L’onere della prova della lesione del vincolo fiduciario nel licenziamento disciplinare

03 Maggio 2017

Sussiste violazione e falsa applicazione delle norme, di cui all'art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., quando il giudice non costruisce il proprio convincimento sulla base delle risultanze istruttorie ma su circostanze non puntualmente prese in esame e, comunque, più volte contestate.
Massima

Sussiste violazione e falsa applicazione delle norme, di cui all'art. 116 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., quando il giudice non costruisce il proprio convincimento sulla base delle risultanze istruttorie ma su circostanze non puntualmente prese in esame e, comunque, più volte contestate.

Il caso

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte di Cassazione concerne l'illegittimità del licenziamento di un direttore finanziario di una società, al quale erano state contestate l'assenza ingiustificata dal lavoro di tre giorni nonché di avere dichiarato, nel corso di una intervista rilasciata ad un giornalista di un quotidiano che negli anni erano state realizzate varie operazioni dirette a fornire una rappresentazione dei bilanci della società diversa dal reale.

La Corte d'Appello di Bologna conferma la decisione del giudice di prime cure che aveva respinto la domanda proposta dal dirigente volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento disposto nei suoi confronti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale il dirigente propone ricorso in Cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli art. 5, L. n. 604/1966 e dell'art. 2697 c.c.

In particolare, con un unico motivo di ricorso, il dirigente deduce che la Corte di merito ha attribuito valore di prova ad un articolo di giornale in cui era riportata una sua dichiarazione mai resa al giornalista, bensì contenuta in un verbale di interrogatorio reso al P.M.

La frase incriminata era stata estrapolata dal contesto delle dichiarazioni rese dal ricorrente e, lungi dal violare il vincolo fiduciario che sta alla base del rapporto del lavoro, si giustificava quale risposta ad una richiesta di collaborazione dell'autorità giudiziaria.

Invero, le dichiarazioni erano state rese dal lavoratore al P.M. in sede di indagini nell'ambito dell'inchiesta per bancarotta, aggiotaggio e falso in bilancio nei confronti dei vertici della società datrice di lavoro. Pertanto, il ricorrente deduce l'errore della Corte territoriale nel ritenere provato il rilascio dell'intervista, in ordine al quale l'onere della prova è a carico del datore di lavoro.

La questione

La pronuncia della Corte di Cassazione risulta particolarmente interessante perché consente di ribadire il principio di diritto processuale secondo il quale l'onere della prova della giustificatezza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo ovvero per giusta causa è a carico del datore di lavoro, il quale, in forza dei contenuti sostanziali del procedimento disciplinare, è onerato della dimostrazione del notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore licenziato per giustificato motivo soggettivo, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, come pure della sussistenza della ragione che non ha consentito la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro con il lavoratore licenziato per giusta causa.

Nel caso in esame la Suprema Corte, dichiarando fondato il ricorso, valuta l'iter argomentativo svolto dalla Corte territoriale, la quale aveva osservato che il ricorrente, nella lettera di giustificazioni e in sede giudiziale, aveva sempre affermato di non aver rilasciato al giornalista alcuna intervista, che quelle dichiarazionierano il frutto di un'autonoma iniziativa dello stesso e che, a sua totale insaputa, erano state attinte da fonte a lui estranea.

In particolare la Corte d'Appello aveva tenuto in considerazione il fatto che non vi era stata da parte del ricorrente una chiara e pubblica smentita sulla paternità di quelle dichiarazioni. Infatti il dirigente non aveva né contestato l'attribuibilità delle espressioni riportate né aveva presentato querela o comunque richiesto una rettifica alla redazione del giornale.

Pertanto, secondo la Corte territoriale, la condotta del ricorrente era stata idonea a giustificare il recesso, data l'incompatibilità delle dichiarazioni espresse con il perdurare del vincolo fiduciario che caratterizza la figura del dirigente.

Né poteva assumersi, a discolpa del dipendente, la circostanza che le operazioni descritte nell'articolo fossero di pubblico dominio, dal momento che la provenienza di quelle dichiarazioni, per il ruolo di direttore finanziario rivestito dal ricorrente, era anzi di per sé idonea a dotare le stesse di particolare credibilità.

Sul punto la Corte di Cassazione rileva che, nel pervenire a tale convincimento, la Corte di merito aveva del tutto trascurato l'eccezione relativa alla mancanza di prova dell'intervista, eccezione reiterata in appello dal ricorrente, il quale aveva altresì dedotto che quelle dichiarazioni erano state da lui rese al P.M. in sede di indagini nell'ambito dell'inchiesta per bancarotta, aggiotaggio e falso in bilancio nei confronti dei vertici della società e che le dichiarazioni riportate sul quotidiano erano state verosimilmente attinte da altre fonti, posto che si trattava di notizie di pubblico dominio, in quanto pubblicate dai giornali e diffuse dalla televisione.

In particolare, secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata aveva dato per scontata una circostanza che tale non era, vale a dire l'intervista rilasciata dal ricorrente al giornalista, sul mero rilievo che era stata prodotta in atti una copia del quotidiano sul quale era riportata tale intervista, senza tener conto delle difese spiegate sul punto dal ricorrente e senza motivare in virtù di quali elementi quella produzione fosse idonea a provare l'esistenza dell'intervista.

Così facendo, la Corte territoriale era incorsa nella violazione e falsa applicazione, ancor prima del disposto di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., vale a dire l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, delle norme di cui agli artt. 116 c.p.c. e 2697 c.c. concernenti rispettivamente la valutazione delle prove ed il riparto dell'onere della prova.

La Suprema Corte osserva che, con riferimento all'art. 116 c.p.c., che impone al giudice di valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, la Corte di merito, lungi dall'attingere il proprio convincimento dalle risultanze probatorie processualmente acquisite, aveva attribuito valore decisivo ad una circostanza non presa in esame, che il ricorrente aveva reiteratamente contestato.

Per quanto concerne invece la violazione dell'art. 2697 c.c., la Corte territoriale aveva omesso di considerare che l'onere della prova delle ragioni che giustificano il licenziamento (e quindi dell'avvenuto rilascio di quell'intervista) era a carico del datore di lavoro.

In proposito la Suprema Corte rileva che l'accertamento preliminare di quella circostanza, ove negativo, sarebbe stato idoneo a risolvere la controversia, a nulla rilevando che non vi fosse stata, da parte del ricorrente, una pubblica smentita o che il medesimo non avesse proposto querela nei confronti del giornalista o non avesse chiesto una rettifica alla redazione del giornale.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha osservato che la motivazione in base alla quale la Corte bolognese ha ritenuto il comportamento addebitato al lavoratore idoneo ad incrinare in modo definitivo il rapporto fiduciario tra le parti non appare plausibile perché fondata su una serie di presupposti erronei.

In particolare, la sentenza impugnata ha violato la legge in ordine ad un duplice profilo: da un lato, la pronuncia del giudice di secondo grado ha trovato fondamento non già su una prova acquisita nel processo, bensì su un fatto non provato e contestato dal lavoratore, dall'altro la Corte territoriale non ha correttamente applicato il principio dell'onere della prova, dal momento che la società datrice di lavoro non ha dato la prova dell'esistenza dell'intervista, sulla base della quale il dirigente era stato licenziato adducendo la rottura del vincolo fiduciario.

La Cassazione, ribadendo che incombe sul datore di lavoro provare il fatto posto alla base del licenziamento disciplinare, censura la parte della sentenza in cui la Corte d'Appello ha ritenuto sufficiente a provare l'addebito mosso al dirigente la semplice produzione in atti di una copia del quotidiano che riportava l'intervista, nonché l'assenza di una pubblica smentita dell'intervista da parte del dirigente, così come la mancata proposizione di querela o la richiesta di rettifica nei confronti del giornalista e del giornale.

In proposito la Suprema Corte precisa che se il fatto di rilevanza disciplinare addebitato dal datore di lavoro al dirigente consisteva nell'avere reso un'intervista avente ad oggetto fatti relativi alle attività aziendali strettamente riservati e confidenziali, la prova che il datore di lavoro avrebbe dovuto dare al fine di provare la legittimità del licenziamento avrebbe dovuto avere ad oggetto il fatto che l'intervista avesse effettivamente avuto luogo e che durante la stessa il dirigente avesse riferito al giornalista le precise parole riportate, non già sic et simpliciter, come è avvenuto, sostanziarsi nella mera produzione del giornale che riportava l'intervista.

Ne consegue l'illegittimità del licenziamento data la mancata presentazione della prova da parte del datore di lavoro in ordine all'avvenuto rilascio dell'intervista da parte del lavoratore.

A riguardo la dottrina (Grandi, Pera) rileva che l'art. 5, L. n. 604/1966 pone a carico del datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo dell'atto di recesso, coerentemente con quanto disposto dall'art. 2697 c.c. in base al quale il datore è tenuto ad allegare il fatto costitutivo della fattispecie genetica della facoltà di licenziare. Invero, la regola della ripartizione dell'onere probatorio di cui all'art. 5, si configura quale applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola generale dell'art. 1218 c.c. in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale.

La Suprema Corte afferma che l'onere della prova della sussistenza della giusta causa gravante sul datore di lavoro riguarda tutti gli elementi costitutivi della fattispecie posta a base del recesso; tali principi, oltre che un portato della stessa impostazione generale della disciplina in tema di licenziamenti individuali dettata dalla L. n. 604/1966, ove il licenziamento è considerato come una sanzione estremamente afflittiva cui ricorrere solo in casi estremi, trovano riscontro anche nella Costituzione, che considera il lavoro dei singoli consociati non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto nel senso di considerare il lavoro come lo strumento principale per dare un contenuto concreto alla partecipazione del singolo alla comunità, e quindi, per tutelarne la dignità.

Dunque, non solo l'onere probatorio della giusta causa deve essere a carico del datore di lavoro, ma la prova da questi offerta deve essere completa con riguardo a tutti gli elementi della fattispecie, nonché certa, non avendo cittadinanza nel nostro ordinamento un licenziamento fondato esclusivamente su prove indiziarie non adeguatamente verificate.

Invero, in tema di licenziamento per giusta causa, nella valutazione della congruità della sanzione espulsiva al fatto addebitato, il giudice del merito, dovendo considerare ogni aspetto concreto della vicenda processuale sottoposta alla sua attenzione, non può non tenere conto anche delle modalità di svolgimento del rapporto antecedente la mancanza che ha dato luogo al licenziamento e, in tale ambito, non può non considerare la durata del rapporto stesso e l'assenza di precedenti sanzioni a carico del lavoratore. (Cass. sez. lav., n. 25203/2013).

Recentemente la Suprema Corte ha ribadito il consolidato principio di diritto secondo il quale nell'ipotesi di licenziamento disciplinare, nella specie per assenza dal servizio, l'onere di provare la legittimità del licenziamento stesso ricade sul datore di lavoro, sicché ben può il lavoratore limitarsi ad impugnare il recesso contestando l'addebito disciplinare. Spetta infatti al datore di lavoro introdurre in causa gli elementi di fatto a fondamento della giusta causa e, dunque, provare la legittimità dell'ordine (Cass. sez. lav., n. 14375/2016).

Solo una volta perfezionata la prova gravante sul datore di lavoro entra in sede processuale la prova liberatoria a carico del lavoratore, il quale dovrà dimostrare l'esistenza di elementi idonei a giustificare quella determinata assenza dal servizio, per causa a lui non imputabile.

Osservazioni

A conclusione della disamina del caso sembra opportuno riflettere sulla portata del vincolo fiduciario e segnatamente sulla valutazione giudiziale in ordine alla lesione dello stesso che sia tale da legittimare la cessazione del rapporto di lavoro.

In proposito va osservato che nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento (Cass. sez. lav., n. 16864/2006).

Infatti, il licenziamento per giusta causa, essendo la più grave delle sanzioni disciplinari, può considerarsi legittimo solo se proporzionato al fatto addebitato al lavoratore. Pertanto, per stabilire l'esistenza della giusta causa di licenziamento occorre accertare se la specifica mancanza commessa dal dipendente, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e sia tale da esigere una sanzione non minore di quella espulsiva (Cass. n. 2900/2008).

Con precipuo riferimento alla lesione del vincolo fiduciario, giova precisare che l'obbligo di fedeltà imposto al lavoratore dall'art. 2105 c.c. va integrato con i principi generali di correttezza e buona fede sanciti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. che devono presiedere all'esecuzione del contratto e che, nel rapporto di lavoro, fondano l'obbligo in capo al lavoratore di tenere una condotta che non si riveli lesiva dell'interesse del datore di lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione lavorativa.

Sul punto giova richiamare l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale nella valutazione degli elementi idonei ad incrinare il rapporto fiduciario, e dunque a legittimare il recesso da parte del datore di lavoro, è l'elemento costituito dal disvalore ambientale che può connotare la condotta del dipendente, anche per la sua specifica posizione professionale e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale (Cass. sez. lav., n. 1077/2008).

Ne consegue che il recesso datoriale per lesione del rapporto fiduciario risulta adeguatamente sorretto ove si fondi sul disvalore insito nella finalità perseguita dal ricorrente. Invero, l'individuazione della sussistenza dell'effettiva proporzionalità tra violazione disciplinare del lavoratore e provvedimento sanzionatorio comminato nei confronti di quest'ultimo, risiede nella prodromica e indispensabile indagine afferente all'elemento psicologico che ha sostenuto la condotta contestata. Infatti, ai sensi dell'art. 2119 c.c., il licenziamento per giusta causa può dirsi legittimo solo ove sia sorretto da un grave inadempimento del lavoratore, che sia di tale entità da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto.

Guida all'Approfondimento
  • Grandi, Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, comm. all'art. 5, L. 604/1966, Padova, 2001, p. 965.
  • M.G. Mattarolo, Obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro. Art. 2105, Milano, 2000.
  • C. Smuraglia, La persona del prestatore nei rapporti di lavoro, Milano, 1967.

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