Conversazione dipendente-superiori: la registrazione occulta non è illecita se effettuata a fini difensivi

Umberto Oliva
03 Marzo 2015

La registrazione occulta di una conversazione tra un dipendente ed i suoi superiori, costituendo una potenziale prova utilmente spendibile in un processo civile ex art. 2712 c.c., non costituisce condotta illecita, neanche da un punto di vista disciplinare.
Massima

La registrazione occulta di una conversazione tra un dipendente ed i suoi superiori, costituendo una potenziale prova utilmente spendibile in un processo civile ex art. 2712 c.c., non costituisce condotta illecita, neanche da un punto di vista disciplinare.

Il caso

Il dipendente di una nota catena di supermercati, avente qualifica di Quadro, veniva fatto oggetto di licenziamento disciplinare, per giusta causa, in ragione di alcuni suoi comportamenti ritenuti dal datore di lavoro di grave rilievo, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, particolarmente intenso stante la qualifica contrattuale ricoperta.

Tra i comportamenti contestati spiccava l'accusa di avere tentato di registrare, senza autorizzazione, una conversazione avuta con i superiori gerarchici.

Il Tribunale di Torino, giudice di prime cure, dichiarava illegittimo il licenziamento ed ordinava la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ai sensi dell'art. 18 S.L..

In sede di gravame, la Corte di Appello subalpina confermava la decisione di primo grado, tuttavia operando un distinguo dal punto di vista motivazionale rispetto alla decisione impugnata. Nello specifico, riconosceva, diversamente dal giudice di prime cure, la rilevanza dal punto di vista disciplinare del tentativo di registrazione, pur giudicandola non così grave da motivare il recesso.

Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione la parte datoriale, con diversi motivi.

In particolare, per quanto qui d'interesse, il datore di lavoro censurava la decisione della Corte territoriale per avere sottovalutato la gravità disciplinare della vicenda relativa alla registrazione non autorizzata.

La questione

La questione in esame concerne la rilevanza, da un punto di vista disciplinare, del comportamento di un dipendente il quale venga sorpreso a registrare, o tenti di registrare, in modo occulto, una conversazione con alcuni superiori gerarchici.

Tale comportamento, realizzatosi in ambiente lavorativo, può essere sanzionato dal datore di lavoro, sul presupposto, evidentemente, che esso costituisca violazione dei doveri contrattuali del prestatore? Ed in caso affermativo, può costituire giusta causa del recesso aziendale?

Va chiarito, onde scongiurare generalizzazioni, che il caso in esame riguarda un lavoratore, il quale, dopo avere ricevuto in un breve arco temporale plurime critiche sul suo operato, era stato convocato da alcuni superiori gerarchici per una specifica riunione sul tema. In tale occasione il dipendente riteneva opportuno, a fini potenzialmente difensivi, registrare l'incontro con i superiori.

La trattazione della questione attinge, da un lato, alla tradizione giuslavoristica sul concetto di giusta causa, riferito alla condotta che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro, correlato a sua volta al concetto (nella sua accezione più estesa) di fedeltà del lavoratore (art. 2105 c.c.); da altro lato, al tema del trattamento dei dati personali (D.Lgs. n.196/2003), a sua volta connesso al diritto, di cui alla stessa legge sulla privacy, di acquisire prove utili a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria nonché, e in ogni caso, alla portata generale dell'efficacia scriminante del legittimo esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p.

La liceità della registrazione di una conversazione all'insaputa dell'interlocutore è fatto acquisito in giurisprudenza, così come la spendibilità di tale prova in sede processuale, rientrando essa nel novero di quelle previste dall'art. 2712 c.c. (Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1998, n. 12715; Cass. civ. Sez. III, 11 settembre 1996, n. 8219).

Va ricordato altresì che la regola generale dell'obbligo di preventiva informazione dell'interessato e il rilascio del suo consenso alla raccolta e trattamento di suoi dati personali (art. 13 D.Lgs n.196/2003) subisce esplicita eccezione (art. 24 D.Lgs. cit.) allorquando si tratti di “far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della normativa vigente in materia di segreto aziendale e industriale” (in materia di registrazione di conversazione telefonica ad uso difensivo, e sua relativa legittimità, si rimanda alla decisione del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 12 luglio 2000, in www.garanteprivacy.it).

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Appello torinese, nella sentenza impugnata, aveva riconosciuto la rilevanza disciplinare del comportamento in questione, pur non ritenendolo, nel caso di specie, idoneo a giustificare il recesso aziendale.

Di avviso diametralmente opposto in ordine a tale inquadramento è stata la valutazione della Corte di legittimità, la quale, confermando, comunque, la statuizione di illegittimità del recesso in linea con gli esiti della sentenza impugnata, ha voluto cogliere l'occasione per correggere, sul punto, la motivazione della Corte territoriale, negando con (ferma) decisione qualsiasi rilevanza disciplinare di tale comportamento.

La motivazione resa dalla Cassazione è assai concreta e di facile comprensione.

Secondo la Corte - posto che la registrazione di un colloquio tra persone è prova ammissibile nel processo civile (ex art. 2712 c.c.) e che nel caso di specie la registrazione era stata effettuata da uno dei presenti (diversamente rientrando la condotta nella diversa ipotesi di intercettazione) e, altresì, dato che la registrazione era finalizzata all'acquisizione di una prova a discolpa del suo autore - non vi era alcuna ragione per poter ritenere tale comportamento illecito, e ciò “neppure da un punto di vista disciplinare”.

In particolare, la Corte, concentrando la sua attenzione sul profilo della idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario, ha ricordato come quest'ultimo concetto debba essere inteso in termini di “affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l'obbligazione lavorativa” e non già diversamente (sul principio per cui “l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” si rimanda, ex multiis, a Cass., 12 dicembre 2012, n. 22798).

Dunque, per la Cassazione è da ritenersi per nulla illecito, ma anzi degno di tutela il comportamento di chi, mosso dal genuino intento di acquisire una prova a suo favore, registri una conversazione tra colleghi, trattandosi in tal caso di offrire protezione ad un diritto costituzionalmente garantito quale quello alla difesa (art. 24 Cost.). Diritto da ritenersi sussistente e meritevole di tutela non solo nella sede processuale, bensì anche in quella ad essa prodromica, e, quindi, in ogni caso sotto l'ombrello protettivo della scriminante di cui all'art. 51 c.p., da intendersi “di portata generale nell'ordinamento e non limitata all'ambito penalistico”.

Osservazioni

La sentenza in commento opera un deciso revirement rispetto il proprio unico precedente sul tema, portato dalla sentenza n. 26143 del 21 novembre 2013.

Infatti, solo un anno prima la stessa Sezione Lavoro (confermando una pronuncia della Corte di Appello di Torino, anche in quel caso intervenuta sul tema), aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore per avere questi registrato alcune conversazioni tra colleghi al fine di supportare la denuncia di mobbing nei confronti del superiore gerarchico.

In quel caso la Corte aveva ritenuto siffatto comportamento (non molto diverso, sostanzialmente, da quello considerato dalla sentenza in commento) passibile della massima sanzione disciplinare, integrando esso “una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi” che aveva ingenerato “un clima di mancanza di fiducia” nell'ambito lavorativo, e, quindi, con “irreparabile compromissione del rapporto fiduciario” tra il dipendente e il suo datore di lavoro.

Va detto che l'impianto motivazionale della sentenza qui commentata appare decisamente più solido di quello della precedente pronuncia, peraltro oggetto di perplessità in dottrina (cfr. Cristofolini, Sulla legittimità del licenziamento del lavoratore che registra e produce in giudizio le conversazioni intrattenute con i colleghi, nota a sentenza n. 26143/2013, in Argomenti Dir. Lav., 2014, 3, 781).

In effetti, pare indubitabile che il lavoratore, come qualunque altro cittadino, abbia il diritto –costituzionalmente garantito, come ammonisce la Corte - di difendere i propri diritti.

Ed è fatto acquisito che tale diritto possa legittimamente comportare la compressione di altri diritti, sia in forza di principi generali come la scriminante di cui all'art. 51 c.p. citato dalla sentenza in commento, sia in forza di norme speciali, quale l'art. 24 della legge sulla privacy (incorrettamente considerata dal precedente del 2013).

D'altra parte, in questo solco, è da tempo consolidato l'orientamento per cui è lecita la produzione giudiziale di documentazione aziendale, quand'anche riservata, qualora essa sia necessaria alla tutela di un diritto (Cass. civ., Sez. lavoro, 16 novembre 2012, n. 20163); e, quindi, in linea di principio, non si vede ragione per cui, a differenza di quanto è assodato in relazione all'impiego di tale documentazione, viceversa si dovrebbe negare la possibilità di acquisire fonti di prova attraverso delle registrazioni, sotto la scure della sanzione disciplinare.

D'altra parte, ancora, è principio anch'esso acquisito che il datore di lavoro possa fare uso di agenzie investigative al fine di verificare il corretto adempimento del lavoratore ai propri obblighi contrattuali (cfr., da ultimo, Cass. civ., Sez. lavoro, 26 novembre 2014, n. 25162). Eppure questa possibilità determina, di fatto, un'invasione della sfera privata delle persone spesso alquanto penetrante e difficilmente giustificabile (si pensi al caso dell'informatore del farmaco pedinato per verificare se e quando e per quanto tempo visita i clienti; o del lavoratore in malattia che viene controllato al di fuori delle fasce di reperibilità per verificare se pratica attività sportive od altre contrarie alla sua ripresa fisica: indagini che inevitabilmente finiscono per costituire vere e proprie intrusioni nella vita privata altrui, potendosi nel corso di esse apprendere una quantità imbarazzante di informazioni sulle più disparate abitudini di vita del soggetto indagato).

Dunque, la sentenza in commento afferma un principio corretto e coerente con i predetti orientamenti.

Nondimeno, occorre pure sottolineare come tale principio, inerendo dati personali delle persone carpiti in modo occulto, necessiti di essere trattato con ogni cautela.

In primis, deve essere fuori di dubbio che le registrazioni sono lecite (anche disciplinarmente) solo e soltanto nella misura in cui esse sono strumentali alla difesa od all'affermazione di un proprio diritto.

Di poi non importa se tale diritto verrà riconosciuto come tale in sede di giudizio; piuttosto rileva che vi sia una “oggettiva inerenza” tra prova e difesa.

Senza dubbio, pertanto, ricadono fuori dal perimetro della liceità (e, quindi, a fortiori, della irrilevanza disciplinare) registrazioni effettuate a fini illeciti, a fini emulativi, o anche solo per scopi non strettamente attinenti alla difesa di un diritto. E lo stesso deve dirsi, specularmente, nel caso dei pedinamenti dei lavoratori.

Diversamente, si rischia di passare da un rapporto di lavoro basato sul reciproco affidamento ad un rapporto connotato dal costante reciproco sospetto che, in qualsiasi occasione e per i più futili motivi, possano avere luogo registrazioni ed altre iniziative assimilabili.

L'attuale tecnologia (smartphone, tablet, etc.) certo non aiuta a scongiurare degenerazioni di questo tipo sul piano delle relazioni personali sul posto di lavoro; tuttavia, il limite posto dalla Cassazione dovrebbe costituire un efficace argine a tale rischio di deriva, laddove affinato e rafforzato nel senso che il reciproco spionaggio, al fine di assurgere ad esercizio del diritto di difesa, deve risultare strettamente connesso ad una specifica e realistica, per quanto potenziale, prospettiva di contenzioso e non già a mere ideazioni soggettive, al limite del paranoico, di questa o quella parte del rapporto.

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