Demansionamento: liquidazione equitativa del danno

03 Dicembre 2015

La principale questione posta all'esame della Suprema Corte è la seguente: in caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno alla professionalità risarcibile, in via equitativa, ricorrendo al parametro della retribuzione?
Massime

L'illecita assegnazione di un lavoratore a mansioni inferiori rappresenta un fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale (impoverimento della capacità professionale, mancata acquisizione di un maggior saper fare, pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali), sia di natura non patrimoniale (pregiudizio di beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute).

In tema di dequalificazione, il giudice del merito può desumere l'esistenza del danno anche in via presuntiva, in base alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto, alla stregua di un criterio eziologico di normalità sociale.

È ammissibile, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso alla retribuzione quale parametro utile alla determinazione del danno derivante dalla violazione dell'art. 2103 Cod. civ.

Il caso

Una dipendente della RAI Radio Televisione Italiana, assunta in qualità di annunciatrice e andata in onda, per diverso tempo, come conduttrice del telegiornale, veniva rimossa, all'improvviso, dall'incarico e posta in situazione di inoperosità, a parte poche decine di minuti di annunci.

Pertanto, la dipendente adiva il Tribunale di Roma affinché venisse dichiarata l'illegittimità della decisione aziendale di rimuoverla dalle sue mansioni, con condanna del datore al risarcimento del danno.

Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale, la lavoratrice adiva la Corte d'Appello di Roma che accoglieva il gravame, dichiarando illegittimo il provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori e ordinando alla società di adibire la dipendente alle mansioni precedentemente espletate o ad altre equivalenti. Condannava, inoltre, il datore al risarcimento del danno in misura pari alla metà delle retribuzioni mensili dovute dalla data del demansionamento.

La società si è dunque rivolta alla Suprema Corte al fine di ottenere la riforma della sentenza d'appello. Ad avviso della RAI, i giudici di secondo grado avevano errato per non aver considerato come la graduale soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza della lavoratrice avesse determinato un affievolimento del suo diritto all'attribuzione di mansioni equivalenti, sancito dall'art. 2103 Cod. civ., con la conseguente legittimità dello ius variandi; la Corte d'Appello aveva altresì errato nel considerare sussistente un danno risarcibile - non essendo stata fornita la prova da parte della lavoratrice della perdita di utilità personali o patrimoniali di vita - derivante dalla lamentata dequalificazione. Per la RAI, inoltre, la Corte d'Appello aveva anche erroneamente liquidato il danno non patrimoniale, assumendo la retribuzione quale parametro di valutazione.

Il ricorso è stato respinto dalla Corte di Cassazione.

La questione

La principale questione posta all'esame della Suprema Corte è la seguente: in caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno alla professionalità risarcibile, in via equitativa, ricorrendo al parametro della retribuzione?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha respinto il ricorso della RAI, rilevando – prima di addentrarsi nel merito della vicenda – come non esista, contrariamente a quanto sostenuto dalla stessa ricorrente, un principio generale che, in caso di soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del lavoratore, determini un affievolimento delle tutele contemplate dall'art. 2103 Cod. civ. (cfr. anche Cass. 6 ottobre 2015, n. 19930).

Possibili deroghe al divieto di reformatio in peius delle mansioni, al fine di garantire al lavoratore il mantenimento del posto di lavoro si verificano solo in caso di:

  • accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di mobilità al fine di garantire il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti (art. 4, comma 11, L. 23 luglio 1991, n. 223; Cass. 1° luglio 2014, n. 14944);
  • inabilità del lavoratore conseguente a infortunio o malattia (art. 4, comma 4, L. 12 marzo 1999, n. 68; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22533);
  • gravidanza della lavoratrice se svolge mansioni a rischio o comunque vietate in relazione al suo peculiare stato (art. 7, comma 5, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151);
  • sopravvenuta infermità permanente (Cass., SS.UU., 7 agosto 1998, n. 7755);
  • patto di demansionamento, se vi è il consenso del lavoratore, non affetto da vizi della volontà, e se sussistono le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell'accordo (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19930; Cass. 7 febbraio 2005, n. 2375).

Secondo la Cassazione, nel caso in esame, non si era posto un problema di mancanza di alternative ma semplicemente la lavoratrice era stata adibita a mansioni che non potevano ritenersi equivalenti rispetto a quelle svolte in precedenza.

Venendo all'esame della questione principale, la Suprema Corte ha anzitutto ricordato che l'assegnazione a mansioni inferiori può cagionare una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale sia di natura non patrimoniale. In primo luogo, l'inadempimento datoriale può determinare un danno alla professionalità del lavoratore di contenuto patrimoniale, che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di ulteriori conoscenze, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali. La modifica in peius delle mansioni è, inoltre, potenzialmente idonea a ledere beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute. La violazione dei diritti della persona dà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale causato dall'illegittima condotta datoriale. Risulta infatti coinvolta la dignità personale del lavoratore e i pregiudizi alla professionalità possono risolversi nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.

Ciò premesso, la Corte ha confermato che, in tema di dequalificazione, il giudice del merito può desumere l'esistenza del danno anche in via presuntiva in base alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. Nel caso esaminato, è risultato che la lavoratrice è andata incontro alla totale erosione delle funzioni, con un depauperamento della professionalità che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo. Tali circostanze, ad avviso del Collegio, rendono plausibile il convincimento espresso dal giudice del merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito alla stessa di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze.

Per quanto attiene alla liquidazione di tali danni, la Corte si è premurata di precisare che il ristoro di pregiudizi non patrimoniali non può mai corrispondere all'esatta commisurazione, trattandosi di beni insuscettibili di una misurazione economica. La liquidazione dovrà pertanto essere necessariamente equitativa e, come tale, inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione. A questo proposito è ammissibile il ricorso alla retribuzione quale parametro utile alla determinazione del danno derivante dalla violazione dell'art. 2103 Cod. civ. Secondo la Corte, infatti, la retribuzione stessa è determinata in funzione del contenuto professionale delle mansioni, che ne rappresenta l'elemento di massimo rilievo. Per tale ragione la retribuzione costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione e, dunque, conclude la Corte, l'entità della retribuzione ben può essere assunta, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall'annientamento delle prestazioni proprie della qualifica.

Osservazioni

Con la decisione in esame, la Suprema Corte torna su un tema molto frequente nelle aule di giustizia.

Nel caso di specie, la Corte ha avallato la decisione d'appello che era pervenuta all'accertamento dell'an del danno alla professionalità desumendolo dalla intensità e dalla durata del demansionamento, alla stregua di un «criterio eziologico di normalità sociale».

In sostanza, mentre viene ribadito che, in linea di principio, l'assegnazione a mansioni inferiori solo eventualmente può condurre a determinare un danno e che tale danno deve, pertanto, essere dimostrato da chi lo invochi (escludendone, dunque, l'esistenza in re ipsa), in concreto, l'accertamento processuale del danno risulta non già direttamente e positivamente dimostrata dal lavoratore, ma ricavata in via deduttiva in base ad un non meglio precisato criterio causale dal fatto-demansionamento in quanto tale: tuttavia se siffatta «normalità sociale» (cosa su cui si può anche convenire) sussiste in ogni caso di demansionamento, il danno torna ad essere in re ipsa; a meno di precisare – ma ciò non emerge dalla sentenza – in quali casi e a fronte di quali requisiti opera il citato criterio eziologico.

La decisione in commento si presta anche ad un altro rilievo. La Società datrice ha lamentato il ricorso alla retribuzione quale parametro utile alla liquidazione del danno. La Corte ne ha confermato l'ammissibilità richiamando la stretta connessione tra ammontare della retribuzione e professionalità; e ricordando che, in materia di danno non patrimoniale, vertendosi su lesioni di beni insuscettibili di valutazione economica, la liquidazione non potrà che essere equitativa e approssimativa. Anche in questo caso il principio appare condivisibile. Tuttavia se, nel caso concreto, il danno riconosciuto alla lavoratrice sia stato di natura non patrimoniale, il richiamato nesso tra la retribuzione e la professionalità sottostante appare meno persuasivo come strumento per apprezzare il patimento o la frustrazione delle aspettative o gli altri danni prettamente non patrimoniali che possono essere venuti in rilievo.

Riferimenti

Fonti e precedenti:

Art. 2103 Cod. civ.;

artt. 2, 4, 32 Cost.;

Art. 4, comma 11, L. 23 luglio 1991, n. 223;

art. 4, comma 4, L. 12 marzo 1999, n. 68;

art. 7, comma 5, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

Sulla natura inderogabile del divieto di demansionamento:

Cass. 13 agosto 1991, n. 8835; Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897; Cass. 4 marzo 2014, n. 4989.

Sulle eccezioni all'inderogabilità:

sugli accordi di mobilità: Cass. 2 luglio 2014, n. 14994;

sull'inidoneità sopravvenuta: Cass., SS.UU., 7 agosto 1998, n. 7755; conf. Cass. 2 luglio 2009, n. 15500; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22533;

sul patto di demansionamento: Cass. 4 giugno 1992, n. 6822; Cass. 7 settembre 1993, n. 9386; Cass. 9 marzo 2004, n. 4790; Cass. 7 febbraio 2005, n. 2375; Cass. 5 aprile 2007, n. 8596; Cass. 18 marzo 2009, n. 6552; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1575; Cass. 22 maggio 2014, n. 11395.

Sull'accertamento del danno da demansionamento:

Cass. 14 novembre 2001, n. 14199; Cass., SS.UU., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274; Cass. 12 maggio 2009, n. 10864; Cass. 2 febbraio 2010, n. 2352; Cass. 21 aprile 2011, n. 9138; Cass. 7 giugno 2011, n. 12408; Cass. 19 settembre 2014, n. 19778.

Sulla natura patrimoniale e non patrimoniale del danno da demansionamento:

Cass. 10 giugno 2004, n. 11045; Cass 18 giugno 2009, n. 14199.

Sul ricorso alla retribuzione quale parametro per la liquidazione del danno:

Cass. 7 luglio 2001, n. 9228; Cass. 1° giugno 2002, n. 7967.

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