Legittimità di un secondo licenziamento, intimato prima dell'annullamento del primo
03 Novembre 2015
Massima
Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, ove il datore di lavoro abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento fondato su un motivo diverso, restando quest'ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne discende che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il licenziamento precedente. Il caso
La vicenda esaminata prende le mosse da una procedura ex art. 28, L. n. 300/1970 fondata su una dedotta violazione, da parte dell'azienda, dei principi di correttezza e buona fede nelle relazioni sindacali; del CCNL di riferimento; della L. n. 223 del 1991. Il Tribunale capitolino, quindi, con decreto ordinava la cessazione del comportamento antisindacale e, quindi, la reintegrazione di otto lavoratori ritenuti illegittimamente licenziati, con condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni globali di fatto spettanti a ciascuno dei lavoratori, dal momento del licenziamento sino alla effettiva reintegra. La successiva fase di merito si concludeva con il rigetto del ricorso. Nel grado d'appello, la Corte territoriale adita riteneva anch'essa illegittimi i licenziamenti per riduzione di personale sul presupposto dell'insufficiente contenuto della comunicazione alle oo.ss. valutando il comportamento datoriale antisindacale. Riteneva, invece, legittimo il successivo licenziamento intimato ad una lavoratrice per giustificato motivo oggettivo. La questione
Il punto d'interesse della decisione in commento è la questione sulla validità o meno, in caso di due licenziamenti successivi, del secondo. L'assunto della lavoratrice ricorrente era che il secondo licenziamento fosse privo di effetti essendo stata già licenziata per riduzione di personale e, pertanto, non poteva essere licenziata di nuovo se non quando il primo recesso fosse stato annullato. I Giudici di legittimità, invece, hanno respinto il ricorso affermando che “il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo”. Le soluzioni giuridiche
Il Collegio, nel respingere il ricorso della lavoratrice, ha ritenuto legittimo il comportamento del datore di lavoro che, dopo aver intimato un licenziamento per una determinata causa o motivo, ne abbia poi notificato un altro basato su una diversa causa o motivo. Secondo i Giudici di Piazza Cavour, infatti, il secondo atto di recesso è del tutto autonomo e distinto dal primo cosicché entrambi i licenziamenti sono astrattamente idonei a raggiungere il loro scopo tipico, atteso che il secondo produce effetti solo nell'ipotesi in cui il primo sia riconosciuto invalido o inefficace.
Nell'affermare tale principio, la Cassazione ha consolidato l'abbandono di quella giurisprudenza risalente, sulla quale la lavoratrice aveva fondato il proprio ricorso, secondo cui, in ambito di tutela reale, il rapporto doveva ritenersi risolto per mancanza di giusta causa o giustificato motivo fino a che l'atto espulsivo non fosse stato annullato dal Giudice. Tanto sul presupposto che l'azione di annullamento del licenziamento ha natura costitutiva cosicché, fino ad un'eventuale sentenza di accoglimento e, fatti salvi i suoi effetti retroattivi, l'atto produce regolarmente i suoi effetti, con la conseguenza che un secondo licenziamento, intimato prima dell'annullamento, doveva ritenersi privo di effetti in quanto sarebbe andato ad incidere su un rapporto non più esistente.
Tale impianto, però, è stato ritenuto carente da una giurisprudenza più attenta (esplicativa è la parte motiva di Cass. sez. lav., 20 gennaio 2011, n. 1244, ripresa anche da Cass. sez. lav., 6 dicembre 2013, n. 27390), poiché si riduce solo a considerare gli “effetti caducatori della pronunzia di illegittimità del licenziamento per carenza di giusta causa o giustificato motivo” facendo leva sul dettato letterale dell'art. 18 St. Lav. nel testo novellato dalla L. n. 108/1990, senza tener conto della portata complessiva della norma che, in tali fattispecie, prevede una serie di conseguenze a tutela del lavoratore, quali la reintegrazione nel posto di lavoro, il pagamento delle retribuzioni globali di fatto che avrebbe dovuto percepire dalla data dell'illegittimo licenziamento a quella della effettiva reintegra e dei relativi contributi previdenziali, che richiedono la continuazione del rapporto sia pure solo de iure.
Il licenziamento illegittimo, infatti, argomentano i Giudici di legittimità del 2011 “non è idoneo ad estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato”, ma produce solo un arresto della prestazione per effetto del rifiuto della parte datoriale a riceverla fino a che la sentenza (di accoglimento) non disponga la reintegra. Può parlarsi, dunque, solo di interruzione di fatto del rapporto di lavoro che non incide sulla continuità per cui appare corretto affermare la possibilità di un nuovo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo fondato su una nuova e diversa ragione giustificatrice. Osservazioni
L'indirizzo ormai ampiamente consolidato seguito dalla Suprema Corte è senz'altro condivisibile.
A sostegno soccorre la decisione della Corte Costituzionale 14 gennaio 1986, n. 7, richiamata nelle motivazioni di entrambe le citate sentenze della Corte di Cassazione (n. 1244/2011 e n. 27390/2013), che, rispetto agli artt. 3 e 38 Cost., ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 18 St. Lav. interpretato nel senso che: “a) il licenziamento illegittimo come non interrompe il rapporto di lavoro, non interrompe neppure il rapporto assicurativo previdenziale e b) sono dovuti i contributi sulle retribuzioni che siano state liquidate a titolo di risarcimento del danno, per il periodo tra il licenziamento e la sentenza che ordina la reintegrazione”. L'affermazione del Giudice delle Leggi ha preso spunto, così come si evince dalla parte motiva della sentenza, dai decisa dei Giudici di merito e della Corte di Cassazione che, per arrivare a tale conclusione hanno tenuto conto innanzitutto dell'introduzione della c.d. “stabilità reale” la quale, è stato osservato, interrompe la prestazione ma non il rapporto, tant'è che in caso di sentenza favorevole per il lavoratore, il lavoro riprende senza soluzione di continuità (il lavoratore viene reintegrato). Oltre a ciò, a conforto depone anche la circostanza che il danno da risarcire è rappresentato da quanto il lavoratore avrebbe dovuto percepire “in forza dell'obbligazione propria del rapporto, cioè anzitutto con la retribuzione”, detratto l'aliunde perceptum e fatto salvo l'eventuale maggior danno (da dimostrare a cura del lavoratore).
Di ulteriore conforto è pure Cass. sez. lav., 4 novembre 2000, n. 14426 laddove, dopo aver enunciato che il licenziamento dichiarato illegittimo non estingue il rapporto di lavoro “con la conseguenza che sul medesimo possono avere un definitivo effetto estintivo diverse cause sopravvenute (come dimissioni, morte del lavoratore, nuovo licenziamento non tempestivamente impugnato)”, a conferma indiretta della correttezza del suddetto principio, ha affermato che in ipotesi di successivo secondo atto espulsivo, non impugnato, il Giudice non potrà ordinare la reintegra nel posto di lavoro atteso che la mancata impugnazione ha definitivamente estinto il rapporto.
Per puntiglio espositivo, a corollario di quanto precede, è appena il caso di osservare che, sebbene con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs Act), si è ridotta l'area di cosiddetta stabilità reale a favore di quella obbligatoria, tale circostanza, ad avviso di chi scrive, non va ad incidere sul principio di diritto fissato dalla sentenza in commento e, cioè, che in ambito di tutela reale, la continuità e la permanenza del rapporto legittimano l'irrogazione di un secondo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ove fondato su nuovi e diversi motivi che lo svincolano dal primo rendendolo autonomo e distinto.
In conclusione, quindi, entrambi gli atti espulsivi sono astrattamente idonei a raggiungere l'estinzione del rapporto di lavoro, ma il secondo licenziamento produrrà i propri effetti tipici solo quando il giudice dichiari l'illegittimità del primo.
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