problematica. Il diritto europeo incide comunque su alcune discipline nazionali grazie a disposizioni contenute in altre direttive. Limiti sono posti alla possibilità di licenziare un lavoratore che rifiuta la trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time e viceversa, analogamente, la direttiva 2001/23 (art. 4.1) esclude che il trasferimento dell'azienda o di parte di essa possa costituire valido motivo di licenziamento, sempre che non sussistano altre ragioni economiche, tecniche o organizzative.

A parte le citate fonti, la vera rivoluzione nel tortuoso percorso di riconoscimento dei diritti sociali nell'ambito del diritti comunitario, si è avuta con l'entrata in vigore della Carta di Nizza, documento al quale è stato attribuito formalmente il valore giuridico di trattato europeo dal disposto dell'art. 6 TUE. Per quel che qui interessa, l'art. 30 della Carta sancisce il diritto di ogni lavoratore a godere di una tutela in caso di licenziamento ingiustificato, includendolo cosìtra i fundamental rights.

Punctum dolens della norma è il fatto che essa non fornisce alcuna indicazione sul tipo di tutela applicabile al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato rinviando su questo punto alle legislazioni nazionali o al regime comunitario. La norma lascia dunque agli Stati la scelta tra la reintegrazione e la mera tutela risarcitoria. Eppure gli Stati e l'Unione non hanno una totale discrezionalità sul punto: la tutela apprestata, infatti, non dovrà essere così blanda o simbolica da non salvaguardare il contenuto essenziale del diritto, come si desume dall'art. 52, comma primo della Carta. Per ben comprendere il significato dell'art. 30 della Carta lo stesso dovrebbe essere interpretato alla luce dell'art. 24 della Carta Sociale Europea e della convenzione OIL n. 158/1982. Anche se rispettivamente fonti del Consiglio d'Europa, organo non appartenente alla UE, e dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la Corte di Giustizia, nel proprio ambito di competenza, ha spesso richiamato tali fonti. Inoltre il richiamo costante ai principi stabiliti nella Corta Sociale Europea e nella Carta Comunitaria dei Diritti Sociali Fondamentali dei lavoratori del 1989, dal trattato di Amsterdam in poi, ha rafforzato il valore e l'uso che di queste fonti si è fatto a livello di interpretazione del diritto comunitario. Più nel dettaglio l'art. 24 della Carta Sociale pone due principi fondamentali: il primo consiste nel diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o del servizio ed il secondo nel riconoscimento, in dette ipotesi, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione. Tali principi se utilizzati per leggere il contenuto dell'art. 30 della Carta permettono di rafforzare ancora di più la tesi interpretativa del limite del rispetto del contenuto essenziale del diritto.

Licenziamento ingiustificato e nuove tutele: dall'art. 18 Statuto dei lavoratori al Jobs act italiano

Dopo l'entrata in vigore dell'art. 18 , legge n. 300 del 20 maggio 1970, in materia di tutela avverso il licenziamento ingiustificato, la forma di tutela applicabile in tali ipotesi in Italia, nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, consisteva nella reintegrazione nel posto di lavoro e nel pagamento al lavoratore di un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegra di quest'ultimo. A parte le poche ipotesi di reintegrazione materiale, la vera tutela per il lavoratore era ovviamente costituita dalla reintegrazione intesa in senso giuridico ovvero nel riconoscimento dell'inidoneità dell'atto di recesso datoriale a far venire meno il rapporto lavorativo tra le parti che continuava senza soluzione di continuità.

Fin dalla sua introduzione normativa la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro è stata tuttavia al centro di un importante dibattito dottrinale e giurisprudenziale (Cass. Civile SS.UU., sentenza del 10 gennaio 2006, n. 141). Da un lato, infatti, se la tutela ripristinatoria è stata considerata l'istituto giuridico che meglio era capace di riequilibrare la disparità di forza contrattuale esistente tra lavoratore e datore di lavoro, dall'altro, già ad inizio anni '90, veniva considerata, da altra parte della dottrina, strumento di tutela particolarmente inadeguato ed arretrato. Ciò in quanto la sanzione della reintegrazione non solo priverebbe il datore di lavoro della fondamentale libertà di selezionare i suoi collaboratori ma, in modo ancor più grave, dal punto di vista economico non gli darebbe sicurezza, posto il suo impatto aleatorio sui conti dell'impresa. Elemento, quest'ultimo, cui prestano grande attenzione soprattutto gli investitori stranieri.

Nonostante il dibattito sviluppatosi l'art. 18 st. lav. è rimasto fondamentalmente inalterato per circa quarant'anni. Solo la crisi economica ed il significativo aumento della disoccupazione hanno spinto il legislatore ad intervenire, nell'ambito di una maggiore riforma del mercato del lavoro, sul tema della tutela prevista dall'art. 18 dello Statuto con la legge n. 92/2012.

Per la prima volta attraverso una grande riforma sul mercato del lavoro il legislatore modifica il testo l'art. 18 st. lav. cercando di limitare ad ipotesi specifiche l'applicazione della sanzione della reintegrazione a favore di una maggiore espansione dell'area coperta dalla tutela indennitaria. A seguito della riforma l'art. 18 st. lav. si caratterizza per la pluralità dei regimi sanzionatori in esso previsti. Ed infatti il nuovo testo dispone l'obbligo dalla reintegrazione con effetti risarcitori pieni, quello della reintegrazione con risarcimento limitato a 12 mensilità ed una tutela esclusivamente di natura indennitaria.

Analizzando il testo della novella legislativa e gli obbiettivi di crescita occupazionale che si poneva di raggiungere si può affermare che già in essa cominciano ad intravedersi i primi sintomi della volontà legislativa italiana di orientare il sistema del mercato del lavoro italiano verso politiche di flexicurity.

Con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del D.lgs. n. 23/2015, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro indeterminato a tutele crescenti, la tutela ordinaria nel caso di accertamento di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo diventa quella meramente indennitaria consistente nel pagamento di un'indennità pari a minimo quattro mensilità per i primi due anni di servizio. La tutela economica cresce poi di due mensilità per ogni anno di servizio fino ad un massimo di 24. La tutela ripristinatoria del rapporto resta solamente per il licenziamento discriminatorio, espressamente nullo, orale, per non accertata inidoneità psico-fisica, nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa qualora venga dimostrata direttamente in giudizio l'insussistenza del fatto materiale addotto a base del licenziamento. Una insussistenza che il giudice deve accertare senza fare ricorso a valutazioni in ordine alla proporzionalità tra la sanzione del licenziamento e l'infrazione disciplinare commessa. Questa valutazione rileverà ancora per l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, ma non per quanto attiene la sanzione applicabile che sarà quella indennitaria collegata all'anzianità di servizio.

La motivazione principale che ha indotto il legislatore ad approvare una nuova riforma ad appena due anni dalla precedente è principalmente dovuta al fatto che la legge 92/2012 non aveva dato sicurezza alle imprese in ordine alle conseguenze del licenziamento ingiustificato sia relativamente ai costi sia relativamente alla sanzione a cui sarebbero andate incontro. Per evitare di incorrere nello stesso errore, questa volta il legislatore elimina la discrezionalità del giudice in materia sanzionatoria.

Con la riforma il legislatore infine persegue poi l'ulteriore obbiettivo di riportare al centro del diritto del lavoro il contratto a tempo indeterminato. Per rendere competitiva tale forma contrattuale, all'interno dell'attuale sistema economico, in totale controtendenza rispetto alle politiche italiane portate avanti negli ultimi dieci anni si interviene sul tema della flessibilità in uscita. I costi di tale flessibilità sono assorbiti nella previsione del legislatore dall'inaugurazione di una nuova era di politiche attive previste anche esse dalla legge delega 10 dicembre 2014, n. 183. In particolare il contratto di ricollocamento e la riforma degli armonizzatori sociali sono gli strumenti attraverso i quali si intende recupere gli effetti di tutela e sicurezza rappresentati dalla vecchia reintegrazione.

Alla luce di tali osservazioni si può quindi concludere che con il D.lgs. n. 23/2015 si intende tutelare il lavoratore nell'ambito del mercato del lavoro. Ma se anche gli obiettivi e le finalità della riforma si possono considerare condivisibili, le modalità attraverso le quali si è intervenuti hanno suscitato un significativo dibattito. Numerose sono state infatti le critiche rivolte al D.lgs. n. 23/2015.

In primo luogo mentre alcune di queste hanno colpito il superamento della reintegrazione stessa, alcuni commentatori hanno criticato l'esiguità della tutela indennitaria prevista dalla riforma, in effetti tra le più basse in Europa, ad esclusione della Spagna, colpendo il vero cuore del problema. Si è infatti giustamente osservato come la previsione di un'indennità, come quella disciplinata, non rappresenti affatto una sanzione dissuasiva del licenziamento e riparatoria del danno subito. In tale modo si è ipotizzato che alla precarietà esistente potrebbe sostituirsene un'altra causata da un uso altrettanto precario del contratto di lavoro a tempo indeterminato. È tale preoccupazione che apre le porte ai dubbi di compatibilità della riforma ai principi europei in materia.

Ulteriore punto critico è la valutazione della proporzionalità, la quale se violata condurrà alla sanzione esclusivamente indennitaria. Il principio di proporzionalità rappresenta infatti per parte della dottrina un principio di giustizia sostanziale attraverso il quale si controbilancia il potere disciplinare datoriale.

Infine, da più parti, si è anche sottolineato il rischio che gli enti creditizi, davanti a contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, non erogheranno mutui e prestiti ai giovani lavoratori in assenza di idonee garanzie, non considerandola una forma idonea a garantire la stabilità del rapporto lavorativo

La tenuta della riforma alla luce dei principi sanciti dal diritto comunitario

Lo studio delle tutele previste in caso di licenziamento ingiustificato introdotte dal D.lgs. n. 23/2015, anche se ancora in corso, data la recente pubblicazione del testo finale in Gazzetta Ufficiale, ha già posto all'attenzione della dottrina alcuni profili di illegittimità costituzionale nonché di violazione dei principi comunitari vigenti in materia. Parte della dottrina più attenta si è infatti domandata se la previsione di una tutela esclusivamente indennitaria limitata ad un tetto massimo di crescita in relazione alla sola anzianità di servizio del lavoratore, come disciplinata dall'art. 3 del decreto legislativo, sia in effetti compatibile con il contenuto dell'art. 30 della Carta di Nizza e con l'art. 24 della Carta Sociale Europea, trattati entrambi ratificati dall'Italia.

Il problema è dunque capire se la tutela dell'art. 3 del D.lgs. 23/2015 sia compatibile con quell'interpretazione che si è fornita sul contenuto essenziale dell'art. 30 della Carta di Nizza, nonché da quanto previsto dall'art. 24 della Carta Sociale. Parte della dottrina ritiene infatti che la forma di tutela prevista dall'ordinamento non possa essere così blanda e modesta da non salvaguardare il “contenuto essenziale” del diritto, in conformità con quanto disposto dall'art. 52, primo comma della Carta. Pertanto una disciplina normativa che non costituisca per il datore di lavoro un serio rischio di incorrere in una sanzione adeguata non potrà considerarsi legittima alla luce del disposto dell'art. 30. Sulla base di tale interpretazione, inoltre, occorre dare atto di come già la vecchia tutela prevista in ipotesi di licenziamento ingiustificato prevista dalla legge 604/66 era da più parti accusata di violare il parametro normativo comunitario. Va infine segnalato come, tuttavia, parte della dottrina veda nel contenuto dell'art. 30 della Carta esclusivamente un limite al così detto potere di licenziamento “at will” (licenziamento arbitrale) proprio del diritto statunitense.

In conclusione

Analizzato il contesto di riferimento normativo europeo e l'evoluzione delle forme di tutele adottate dal legislatore italiano nei confronti dei lavoratori in caso di licenziamento ingiustificato, si può concludere che per quel che concerne i dubbi di non conformità della riforma ai principi comunitari in materia è necessario attendere che venga sollevata una questione pregiudiziale d'interpretazione alla Corte di Giustizia Europea per l'interpretazione dell'art. 30 della Carta di Nizza. Questa la sola via possibile operando la Carta solo nell'ambito del diritto europeo.

La certezza è che mai, come negli ultimi anni, l'Italia ha conosciuto un così profondo mutamento del contesto giuridico in materia di licenziamento ingiustificato.

Ma la questione principale è chiedersi fino a che punto può spingersi il legislatore. Qui interviene, oltre al testo costituzionale, anche il diritto europeo. Le stesse fonti normative di quella UE che spesso sentiamo così lontana dalla tutela dei diritti dei suoi cittadini.

Guida all'approfondimento

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