Insussistenza addebito disciplinare e sottile confine tra fatto giuridico e materiale: la conservazione del posto di lavoro al vaglio di giudici e legislatore
02 Agosto 2016
Premessa
È centrale perciò la definizione del concetto di “fatto”, se cioè deve intendersi quale fenomeno esclusivamente materiale o se ne debbano valutare anche le ricadute dal punto di vista giuridico.
La questione ha trovato nuova linfa del D.lgs. n. 23/15 , attuativo del c.d. contratto a tutele crescenti, nel disciplinare il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa, e relega la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento disciplinare in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
I due regimi, che non si sovrappongono perché il D.lgs. n. 23/15 si applica soltanto ai rapporti di lavoro instaurati dopo la sua entrata in vigore, consentono riflessioni comuni ad entrambi gli ambiti.
In caso di licenziamento disciplinare l' art. 18 dello Statuto dei lavoratori , così come riformato dalla legge n. 92/2012 , al quarto comma riconosce il diritto alla reintegra alle sole ipotesi in cui il giudice accerta che non ne ricorrono i motivi per insussistenza del fatto contestato (oltre all'ipotesi in cui il fatto addebitato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo o dal codice disciplinare).
Dalla sussistenza (o meno) del fatto oggetto dell'addebito disciplinare discende l'applicazione del regime di tutela avverso il licenziamento illegittimo. La qualificazione è fondamentale, perché ritenere l'insussistenza del fatto vuol dire riconoscere al lavoratore il diritto alla conservazione del posto di lavoro, oltre all'indennità parametrata alla retribuzione (c.d. tutela reale affievolita), mentre qualora il fatto si ritenga sussistente, la pretesa non potrà che sfociare nella tutela obbligatoria, con un indennizzo, senza il diritto ad essere reintegrato.
All'indomani dell'entrata in vigore della riforma Fornero, l'interesse dell'indagine è stato immediatamente rivolto alla considerazione del “fatto” giustificativo del licenziamento. Se cioè ai fini della verifica della sussistenza del fatto addebitato al lavoratore licenziato per motivi disciplinari, debba accertarsi solo che questo si sia materialmente verificato, a prescindere da qualunque connotazione soggettiva, o se si dovesse tenere conto anche della gravità del fatto stesso, tale da giustificare il licenziamento.
In sostanza l'alternativa era (ed è): ritenere il fatto esclusivamente nella sua storicità materiale, quale evento concreto, a prescindere da ogni valutazione discrezionale, oppure considerare il fatto addebitato quale comportamento che si imputa al lavoratore incolpato, quindi tenendo conto di ogni elemento costitutivo dell'addebito, verificando l'idoneità del fatto contestato ad integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo?
La prima soluzione si arresta a quello che è l'asciutto dato letterale della norma, “fatto materiale” tout court, perché quella apparirebbe l'intenzione del legislatore dalla formulazione del quarto comma dell'art. 18. Nel secondo caso si valorizza il concetto di “fatto giuridico”, riferito al comportamento addebitato e ad ogni sua componente, sia materiale che psicologica.
Le prime pronunce dei giudici di merito registrate sulla vicenda hanno dimostrato una propensione per questa seconda chiave di lettura, ritenendo che l'insussistenza di cui all' art. 18 co. 4 dello Statuto dei lavoratori debba intendersi riferita al fatto “giuridico”. Ciò perché, come dal primo provvedimento in materia (la ormai nota ordinanza della Sezione Lavoro del Tribunale di Bologna del 15 ottobre 2012 ), in caso contrario il rischio è quello di negare il diritto alla conservazione del posto di lavoro anche quando il comportamento è privo della coscienza e volontà dell'azione e quindi privo di rilevanza disciplinare.
La tesi del fatto giuridico ha dato la stura ad un orientamento giurisprudenziale piuttosto diffuso, per il quale l'insussistenza del fatto addebitato deve essere ritenuta non soltanto quando questo non si è verificato nella realtà fenomenica, ma anche quando, pure che ne sia accertata la sussistenza materiale, non sia imputabile al lavoratore ex art. 1218, ovvero non appartenga alla categoria degli inadempimenti o dei fatti che astrattamente considerati possono incidere sullo svolgimento del rapporto (così Corte App. Roma, Sez. lav., 22 maggio 2014 ).
La posizione del fatto giuridico come rilevante ai fini della individuazione del regime di tutela da riconoscere al licenziamento dichiarato illegittimo, si fonda sulla considerazione, innanzi tutto, che il legislatore del 2012, pur riformando profondamente l' art. 18 dello Statuto dei lavoratori , non ha modificato le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, ma ha previsto soltanto diverse tipologie di tutela. Conseguentemente, la verifica della idoneità del fatto contestato ad integrare gli estremi della fondatezza del licenziamento, implica la valutazione del comportamento alla luce della sua qualificazione giuridica oggettiva e soggettiva.
L'approdo della questione alla Corte di cassazione è parso scardinare la posizione dei giudici di merito che, ancorché recente per la gioventù della norma, appariva condiviso oltreché logicamente fondato. Secondo la prima sentenza di legittimità in materia ( Cass. Civ., Sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669 ), “l' art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 , come modificato dall' art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 , distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”.
Il fatto materiale richiede perciò una verifica unica, che esclude ogni valutazione relativa alla proporzionalità tra il fatto contestato e la sanzione applicata.
L'esclusione espressa della possibilità di ogni indagine sugli elementi inerenti la sfera soggettiva, parrebbe far ritenere che in punto di diritto debba essere considerato il puro fatto “materiale”, con l'esclusione di ogni rilievo circa la sua (anti)giuridicità e/o legittimità in termini di rilevanza disciplinare dell'addebito.
Quella della sentenza n. 23669/14 è però una lapidarietà soltanto apparente.
Due elementi individuabili dalla lettura della sentenza per esteso consentono infatti di affievolire tale certezza: da un lato i giudici prendono in esame il “fatto contestato”, nei termini cioè in cui è stato individuato e posto a fondamento del licenziamento. Quindi fatto materiale, ma così come formalizzato nella contestazione disciplinare, in uno perciò con le valutazioni poste alla base dell'addebito. Dall'altro, lungo tutto l'iter decisionale della pronuncia, è assunto come dato non controverso che l'addebito, così come qualificato e circostanziato dalle parti, riveste in effetti un inadempimento contrattuale del lavoratore, il che esclude il sindacato su questo aspetto nodale.
L'entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015 , attuativo della delega della legge n. 183/2014 e recante “disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” conferma l'attualità della questione, che si ripropone all'
art. 3
L' art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015 prevede l'ipotesi, dichiaratamente eccezionale, del diritto alla conservazione del posto di lavoro, nelle ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato, “esclusivamente”, qualora sia “direttamente” dimostrata in giudizio “l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Rimanendo alla sola lettura del dato testuale, la nuova norma, singolarmente pressoché riproduttiva della sentenza n. 23669/2014 della Cassazione , sembra risolvere tutti i dubbi interpretativi sin qui posti: il “fatto” di cui si deve tenere conto ai fini della verifica del diritto alla reintegra è soltanto quello che materialmente si è realizzato. In tal caso deve escludersi la possibilità della conservazione del posto di lavoro, essendo fra l'altro espressamente vietato ogni apprezzamento sulla proporzionalità del provvedimento disciplinare espulsivo rispetto all'addebito contestato.
Quindi, la norma delle c.d. “tutele crescenti” avrebbe risolto ogni dubbio: il fatto addebitato al lavoratore e sulla cui sussistenza si è fondato il licenziamento, una volta verificatosi nella mera realtà fenomenologica, impedirebbe il riconoscimento del diritto alla conservazione del posto di lavoro, a prescindere da ogni giudizio nel merito dell'addebito disciplinare.
In realtà ancora una volta la conclusione non può ritenersi così netta. Pur impedendo espressamente qualsiasi sindacato sulla proporzionalità del provvedimento, la legge presuppone la valutazione della sussistenza del fatto materiale “contestato” al lavoratore. Pertanto, esclusa la valutazione della proporzionalità, la delimitazione dei confini del giudizio operata dal legislatore delegato alla fenomenologia “materiale” del fatto contestato, implica la necessità – ai fini del rilievo della sussistenza del fatto stesso – che la contestazione configuri comunque un inadempimento. Ragionando diversamente, ed accogliendo cioè la tesi che qualsiasi fatto addebitato, purché materialmente verificatosi è considerato “sussistente”, il secondo comma dell' art. 3 del D.lgs. n. 23/15 riconoscerebbe asilo anche ai licenziamenti pretestuosi o nulli, che invece sono sanzionati con la tutela reale piena dall'art. 2 dello stesso decreto legislativo. Allo stesso modo non può ritenersi “sussistente” quel fatto che, pur materialmente verificatosi, non è addebitabile al lavoratore. Si tratta evidentemente di valutazioni che non violano il divieto stabilito dalla norma del giudizio sulla proporzionalità del provvedimento, e che inoltre consentono alla interpretazione del concetto di “fatto materiale” così espresso, di inserirsi coerentemente nel contesto legislativo, innanzi tutto recato dallo stesso D.lgs. n. 23/15 , evitando il richiamato contrasto con l'art. 2, oltre a non scardinare tutti i princìpi consolidati in materia.
Due più recenti sentenze della Corte di cassazione (Sez. lav., n. 20540 20545
art. 18 art. 3
Le due sentenze, prima facie, sembrano sposare la tesi della rilevanza - asciutta - del fatto materiale.
Ma la lettura delle pronunce denota una chiave di lettura sistematicamente orientata di tale premessa. Secondo i giudici infatti “non è plausibile che il legislatore, parlando di insussistenza del fatto contestato, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva. In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell' art. 18 Cass.civ., sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540 ). Inoltre, come motivato dall'altra sentenza di pari data, è da porsi la questione della gravità del nocumento morale e materiale arrecato al datore di lavoro dal comportamento contestato al lavoratore. Secondo la Corte “tale nocumento grave è parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare, onde l'accertamento della sua mancanza determina quella insussistenza del fatto addebitato al lavoratore, quale elemento costitutivo del diritto al ripristino del rapporto di lavoro. Questo elemento deve infatti considerarsi esistente qualora la fattispecie di illecito configurata dalla legge o dal contratto sia realizzata soltanto in parte” ( Cass.civ., sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20545 ). In conclusione
È fondamentale premettere che questa breve nota dà conto soltanto dei primi (talvolta primissimi) arresti giurisprudenziali, i cui futuri sviluppi rimangono comunque da verificare, pur confidando nella verosimile possibilità della tenuta della propensione per il rilievo del fatto “giuridico”, che denota oggettiva coerenza sistemica, puntualmente evidenziata dalle due ultime sentenze della Cassazione considerate.
Queste prospettano una soluzione coerente con le problematiche inizialmente poste sulla “materialità” del fatto e sul divieto di ogni giudizio sulla proporzionalità del provvedimento disciplinare rispetto all'addebito.
Escludere la punibilità di un fatto - pur materialmente verificatosi - perché del tutto irrilevante dal punto di vista disciplinare non afferisce infatti alla sfera del giudizio di proporzionalità e non interviene nelle attribuzioni di discrezionalità che il legislatore ha voluto riservare al datore di lavoro. Si tratta, diversamente, di una valutazione della (in)esistenza giuridica del fatto, che consegue alla irrilevanza disciplinare assoluta dell'addebito.
Diversamente opinando infatti, ancorando rigidamente la portata delle norme al fatto “materiale” in sé per sé, quale fenomeno puro e semplice la cui verificazione impedisce il riconoscimento della speciale tutela invocata, rivivrebbe il rischio dell'abuso della facoltà di recesso datoriale, che sarebbe così autorizzato a licenziare (rectius: sarebbe sanzionato con la sola indennità economica) purché abbia contestato qualsiasi fatto, anche quando del tutto insuscettibile di rilievo disciplinare.
Una simile eventualità si porrebbe in evidente contrasto con l'assetto di valori che il legislatore ha consolidato, punendo con le conseguenze maggiori (tutela reale “piena”) proprio i licenziamenti nulli e comunque illegittimi.
È altrettanto evidente come i princìpi appena premessi, frutto della elaborazione interpretativa dovuta all'applicazione dell' art. 18 dello Statuto dei lavoratori , valgono e sono integralmente riproducibili in riferimento al secondo comma dell'art. 3 delle decreto delle “tutele crescenti”, la cui applicazione non lede il dato “materiale” del fatto, voluto dal legislatore delegato né attinge, come detto, al divieto del sindacato sulla proporzionalità del provvedimento.
Concludendo quindi, non pare potersi dubitare che la valutazione del “fatto” della cui insussistenza si discute, anche quando definito dal testo di legge come “materiale”, non possa prescindere dalla considerazione della sua “giuridicità”, dovendone apprezzare in maniera unitaria, oltre alla sua componente oggettiva, l'elemento soggettivo e conseguentemente il suo rilievo dal punto di vista disciplinare. Operando in questo senso, non si supera il dettato normativo delle norme sulle tutele crescenti, che parla di fatto materiale, ma nel rispetto della scelta di politica legislativa dichiarata dalle nuove norme (ed a questi fini la chiave di lettura del “nuovo” art. 18 , può ritenersi identica), si raggiunge una soluzione che, oltreché valida per entrambi i regimi di tutela dai licenziamenti illegittimi qui brevemente enunciati, risulta oggettivamente coerente con i valori espressi dall'ordinamento in materia.
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