Obbligo di repêchage nell’ambito del “gruppo” d’impresa e capacità professionale specifica del lavoratore
09 Agosto 2017
Massime
Non assolve all'obbligo del repêchage il datore di lavoro che offra al lavoratore licenziando un trasferimento presso una sede di un'altra società del “gruppo”, in quanto quest'ultimo è rilevante sotto il profilo economico ma non sotto il profilo giuridico, salvo che si accerti l'esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.
Pur non potendosi pregiudizialmente negare che l'obbligo di repêchage possa incontrare un limite nel fatto che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, tuttavia è evidente che ciò debba risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro. Il caso
Una società, in occasione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, riteneva di aver assolto il proprio obbligo di repêchage in quanto, da un lato, la lavoratrice non aveva superato i colloqui di idoneità per il ricollocamento presso altre posizioni aziendali; dall'altro la società aveva offerto invano alla lavoratrice alternative possibilità occupazionali presso società diverse da quelle di appartenenza ma appartenenti allo stesso Gruppo societario. Le questioni
Le questioni affrontate attengono a due aspetti dell'obbligo di repêchage.
La prima questione è inerente alla sua estensione nel caso di “gruppo” d'aziende. A tal proposito appare interessante il fatto che non sia, come normalmente accade, il lavoratore a invocare l'astratta possibile ricollocazione presso altra società afferente al gruppo. Nel caso di specie è infatti il datore di lavoro a proporre tale differente ricollocazione.
La seconda questione, invece, affronta il delicato problema della possibile sindacabilità della valutazione discrezionale del datore di lavoro circa la possibilità di ricollocare “utilmente” il lavoratore. Si tratta, cioè, dell'annoso problema di bilanciamento dell'interesse occupazionale del lavoratore e del libero esercizio dell'attività economica da parte del datore di lavoro. Le soluzioni giuridiche
La soluzione offerta dalla sentenza in commento alla prima questione era per larghi versi prevedibile. Essa infatti ribadisce l'ormai consolidato principio per cui, sebbene l'ambito applicativo dell'obbligo di repêchage non sia limitato all'unità produttiva cui è addetto il lavoratore ma si estenda all'intero complesso aziendale, esso riguardi il gruppo solo in presenza di un unico centro di imputazione degli interessi.
Tale soluzione, peraltro, si inserisce nell'ambito della più generale tendenza della giurisprudenza lavoristica a considerare unitariamente il “gruppo” societario solo in presenza di una volontà elusiva della normativa, attuata attraverso il frazionamento di un unico centro di interessi in diverse entità societarie. E, secondo l'insegnamento della Corte, tale unico centro di interessi è rilevabile attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da diversi soggetti, da cui deve emergere l'esistenza di una serie di requisiti quali “l'unicità della struttura organizzativa e produttiva; l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; il coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo; l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori” (così, da ultimo, Cass. sez. lav., 5 gennaio 2017, n. 160).
Applicando al tema del rêpechage il principio per cui il mero collegamento economico tra più società non integra un “unico datore di lavoro”, è facile comprendere le ragioni per cui tendenzialmente l'obbligo di repêchage non si estenda alle società del gruppo (v. Cass. sez. lav., 10 maggio 2003, n. 7717), nemmeno qualora sia il datore di lavoro ad invocare tale rilevanza.
Quanto alla seconda questione, essa affronta direttamente il difficile bilanciamento fra libero esercizio dell'attività economica e diritto al lavoro. Ritiene parte datoriale, infatti, che la lavoratrice non potesse essere ricollocata in quanto non avrebbe superato i “colloqui di idoneità”. Sotto questo profilo la Corte afferma che, sebbene a livello teorico debba affermarsi il principio per cui l'obbligo di repêchage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale necessaria per svolgere il diverso lavoro, ciò deve risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili e palesate dal datore di lavoro.
Solo in tal modo è infatti possibile coniugare le esigenze cui si è fatto cenno, salvaguardando la libera iniziativa economica, ma evitando che l'obbligo di repêchage possa essere agevolmente bypassato da valutazioni occulte ed insindacabili persino nella loro effettività e veridicità. Osservazioni
Per quanto affermato al paragrafo precedente, la sentenza in commento pare collocarsi nel solco della tradizionale interpretazione dell'obbligo di repêchage e del rilievo ai fini lavoristici del gruppo.
Tuttavia, con specifico riferimento all'obbligo di repêchage, essa offre lo spunto per alcune di riflessioni in relazione al dibattito accesosi in seguito a Cass. sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592 e alla modifica dell'art. 2103 c.c. ad opera del D.Lgs. n. 81/2015.
La sentenza citata è stata la prima (seguita poi a breve raggio da Cass. sez. lav., 13 giugno 2016, n. 12101) che ha posto integralmente in capo al datore di lavoro la prova dell'impossibilità di una diversa occupazione del lavoratore licenziato, indipendentemente dall'indicazione da parte del lavoratore di un posto alternativo a lui assegnabile. Superando così il precedente orientamento, consolidato da oltre un ventennio, che imponeva l'onere di allegazione in capo al lavoratore (ex multis Cass. sez. lav., 18 luglio 2014, n. 16484).
La ragione di tale approdo giurisprudenziale è da ravvisarsi nel fatto che la Corte ha inteso affermare che la mancanza di occupazioni alternative integra la fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della L. n. 604/1966 e ne rappresenta uno degli elementi costitutivi. Per tale ragione, al pari degli altri elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo, l'onere della prova della sua sussistenza è integralmente in capo al datore di lavoro ex art. 5 L. n. 604/1966.
In sostanza con tale pronuncia, la Corte, ha definitivamente ancorato l'istituto del repêchage a un chiaro dato normativo e ha superato, da un lato tesi più deboli (quali la riconduzione ai principi generali di buona fede, al nesso causale o all'art. 13 St. Lav.) ma, soprattutto, la critica di quanti affermavano che esso fosse solo una “politica sociale” o consistesse, addirittura, in una vera e propria “invenzione” giurisprudenziale.
La sentenza in commento si pone su questa linea e ne conferma l'impianto. Posto che il ricollocamento attiene esclusivamente al giustificato motivo oggettivo, a nulla rileva il fatto che il datore di lavoro si operi per reperire un'occupazione alternativa in altra azienda. Ciò che rileva ai fini della legittimità del licenziamento sono le ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa previste dall'art. 3 della L. n. 604/1966 che comprendono la verifica della sussistenza di posizioni alternative all'interno dell'azienda.
La seconda riflessione attiene al rapporto fra onere di repêchage e nuovo art. 2103 c.c.
Secondo taluni la nuova formulazione della norma, legittimando il mutamento di mansioni a tutte quelle figure professionali riconducibili allo stesso livello contrattuale (e addirittura ammettendo il demansionamento), renderebbe indeterminabili i confini dell'obbligo di repêchage. Ciò in quanto può osservarsi che nello stesso livello contrattuale i contratti collettivi annoverano professionalità più disparate e pertanto il datore di lavoro potrebbe essere “costretto”, per via dall'obbligo di repêchage, a ricollocare il lavoratore in una mansione totalmente diversa e che addirittura esuli dalla sua professionalità.
Pur non riferendosi, ratione tempore, al novellato art. 2103 c.c., la sentenza in commento pare stemperare tali ricostruzioni. La Corte afferma che non è concepibile una simile compressione della libertà economica, l'unico limite è che tale libertà non sconfini nell'arbitrio e che sia sempre possibile esaminare – non certo la valutazione di merito – ma quantomeno la veridicità e l'oggettività dei dati che hanno condotto alla scelta imprenditoriale.
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