Recesso per mancato superamento del periodo di prova in presenza di nullità del patto e tutela reintegratoria "attenuata"
03 Novembre 2016
Massima
La cessazione unilaterale del rapporto per mancato superamento della prova rientra nell'eccezionale fattispecie del recesso “ad nutum” di cui all'art. 2096 c.c., sottratto all'ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento, fermo restando, peraltro, che il richiamo al mancato superamento di un patto di prova non validamente apposto è inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, prevista dall'art. 18, comma 4, St. Lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, applicabile “ratione temporis”. Il caso
Ad un lavoratore viene comunicato il recesso per “mancato superamento del periodo di prova”, all'esito di una proroga pattuita non in forma scritta. Il lavoratore medesimo, sul rilievo della nullità della predetta proroga, chiede di accertarsi l'illegittimità del licenziamento - così riqualificato il recesso in questione - e la reintegra nel posto di lavoro. La S.C. conferma la decisione del giudice di appello che riconosce al lavoratore - applicandosi al caso la l. n. 92 del 2012 (c.d. “Legge Fornero”) - la tutela reintegratoria “attenuata”. La questione
La questione in esame è la seguente: in presenza di patto di prova nullo, quale tutela spetta al lavoratore che, facendo valere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall'origine, agisca per l'ottenimento della declaratoria di illegittimità del licenziamento (così riqualificato il recesso per mancato superamento del periodo di prova)? Le soluzioni giuridiche
La S.C. perviene alla conclusione che il recesso comunicato al lavoratore “per mancato superamento della prova” costituisca - qualora il patto sia per varie ragioni nullo - un licenziamento in senso tecnico non assistito da giusta causa o da giustificato motivo, onde sanzionato, nell'area di operatività della “Legge Fornero” (e nella ovvia sussistenza del requisito dimensionale), con la tutela reintegratoria “attenuata” (disciplinata dall'art. 18, co. 4, St. Lav., ove è previsto che “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (…)”; la predetta tutela inoltre - per effetto del comma settimo - si applica, tra l'altro, nell'ipotesi in cui sia accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo).
Potrebbe di contro ritenersi che un licenziamento di tal fatta presenti un vizio non riconducibile a quelli tipici per i quali opera la tutela reintegratoria “attenuata”, così ricadendosi nell'ipotesi di ingiustificatezza non qualificata, ossia residuale, sanzionata (ex art. 18, co. 5, St. Lav.: c.d. tutela indennitaria “forte”) con una posta risarcitoria (da dodici a ventiquattro mensilità).
Potrebbe ancora sostenersi che, ove il datore, costituitosi tempestivamente in giudizio, abbia esternato un fatto giustificativo (ad esempio, mancanze del lavoratore o riassetto organizzativo) direttamente nella memoria difensiva, venga in rilievo l'ipotesi di vizio formale, sanzionata (ex art. 18, co. 6, St. Lav.: c.d. tutela indennitaria “debole”) sempre con posta risarcitoria (da sei a dodici mensilità), essendosi in presenza di un difetto di motivazione (giacché quella adottata nel licenziamento, non coincidente con quella evidenziata in memoria, è tamquam non esset). In tal caso, il datore di lavoro, per come si vedrà infra, dovrebbe essere ammesso a provare i fatti giustificativi indicati in memoria. Osservazioni
La motivazione “mancato superamento del periodo di prova” non illustra alcun fatto giustificativo, onde essa é da ritenere, nell'ambito di un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato, insussistente; se tale motivazione permane (come è plausibile immaginare avvenga, per lo più, nella pratica) nella memoria difensiva, è il fatto giustificativo a divenire insussistente, perché, in mancanza di sua tempestiva esternazione nella predetta memoria, nulla potrà provare il datore (su cui incombe l'onere) in giudizio. Si ha quindi una totale mancanza del fatto che, nell'area di operatività della “Legge Fornero”, comporta, in ogni caso, la tutela reintegratoria “attenuata”. Non sembra tuttavia, per come sopra anticipato, da escludere la rilevanza dei motivi, concernenti il fatto giustificativo, contenuti in memoria.
Ed infatti la violazione del principio di “immodificabilità” della motivazione non comporta più, nel sistema attuale, ingiustificatezza del licenziamento, ma dà luogo ad vizio formale sanzionato con la tutela indennitaria “debole”. Pertanto il datore può motivare il licenziamento, in origine intimato senza contestuale illustrazione delle ragioni, direttamente con l'atto difensivo, oppure motivarlo, sempre nel predetto atto, in modo difforme rispetto alle indicazioni contenute nel licenziamento in questione, senza incappare nella sanzione reintegratoria (sempre che, ovviamente, il fatto giustificativo rappresentato in memoria venga poi dimostrato). Certamente, nella pratica, non sarà agevole per il datore fornire una prova “credibile” della sussistenza di un fatto giustificativo non menzionato nella motivazione - tutta incentrata sul mancato superamento della prova - posta a corredo del licenziamento; non é però da scartare l'idea che l'insuccesso dell'esperimento sia dipeso, ad esempio, da una condotta negligente, culminata in una mancanza grave, del lavoratore, non indicata nella motivazione sul rilievo della sufficienza, ai fini dell'interruzione del rapporto, di un richiamo al mancato superamento del periodo di prova (una volta dato, pur erroneamente, per valido il patto). Tuttavia, anche qui, la motivazione contenuta direttamente nella memoria, in assenza di previa formulazione degli addebiti, potrebbe risolversi nella violazione del principio di immediatezza della contestazione che, per alcuni (ma non per la S.C., che, notoriamente, ravvisa, nel caso, un vizio procedurale), dà luogo alla tutela reintegratoria “attenuata”, per “insussistenza di un fatto (tempestivamente) contestato”.
La S.C. ha applicato, nella vicenda, la tutela di cui all'art. 18, comma 4, St. Lav., ricollegando l'ipotesi a quelle più evidenti di discostamento del recesso dalle relative fattispecie legittimanti. Si tratta di stabilire se la soluzione possa funzionare anche con riguardo ai licenziamenti intimati ai nuovi assunti. Infatti, il d.lgs. n. 23 del 2015 esclude, sempre, che il difetto di giustificato motivo oggettivo possa comportare la tutela reintegratoria, che rimane invece riservata all'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio “l'insussistenza del fatto materiale contestato”. Sul punto potrebbe presumersi, allora, che, nel silenzio del datore, il fatto da illustrare (ma, appunto, non illustrato) nella motivazione, a sostegno del licenziamento, é quello la cui mancanza avrebbe comportato l'effetto ripristinatorio. In altri termini è plausibile ritenere - non soccorrendo in ausilio altri criteri - che alla mancata difesa del datore vengano riconnesse le conseguenze a quest'ultimo più sfavorevoli. Opinando diversamente, il “silenzio” del datore sulle ragioni del licenziamento finirebbe, illogicamente, per essere sanzionato in misura più tenue - ossia con la tutela indennitaria - di quella - ossia la tutela reintegratoria - conseguente all'addebito di un fatto (che poi si sia rivelato materialmente insussistente); con il paradosso di rendere per il datore medesimo maggiormente conveniente, soprattutto in presenza di rapporto di lavoro sorto da non molto tempo, un atteggiamento meramente passivo. |