La rappresentatività sindacale in azienda a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013

Emanuele Petrilli
03 Luglio 2015

La sentenza della Corte Costituzionale del 23 luglio 2013, n. 231 riconosce la giusta preminenza del requisito sostanziale della partecipazione alle trattative sul requisito meramente formale della firma del contratto, giudicando la capacità di essere riconosciuti al tavolo delle trattative come il reale indice per misurare la forza impositiva del sindacato nell'unità produttiva e, quindi, la sua effettiva rappresentatività all'interno della stessa.
Incostituzionalità insanabile dell'art. 19 e necessità di una ristrutturazione normativa

La Corte Costituzionale, con la sentenza additiva del 23 luglio 2013, n. 231, dichiara l'incostituzionalità dell'art. 19, lett. b), della l. 300 del 20 maggio 1970 senza però riuscire, non avendo né il dovere né il potere, nel dettagliare l'ormai necessario (e dalla stessa Coste auspicato) progetto di ristrutturazione della disposizione giudicata incostituzionale, riformando il criterio di validazione della rappresentatività in azienda. Si interviene sul significato e sulla portata pratica della sostanza della disposizione, lasciando però formalmente immutata la lettera del testo legislativo, contestualmente suggerendo al legislatore possibili azioni di intervento normativo.

La Corte Costituzionale “dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300”, “nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori in azienda”.

Come noto, nel caso Fiat – Fiom, era stata negata la rappresentatività alla Fiom, sicuramente rappresentativa dei lavoratori addetti all'unità produttiva, per non aver sottoscritto il contratto collettivo applicato nella stessa. La Corte, dichiarando l'illegittimità della norma statutaria che escludeva la possibilità di godere dei diritti di cui al Titolo III per le organizzazioni sindacali che non avevano firmato il contratto applicato nell'unità produttiva, afferma la preminenza del requisito sostanziale della partecipazione alle trattative sul requisito meramente formale della firma del contratto, giudicando la capacità di essere riconosciuti al tavolo delle trattative come il reale indice per misurare la forza impositiva del sindacato sul datore di lavoro e, quindi, la sua effettiva rappresentatività nella stessa unità produttiva.

A giudizio della Corte, mantenendo l'impostazione della lettera della legge, si sarebbe realizzata una “forma impropria di sanzione del dissenso” di quel sindacato che, decidendo liberamente di non firmare un contratto collettivo, rimaneva escluso dal godimento dei diritti di cui al Titolo III della l. del 20 maggio 1970, n. 300 (

A. Maresca, Prime osservazioni sul nuovo articolo 19 Stat. Lav.: connessioni e sconnessioni sistemiche).

Vincolare tale effetto negativo ad un eventuale dissenso espresso in occasione della stipula di un accordo sindacale avrebbe comportato una violazione diretta dell'art. 39, 1° comma della Costituzione, realizzando un sistema di asseverazione di un'organizzazione sindacale alla volontà del datore di lavoro o di altre organizzazioni più forti, in una visione che sarebbe apparsa quasi corporativistica e certamente contraria ai più generali principi del diritto sindacale moderno.

È senz'altro indubbio che la mancata firma sia espressione della libertà sindacale, ma si dovrebbe anche ragionare sul fatto che in un sistema di libertà sindacale, la protezione dei lavoratori avviene proprio per il tramite della firma del contratto collettivo e non solo attraverso la semplice partecipazione alle trattative (M. Napoli, La Corte Costituzionale “legifera” sulla Fiom nelle aziende Fiat, LD, n. 4, 2013). Al contrario, si dovrebbe ammettere un diritto alla partecipazione alle trattative che però, a giudizio di chi scrive, non può sussistere: il sindacato infatti partecipa alle trattative in ragione della sua forza e con tale convinzione sembra muoversi la stessa Corte Costituzionale, posto che, quando prospetta eventuali interventi del legislatore, richiama fra le possibili soluzioni anche quella di introdurre nell'ordinamento un obbligo a trattare che realizzerebbe quindi un diritto a partecipare alle trattative (A. Maresca, Costituzione della rsa e sindacati legittimati, ADL, 2013, fasc. 6, pag. 1289 – 1330. In senso contrario V. F. Liso, Opinioni sul “nuovo” art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, DLRI, n. 141, 2014). Se è da realizzarsi in futuro, di certo non sarà attuale.

La scelta operata dalla Corte Costituzionale nel senso di ammettere che la possibilità di esercitare i diritti sindacali di cui al Titolo III della l. del 20 maggio 1970, n. 300, debba spettare non solo alle organizzazioni sindacali che hanno siglato il contratto collettivo applicato in azienda ma anche a quelle che hanno partecipato alle trattative senza sottoscrivere l'accordo, lascia comunque esposto e non risolto, per stessa ammissione della Corte, il problema connesso alla non efficacia di tale criterio nelle ipotesi in cui manca un contratto collettivo applicato nell'unità produttiva. È la stessa Corte ad individuare alcune soluzioni normative giudicate percorribili.
In particolare, a giudizio della Corte Costituzionale, sarebbe possibile:
(i) puntare sulla “valorizzazione dell'indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti”;
(ii) ragionare sulla “introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento”;
(iii) valutare l' “attribuzione al requisito previsto dall'art. 19 dello Statuto dei Lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell'unità produttiva vigente”;
(iv) ammettere il “diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro”.

Nella sentenza del 23 luglio 2013, n. 231 la Corte evidenzia quindi due distinti profili di incostituzionalità dell'art. 19: da un lato viene rimossa, con sentenza additiva, l'incostituzionalità del criterio scelto dalla lettera dell'art. 19 e, dall'altro, la Corte sprona il legislatore a intervenire, indicando esplicitamente i percorsi di riforma attuabili (F. Liso, Opinioni sul “nuovo” art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, DLRI, n. 141, 2014).

Testo Unico sulla Rappresentanza: un passo ulteriore rispetto alla sentenza n. 231

Ragionando in tema di rappresentatività sindacale in azienda si deve far menzione, anche se solo brevemente, della novità del Testo Unico sulla Rappresentanza firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, quale ultimo atto del percorso iniziato con l'Accordo Interconfederale del 2011 e poi proseguito con quello del 2013. Le Parti firmatarie del Testo Unico hanno scelto di affrontare il tema della rappresentanza, con lo scopo principale di fare chiarezza, per lo meno per il settore industriale, evitando futuro contenzioso. In relazione al nuovo criterio della partecipazione alle trattative, il Testo Unico stabilisce che si intenderanno quali partecipanti alle trattative quelle organizzazioni sindacali che abbiano partecipato al procedimento per la stipula del contratto collettivo nazionale, come proceduralmente disciplinato dalle clausole del Testo Unico stesso.

Di fatto, per quel che qui interessa, il risultato raggiunto è quello di assicurare a tutte le organizzazioni sindacali che raggiungano il 5% di rappresentatività, considerando la media tra dato associato e dato elettorale sulla base delle ponderazioni effettuate dal Cnel, il diritto di godere dei diritti sindacali previsti dal Titolo III della l. 20 maggio 1970, n. 300, purché ovviamente siano presenti al tavolo delle trattative del contratto sindacale applicato in azienda, indipendentemente dal fatto che abbiano poi sottoscritto tale contratto.

Come giustamente evidenziato da importante dottrina (

F. Scarpelli, Il testo unico sulla rappresentanza tra relazioni industriali e diritto, Dir. Rel. Ind., fasc.3, 2014, pag. 687)

, appare ovvio che quanto affermato nell'ambito del Testo Unico circa il nuovo articolo 19 della l. 20 maggio 1970, n. 300, vada letto tenendo a mente l'approccio delle relazioni industriali delle Parti e non tanto quello più tecnico e giuslavoristico che potrebbe avere, ad esempio, il legislatore. Le Parti si limitano cioè a concordare la chiave di lettura della disciplina prevista dall'art. 19, impegnandosi contestualmente ad applicarlo in modo conforme alla lettura che essi stessi hanno scelto. Il godimento dei diritti di cui al Titolo III rimane comunque “garantito” anche in base ai criteri della lettera dell'articolo 19, ovvero quello della firma del contratto collettivo applicato all'unità produttiva, che continuerà ad applicarsi alle organizzazioni sindacali che non aderiscono al sistema del Testo Unico ma anche a coloro che, aderendovi, non raggiungano al livello nazionale la soglia del 5%, magari avendo firmato il contratto aziendale di una specifica impresa.

Si può affermare che le Parti del Testo Unico abbiano deciso di superare il disposto della sentenza della Corte Costituzionale, svelando la scelta che riterrebbero più opportuna per un intervento del legislatore che, come auspicato dalla stessa Corte Costituzionale, identifichi un criterio selettivo, in questo caso effettivo e presente, senza dover necessariamente considerare l'azione che si concretizza nella partecipazione alle trattative per la stipula del contratto collettivo applicato in azienda.

La necessità di un intervento legislativo

Assunto che la stabilizzazione delle relazioni industriali senza una regolamentazione per via legislativa appare oggi sempre più complessa, perché il sistema attuale è troppo fragile e una tale decisione sarebbe foriera di incertezze con effetti non solo nei confronti del mondo sindacale ma, come è ovvio, anche nei confronti del mondo produttivo, diversi sono stati i commentatori che hanno positivamente accolto la necessità di un testo di legge che abbia come obiettivo quello di regolare e proceduralizzare i rapporti sindacali, anche con riguardo all'art. 19 della l. 20 maggio 1970, n. 300.

Così nella proposta di legge di Lorenzo Zoppoli si ipotizza una semi-attuazione dell'art. 39 della Costituzione, limitata al livello periferico dell'azione sindacale. Si immagina una contrattazione collettiva di secondo livello che, stipulata attraverso un processo che prevede la partecipazione di un organismo unitario composto da rappresentanti delle organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di rappresentatività e anche da rappresentanti dell'impresa, ottenga efficacia erga omnes. Organismi di tal genere potrebbero ad esempio essere istituiti presso le direzioni territoriali del lavoro o presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ma ciò che dovrebbe essere il vero obiettivo sarebbe allora elaborare una regolazione funzionale della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Una strada percorribile in tal senso sembra essere già stata individuata dal legislatore alla lett. f) dell'art. 4, comma 62, della l. 28 giugno 2012, n. 92, che istituisce forme di partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza previste in sede contrattuale collettiva.

La proposta di legge del gruppo “Freccia Rossa” elabora il suo disegno di legge in senso recettivo delle linee guida tracciate dal Testo Unico sulla Rappresentanza del 2014. La scelta di valorizzare ciò che le Parti avevano già deciso, con effetti limitati al loro sistema, nel Testo Unico del 2014 (V. disegno di legge del gruppo “FRECCIA ROSSA”, Norme in materia di rappresentatività sindacale, di rappresentanza in azienda ed efficacia del contratto collettivo aziendale), deve necessariamente scontrarsi con un adeguamento necessario al passaggio dal terreno della contrattazione sindacale a quello della legge. Così nella proposta si individua un criterio misto, cioè risultante dalla media tra il dato associativo e il dato elettorale, come criterio di misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali nazionali. La soglia percentuale di sbarramento rimane quella già individuata nel Testo Unico 2014 del 5%. Con riferimento alla rappresentanza dei lavoratori in azienda, si concede la possibilità di scegliere fra il sistema R.s.u. e quello delle R.s.a., effettuando tale scelta in base a un criterio di maggioranza assoluta della rappresentatività delle associazioni sindacali all'interno dell'unità produttiva. Nonostante lo spazio lasciato alla forma della rappresentanza sindacale aziendale, appare evidente la predilezione verso la forma di rappresentanza sindacale unitaria, fra le righe indicata come quella preferibile per la gestione delle nuove relazioni industriali a livello aziendale. Di fondamentale importanza è l'introduzione dell'efficacia erga omnes delle disposizioni della contrattazione aziendale, nei confronti di tutti i dipendenti dell'azienda, al verificarsi di determinate condizioni.

In conclusione

La scelta operata dalla Corte Costituzionale nella sentenza del del 23 luglio 2013, n. 231 nel senso di ammettere che la possibilità di esercitare i diritti sindacali di cui al Titolo III della l. del 20 maggio 1970, n. 300 debba spettare non solo alle organizzazioni sindacali che hanno siglato il contratto collettivo applicato in azienda ma anche a quelle che hanno partecipato alle trattative senza sottoscrivere l'accordo, da vita ad un criterio per il riconoscimento dell'organizzazione sindacale rappresentativa in azienda più ampio di quanto fosse previsto dalla legge in precedenza. Tale nuovo criterio di attestazione della rappresentatività aziendale del sindacato, come visto, non copre però le ipotesi in cui non vi è un contratto collettivo applicato all'unità produttiva, lasciando quindi delle aree di “assenza” normativa che alimentano incertezza. La sentenza 231 del 2013 è allora sia esito che punto di partenza: conclusione di una vicenda giudiziale che è anch'essa culmine di una fase di conflitto intersindacale relativo al caso Fiat e input al legislatore affinché regoli, con i poteri di cui lui solo dispone, la disciplina della rappresentanza sindacale in azienda (R. Pessi, Rappresentanza e rappresentatività sindacale tra contrattazione collettiva e giurisprudenza costituzionale, DRI, 2013, Giuffrè Editore, Milano).

Come evidenziato dalla Corte, l'eliminazione del criterio incostituzionale previsto dall'art. 19 della l. 20 maggio 1970, n. 300 e l'aver stabilito, come criterio sufficiente, quello della partecipazione alle trattative, rimane soluzione inefficacie nelle ipotesi in cui manchi un contratto collettivo applicato nell'unità produttiva. A causa di tale vuoto normativo, continua a determinarsi un'illegittimità costituzionale dell'art. 19 della l. 20 maggio 1970, n. 300. Fra le diverse soluzioni percorribili per via legislativa, come sostenuto da autorevole dottrina (A. Maresca, Costituzione della rsa e sindacati legittimati, ADL, 2013, fasc. 6, pag. 1289 – 1330), la soluzione che sembra essere preferibile è quella fornita espressamente dalla Corte quando si richiama al “riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro”, richiamando direttamente il sistema delle R.s.u. Una giusta soluzione potrebbe essere allora quella di sostituire definitivamente, con un intervento legislativo, le rappresentanze sindacali aziendali con le rappresentanze sindacali unitarie.

L'obiettivo più ampio dovrebbe essere quello di riformare il sistema delle relazioni industriali in Italia, partendo proprio dall'impresa e dalle regole che regolano il sistema sindacale al suo interno.

È

infatti nell'impresa che, ad esempio, sono maturate le più innovative esperienze di partecipazione

(T. Treu

,

La partecipazione incisiva, idee e proposte per rilanciare la democrazia nelle imprese

, a cura di

M.

Carrieri - P. Nerozzi

- T.

Treu, Quaderni di Astrid, Il Mulino, 2015)

dei lavoratori anche alla gestione dell'impresa. Nonostante in Italia sia mancato un intervento legislativo concreto delle relazioni industriali, sarebbe utile guardare alle esperienze concrete delle aziende, anche in tema di partecipazione dei lavoratori nella gestione dell'impresa, per riuscire a concretizzare quell'intervento regolativo delle relazioni sindacali che è ormai necessario, in un'ottica collaborazione fra le parti.

È

necessario un cambiamento importante nel nostro sistema delle relazioni industriali, che potrà realizzarsi pienamente solo attraverso un intervento del legislatore. Si dovrà così ripensare ad un nuovo assetto regolativo della rappresentanza, che permetta una giusta specializzazione di funzioni e articolazione delle attività collettive fra i diversi livelli della contrattazione collettiva.

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