Non viola l'obbligo di fedeltà il lavoratore che denuncia il datore di lavoro
05 Aprile 2017
Massima
Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria o all'autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto riportato a conoscenza delle autorità competenti Il caso
Un dipendente denunciava alla Procura della Repubblica il comportamento del datore di lavoro, addebitandogli la responsabilità della utilizzazione illegittima della cassa integrazione guadagni straordinaria e altre violazioni, relative alla disciplina legale e contrattuale del lavoro straordinario, alla utilizzazione di fondi pubblici e alla normativa sulla intermediazione di manodopera.
È stato licenziato per giusta causa, per aver violato l'obbligo di fedeltà e travalicato il diritto di critica, arrecando danno alla reputazione del datore di lavoro, che era stato assolto da quelle accuse.
In entrambi i gradi dei giudizi di merito è stata respinta l'impugnativa del licenziamento, perché, come evidenziato dalla Corte territoriale, “il diritto di critica non legittima il lavoratore a iniziative che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, siano idonee a ledere l'immagine e il decoro del datore di lavoro, determinando di conseguenza un possibile pregiudizio per l'impresa”.
Situazione pregiudizievole dimostrata, sempre secondo i giudici di merito, dalla circostanza che, nella fattispecie, il datore di lavoro era stato assolto e neppure l'ispezione amministrativa aveva rilevato gli illeciti denunciati.
Il lavoratore ricorreva pertanto alla Corte di cassazione, ottenendo il riconoscimento delle proprie ragioni per come riportato dalla massima premessa. La questione
La vicenda giunta all'attenzione della Corte riguarda ancora una volta l'individuazione in concreto del concetto di giusta causa di licenziamento, che ai sensi dell'art. 2119 c.c., non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro, neppure provvisoria, da cui il c.d. licenziamento “in tronco”.
Nello specifico, la verifica della riconducibilità di tale clausola generale alla fattispecie concreta, è tesa al paragone tra il comportamento del lavoratore (che denuncia il datore di lavoro addebitandogli comportamenti di rilievo penale) e le ricadute di tale comportamento sul vincolo fiduciario, una volta accertato, all'esito dei procedimenti penale ed amministrativo innescati, che quegli addebiti erano infondati.
Si è trattato di verificare cioè se può assumere rilievo disciplinare, ed eventualmente a quali condizioni e in quali limiti, la suddetta condotta del lavoratore, rispetto alle regole generali che incombono sul rapporto di lavoro, che impongono doveri di riservatezza, buona fede, tutela dell'immagine aziendale e del decoro datoriale.
Nello specifico, la risposta della Corte di Cassazione è stata di segno negativo, nel senso di non ritenere la condotta del dipendente idonea a giustificare il recesso per giusta causa, in quanto espressione dell'esercizio di un diritto (la querela) destinato alla garanzia del superiore interesse pubblico volto alla repressione degli illeciti. La soluzione giuridica
La sentenza n. 4125/2017, nell'affrontare la questione sottoposta, muovendo dal concetto di giusta causa di licenziamento come clausola generale, ha escluso che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell'azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia.
Nel giungere a tale conclusione la Corte attinge alla propria giurisprudenza consolidata, relativamente all'onere datoriale della prova della gravità del comportamento addebitato al dipendente (Cass. sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501), ed alla esclusione della configurabilità dell'addebito disciplinare quando il comportamento che si vorrebbe far rilevare ai fini punitivi costituisce il legittimo esercizio di un diritto (Cass. sez. lav., 8 luglio 2015, n. 14249).
Nella fattispecie l'esclusione della gravità del comportamento addebitato è data dall'accertamento della mancanza di consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, l'assenza di una sua volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi. Il lavoratore non ha perciò violato il dovere di fedeltà né quello di critica, avendo esercitato legittimamente il diritto di denuncia, riconosciutogli dall'art. 333 c.p.p..
Conseguentemente il comportamento del lavoratore non è rilevante in termini di violazione dell'art. 2105, perché l'obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia nell'obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..
Ciò posto, è pacifico che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa (art. 2094 c.c.) o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso.
Ma tale estensione dei canoni generali di correttezza e buona fede non può essere – come osservato dalla Corte – tale da imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, giacché in tal caso, è sempre la sentenza in commento a specificarlo, “si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di dovere di omertà (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento”. Conclusioni
La sentenza n. 4125/2017 testimonia l'ennesimo esempio della varietà, e talvolta complessità, della definizione concreta di tutte quelle norme a contenuto generale (non soltanto) in materia di lavoro, alle quali è compito dell'interprete assegnare la portata concreta da individuare caso per caso.
Nello specifico, il conflitto latente che si è presentato, e che ha visto soccombere il lavoratore in entrambi i gradi di merito, è stato tra il dovere di fedeltà (art. 2105 c.c.) e diritto di critica, rispetto alla tutela della reputazione aziendale.
La Corte di Cassazione ha rovesciato i provvedimenti dei giudici di merito, privilegiando il superiore interesse pubblico volto alla repressione degli illeciti rispetto al dovere di fedeltà e riservatezza. Quanto alle conseguenze lesive dell'immagine del datore di lavoro per una denuncia per fatti che poi si è accertato non aver commesso, la Corte fa recedere tale interesse rispetto a quello pubblico, purché il comportamento del lavoratore rimanga nell'alveo proprio delle finalità cui la querela è destinata e si astenga, ad esempio, da “iniziative volte a dare pubblicità a quanto riportato a conoscenza delle autorità competenti” (Cass. sez. lav., n. 4125/2017).
Il diritto-dovere di sporgere querela prevale sulla disciplina del diritto del lavoro e rende il comportamento del lavoratore non sanzionabile dal punto di vista disciplinare perché, altrimenti, come puntualmente evidenziato dalla Cassazione, risulterebbe scoraggiata la collaborazione che è richiesta al cittadino nel segnalare fattispecie di potenziale rilievo penale.
Parafrasando ancora un volta la pronuncia in commento, si apprezza che proprio la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori porta ad escludere che nell'ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa. Quest'ultima si realizzerebbe non per il fatto della assoluzione del datore per i reati addebitati, ma soltanto quando sussista il carattere calunnioso della denuncia, dato dalla verifica della consapevolezza in capo al lavoratore della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. |