Appalto e distacco del lavoratore: profili istituzionali e differenze

06 Aprile 2017

Uno dei temi giuridici in continua evoluzione, nutrito come pochi altri da una pluralità di intrecci, è quello della “utilizzazione indiretta di lavoro”. Tale fenomeno ricorre in tutte quelle ipotesi in cui un soggetto, c.d. utilizzatore, dispone o beneficia della prestazione svolta da un lavoratore senza essere titolare del contratto di lavoro cioè senza rivestire il ruolo di datore di lavoro.
Dal rigoroso divieto del fenomeno interpositorio all'apertura verso l'utilizzazione indiretta del lavoro

I primi paletti normativi posti all'utilizzazione indiretta del lavoro furono fissati dal legislatore agli inizi del Novecento in quanto in tale periodo, per la prima volta, la si percepì come fenomeno da limitare. A tal proposito deve essere ricordata l'originaria formulazione dell'art. 2127 c.c., il quale vietava all'imprenditore di “affidare a propri dipendenti lavoro a cottimo da eseguirsi da prestatori di lavoro assunti e retribuiti direttamente dai dipendenti medesimi”.

Trattavasi, però, di una fattispecie specifica che non si estendeva a forme interpositorie diverse dal cottimo.

Fu solo con la successiva Legge 23 ottobre 1960, n. 1369, che, per la prima volta, venne sancito un vero e proprio generale divieto di interposizione di manodopera.

Tale legge vietava l'esecuzione di mere prestazione di lavoro mediante l'impiego di manodopera assunta e retribuita da un soggetto terzo rispetto all'utilizzatore.

Solo grazie all'attività di dottrina e giurisprudenza, pur se connotate da notevoli oscillazioni, fu possibile mettere a punto una linea di demarcazione teorica tra la fattispecie vietata dall'art. 1, Legge n. 1369/1960 ed una forma lecita di utilizzo dell'attività altrui che venne definita “appalto lecito”.

Si giunse, così, a ricondurre all'art. 1, Legge n. 1369/1960 il fenomeno dell'appalto che aveva ad oggetto solo prestazioni di lavoro laddove, per converso, l'appalto era da considerarsi consentito se l'appaltatore forniva un'opera o un servizio di natura imprenditoriale, realizzati, cioè, mediante un'organizzazione di mezzi e di persone gestita a proprio rischio.

Successivamente alcune sentenze della Corte di Cassazione dei primi anni '80 aprirono un ulteriore varco al divieto di interposizione di manodopera.

La Corte, infatti, ritenne conforme alla legge un fenomeno giuridico definito “distacco” (Cass. sez. lav., n. 1325/1988; Cass. sez. lav., n. 9517/1992), il quale realizzava un decentramento lecito dell'attività di lavoro al ricorrere di due requisiti quali:

  1. la sua temporaneità;
  2. la sussistenza di un interesse organizzativo del distaccante-datore di lavoro.

La consacrazione del favor legislativo nei confronti dei processi di utilizzazione indiretta del lavoro la si è avuta poi con il Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il quale, oltre ad abrogare la L. n. 1369/1960, ha fornito una disciplina organica agli istituti giuridici dell'appalto e del distacco.

L'art. 29, D.Lgs. n. 276/2003 e la "nuova" disciplina del contratto di appalto "genuino"

L'appalto è una forma contrattuale, attraverso la quale un soggetto, detto “committente”, incarica un imprenditore, detto “appaltatore”, di realizzare una determinata opera o un servizio in cambio di un corrispettivo in denaro.

Con l'art. 29, D.Lgs. n. 276/2003, i confini dell'appalto genuino sono stati ridisegnati recependo i principi di elaborazione giurisprudenziale.

Ritroviamo, così, che l'appalto può essere considerato “genuino”, qualora l'appaltatore sia un vero e proprio imprenditore e, come tale, impieghi una propria organizzazione produttiva ed assuma il rischio d'impresa nella realizzazione dell'opera o del servizio.

Diversamente, si considera appalto non “genuino” il contratto ove l'appaltatore non sia un vero e proprio imprenditore, in quanto del tutto sfornito di mezzi (ovvero macchinari, attrezzature, personale, ecc.), da impiegare per la realizzazione dell'opera o servizio richiesta dall'committente.

Al fine di verificare la non genuinità dell'appalto – ossia la presenza di un'impresa fittizia, priva cioè di un'autonoma organizzazione - soccorrono alcuni indici frutto dell'elaborazione giurisprudenziale.

Quest'ultima si è espressa più volte, precisando che sussiste interposizione di manodopera anche quando l'appaltatore è dotato di una vera e propria organizzazione d'impresa, ma si limita, in concreto, a fornire solo la manodopera, non assumendo alcun rischio economico in merito alla realizzazione del servizio dedotto in contratto.

Al contrario, affinché si abbia un contratto di appalto genuino, i lavoratori dell'appaltatore non devono sostituire in alcun modo i dipendenti del committente, ma devono essere riconoscibili come lavoratori dell'appaltatore e non devono confondersi con i lavoratori del committente (ex multis: Cass. sez. lav., 29 novembre 2011, n. 25270; Cass. sez. lav., 6 giugno 2011, n. 12201; Cass. sez. lav., 27 novembre 2012, n. 21030; Trib. Roma, sez. lav., 24 gennaio 2013, n. 1118).

Per le stesse ragioni è altresì necessario che non vi sia alcuna previsione che attribuisca rilievo a indicazioni/istruzioni fornite dal committente, in quanto i lavoratori dell'appaltatore impiegati nell'appalto:

  • non devono prendere ordini da soggetti diversi dall'appaltatore;
  • non sono soggetti al potere direttivo e di controllo del committente o di un suo dipendente;
  • non possono essere allontanati né sanzionati dal committente.

In concreto, il committente non può sostituirsi all'appaltatore riducendolo a mera entità di trasmissione delle proprie direttive e, per tale ragione, non può, ad esempio, decidere volta per volta, il numero di lavoratori da utilizzare.

L'esercizio del potere direttivo e organizzativo dell'appaltatore nei confronti del proprio personale utilizzato nell'appalto costituisce uno degli elementi più qualificanti di un contratto di appalto lecito, in quanto implica l'esclusione dell'intromissione del committente nell'esecuzione dell'appalto.

Pertanto, il contratto di appalto in cui l'appaltatore si limiti a fornire al committente mere prestazioni di lavoro, abdicando all'esercizio del potere direttivo nei confronti dei propri lavoratori ed al suo dovere di organizzare l'intera prestazione o del servizio in vista di un risultato produttivo autonomo, evidenziando così la carenza di un'imprenditorialità adeguata all'oggetto del contratto, deve considerarsi non genuino e, quindi, illecito.

Il distacco dei lavoratori e le sue forme legittime

La prima nozione legale di distacco è stata fornita dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Tale forma di gestione del personale aziendale, ai sensi dell'art. 30, D.Lgs. n. 276/2003, si configura quando “un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa”.

Può, quindi, assumersi che il distacco del lavoratore dà luogo ad un rapporto giuridico trilaterale che lega il “distaccante”, ovvero il datore di lavoro titolare del rapporto con il lavoratore da distaccare, il “distaccatario”, ovvero il soggetto a favore del quale e presso il quale viene svolta la prestazione lavorativa, e, infine, il “distaccato”, ovvero il lavoratore che viene destinato a rendere la propria attività presso il “distaccatario”.

I requisiti di legittimità dell'istituto in esame, ai sensi dell'art. 30, D.Lgs. n. 276/2003, così come precisato anche nella Circolare del Ministero del Lavoro 15 gennaio 2004, n. 3, e da ultimo nella Risposta ad Interpello del Ministero del Lavoro n. 1/2011, sono:

  1. l'interesse del distaccante: l'interesse deve essere specifico, rilevante, concreto e persistente (cfr. Ministero del Lavoro, Circolare n. 28/2005), da accertare caso per caso, in base alla natura dell'attività espletata e non semplicemente in relazione all'oggetto sociale dell'impresa. Può trattarsi di qualsiasi interesse produttivo del distaccante, anche di carattere non economico, che, tuttavia, non può mai coincidere con l'interesse lucrativo connesso alla mera somministrazione di lavoro;
  2. la temporaneità del distacco: il distacco deve essere necessariamente temporaneo. Tale previsione non incide sulla durata del distacco, breve o lunga che sia, ma sul presupposto che, qualunque sia la durata del distacco, non può trattarsi di passaggio definitivo;
  3. lo svolgimento di una determinata attività lavorativa: il lavoratore distaccato deve essere adibito ad attività specifiche e funzionali al soddisfacimento dell'interesse proprio del distaccante. Ne consegue che il provvedimento di distacco non può risolversi in una messa a disposizione del proprio personale in maniera generica e, quindi, senza predeterminazione di mansioni.

Vero è che, a fondamento della destinazione di un dipendente presso un terzo, vi possono essere svariate ragioni, in via esemplificativa: ragioni di controllo dell'attività del fornitore o di altro soggetto, collaborazione per la migliore riuscita del prodotto, piena messa in opera e addestramento delle maestranze dopo la fornitura di un macchinario o impianto complesso, ecc.

Tuttavia, si deve trattare di un interesse di tipo “produttivo”, ossia legato alle esigenze dell'impresa piuttosto che dell'imprenditore in quanto persona fisica, che può essere patrimoniale ma anche non patrimoniale.

L'interesse del distaccante determina, quindi, la legittimità del distacco; esso deve esistere al momento dell'adozione del provvedimento e sussistere per tutta la sua durata.

L'eventuale venir meno dello stesso, per l'avvenuto soddisfacimento dello scopo o il suo cessare, comporta l'immediata carenza di un requisito sostanziale e contestualmente l'illegittimità del distacco prolungato ingiustificatamente oltre.

Si precisa che l'interesse al puro e semplice risparmio del costo del lavoro – mediante rimborso a carico del distaccatario – è ammesso nelle sole aziende in crisi, al fine di evitare il licenziamento di alcuni dipendenti e previo accordo sindacale.

In tali casi si configurerebbe un “distacco collettivo” quale sottospecie legale del “distacco ordinario”, il cui l'interesse si identificherebbe nel mantenimento dell'occupazione dei lavoratori coinvolti.

Il profilo di maggior interesse manifestato più volte dalla giurisprudenza è, per l'appunto, l'interesse del distaccante. Difatti, affinché il distacco possa essere ritenuto regolare, afferma la Suprema Corte, è necessario che la causa del contratto continui ad operare sul piano funzionale, ovvero l'esecuzione della prestazione di lavoro presso il distaccatario deve costituire un atto organizzativo dell'impresa distaccante tramite il quale si realizza una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione medesima (ex plurimis: Cass. sez. lav., 18 agosto 2004, n. 16165; Cass. sez. lav., 22 marzo 2007, n. 7049; Cass. sez. lav., 23 aprile 2009, n. 9694; Cass. sez. lav., 12 maggio 2012, n. 7517; Cass. sez. lav., 22 gennaio 2015, n. 1168).

Inoltre, tale modifica deve essere necessariamente “temporanea”, requisito da intendersi come permanenza dell'interesse del distaccante per l'intera durata del distacco, anche nell'ipotesi in cui la durata dello stesso non sia predeterminabile dall'inizio (Cass. sez. lav., 25 novembre 2010, n. 23933; Cass. sez. lav., 2 settembre 2004, n. 17748).

Sul punto, si segnala la Legge 9 agosto 2013, n. 99, di conversione del D.L. n. 76/2013, la quale ha inserito una particolar previsione relativa al distacco di personale che avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa, avente validità ai sensi del D.L. n. 5/2009, convertito in Legge 9 aprile 2009, n. 33.

Tale ipotesi è disciplinata dal nuovo comma 4-ter del su citato articolo 30, D.Lgs. n. 276/2003, nel quale si legge che “l'interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell'operare della rete” (la medesima precisazione è indicata anche nella Circolare del Ministero 29 agosto 2013, n. 35: “l'interesse al distacco da parte del distaccante non deve essere accertato ma si presume connesso e, pertanto, sorge automaticamente, proprio in forza dell'operare della rete”).

Pertanto, alla luce di quanto fin qui riportato, l'uso distorto dell'istituto in commento, in termini di mera “fornitura di lavoratori” – di modo che una società, indipendentemente se collegata o meno ad un'altra, offra del personale a quest'ultima dietro il pagamento di un corrispettivo che coincida con il costo della manodopera – va ad integrare una pratica illegittima, dando luogo ad una “illecita somministrazione di personale” (ex art. 18, D.Lgs. n. 276/2003), esplicitamente vietata dalla legge e implicante incisive conseguenze sanzionatorie.

Diversamente, se correttamente applicato, il distacco costituisce una fattispecie di gestione del personale decisamente interessante, in quanto consente una flessibilità nella gestione del lavoro, non altrimenti attuabile.

Le fattispecie legali a confronto: analogie e differenze

Al fine di poter individuare delle analogie e differenze tra il contratto di appalto ed il distacco dei lavoratori, è opportuno analizzare i requisiti caratterizzanti gli istituti in esame, ponendo l'attenzione sulle relative conseguenze.

A. Sulla natura giuridica dell'istituto

L'appalto è un contratto bivalente in quanto stipulato tra n. 2 soggetti ovvero il “committente”, il quale incarica un altro imprenditore, detto “appaltatore”, per la realizzazione di una determinata opera o un servizio in cambio di un corrispettivo in denaro.

L'imprenditore “appaltante” che assume l'incarico provvede ad impiegare i propri mezzi nella realizzazione dell'opera e del servizio, assumendosi al contempo il rischio dell'impresa.

Il rapporto tra datore e lavoratori impiegati nell'appalto resta fermo, così che gli stessi svolgono la prestazione alle dipendenze e per conto dell'appaltatore, in qualità di unico datore di lavoro, seppur impiegati presso la sede dell'impresa committente, in quanto la loro prestazione è finalizzata all'opera o servizio dalla stessa commissionato.

Diversamente, il distacco dei lavoratori è un rapporto trivalente, in quanto interessa n. 3 soggetti, ovvero il “distaccante”, ovvero colui che provvede al distacco di uno o più dipendenti operativi nella sua azienda per soddisfare un proprio interesse, i “distaccati”, ovvero i lavoratori posti temporaneamente a disposizione di un'altra azienda, ed infine il “distaccatario”, ovvero l'azienda in favore della quale e presso la quale viene svolta la prestazione lavorativa.

Siffatto istituto non determina una novazione soggettiva del rapporto di lavoro, ovvero il sorgere di un nuovo rapporto di lavoro con il terzo beneficiario della prestazione, ma produce l'effetto di modificare le modalità di svolgimento dell'attività lavorativa rispetto a quanto convenuto dalle parti nell'originario contratto di lavoro (Risposta ad Interpello del Ministero del Lavoro 2 febbraio 2011, n. 1).

B. Sul rapporto giuridico datore – lavoratore

In regime di appalto, il rapporto datore – lavoratore è caratterizzato dal principio di solidarietà tra committente e appaltatore, a tutela dei suoi dipendenti o di eventuali sub-appaltatori.

Tale principio implica che i trattamenti retributivi, ivi comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, rispondono in solido i soggetti coinvolti nel contratto, ovvero committente ed appaltatore. Tale garanzia di solidarietà opera non solo a beneficio di lavoratori subordinati, ma anche nei confronti di lavoratori autonomi riguardi i compensi e gli obblighi di natura previdenziale ed assicurativa.

Siffatto principio, che di norma caratterizza il contratto di appalto, può essere derogato dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni dei datori di lavoro e lavoratori comparativamente più rappresentative del settore, che possono individuare – in alternativa – metodi e procedure di controllo e verifica della regolarità complessiva degli appalti.

Sono, altresì, previste in capo all'appaltatore, specifiche tutele ai fini della salute e sicurezza sul lavoro dei dipendenti impiegati nell'appalto. Difatti, il committente deve fornire informazioni dettagliate all'appaltatore sui rischi specifici presenti nell'ambiente di lavoro, nonché sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività, promuovendo il coordinamento continuo con l'impresa appaltatrice e favorendone un periodico aggiornamento. Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi interferenziali (DUVRI) che espone le misure adottate per eliminare o, quantomeno, ridurre i rischi da interferenze fra lavorazioni diverse.

Per quanto concerne il rapporto datore – lavoratore in regime di distacco, si precisa che, seppur i lavoratori “distaccati” svolgono la propria attività in favore e presso un altro soggetto rispetto al “distaccante”, lo stesso resta l'unico responsabile del trattamento economico e normativo degli stessi.

Difatti, gli obblighi retributivi, contributivi ed assicurativi nonché quelli dichiarativi fanno sempre capo al distaccante.

Inoltre, sul medesimo resta la potestà e l'obbligo attinente al processo del lavoro, considerato che con il distacco non si perviene ad una novazione del rapporto di lavoro.

Per quanto, invece, concerne il potere direttivo, si differenziano due tipologie:

  1. il potere direttivo esercitato dal distaccante (ad esempio potere di modificare il contratto di lavoro o di modificare il distacco stesso o addirittura revocarlo);
  2. il potere direttivo attuato dal distaccatario ed attinente alle concrete modalità di svolgimento della mansione (ad esempio definire l'orario d'inizio della prestazione, obblighi particolari all'interno della struttura produttiva, inserimento del lavoratore in un determinato gruppo di lavoro).

Contrariamente al potere direttivo, quello disciplinare, durante il distacco, resta completamente di competenza del datore distaccante, ovviamente coordinato dall'attività del distaccatario che – con tempestività e specificità – informerà il distaccante di eventuali inadempimenti del lavoratore distaccato.

Gli altri diritti del lavoratore sono di competenza, in linea di principio, sempre del datore di lavoro distaccante, come le ferie, indire l'assemblea sindacale, esercitare il diritto di sciopero.

Le uniche competenze del distaccatario sono i permessi e la trasferta, in quanto di carattere strettamente connesso all'attività svolta e, pertanto, di diretto coordinamento con lo stesso.

Resta evidente la necessità di un coordinamento per il trasferimento delle informazioni tra il soggetto distaccante e distaccatario, al solo fine di poter esercitare i reciproci poteri senza ledere il lavoratore e/o senza generare situazioni non definite nelle quali il lavoratore potrebbe intraprendere comportamenti non corretti.

C. La codatorialità negli istituti

Di recente, in riferimento ad un uso promiscuo del lavoratore da parte di una o più imprese, il cui ciclo sia variatamente integrato, viene spesso evocata l'espressione “codatorialità”. Si tratta di un'espressione polisenso, in quanto può semplicemente descrivere un concorso fra diversi datori di lavoro, con conseguente assunzione di determinate obbligazioni, o assumere connotazioni differenti.

Con riguardo al contratto di appalto, sia sul piano giurisprudenziale che dottrinale è spesso stata utilizzata tale dicitura per indicare il regime di solidarietà tra committente ed appaltatore e connessa ripartizione di oneri e doveri nei confronti dei lavoratori impiegati nell'appalto.

Per quanto, invece, concerne il distacco, la codatorialità ha ricevuto una significativa ingerenza legislativa per effetto della Legge 9 agosto 2013, n. 99, che ha introdotto il comma 4-ter all'art. 30, D.Lgs. n. 276/2003, relativo dell'istituto del distacco.

Secondo tale disposizione, se il distacco ha luogo fra imprese che abbiano sottoscritto un “contratto di rete” non solo l'interesse del distaccante sorge automaticamente, ma per le medesime imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stipulato tra le parti.

Ebbene, tale previsione normativa apre nuove prospettive in relazione all'uso promiscuo dei lavoratori da parte di più imprese giuridicamente autonome, ferma restando la complessità delle obbligazioni che nascono dal rapporto di lavoro.

Conclusioni

Il diritto del lavoro “classico” è nato e si è sviluppato con il solo fine di offrire una protezione al lavoratore operante alle dipendenze di un singolo datore di lavoro.

Lo stesso legislatore per decenni ha ostacolato l'introduzione di deroghe al rapporto biunivoco tra tali soggetti ritenendo la relazione come “esclusiva”.

Tale rapporto biunivoco, come visto, si è trovato a fare i conti con il progresso industriale che ha determinato il fenomeno della c.d. “frammentazione del ciclo produttivo” e lo sgretolamento della “tecnostruttura concentrata che assicurava l'integrità del processo di produzione in un unico edificio”.

Da qui l'intervento del legislatore, il quale ha cercato intervenire per regolare i nuovi modelli di produzione basati sull'aggregazione e sull'integrazione tra soggetti giuridicamente distinti ma tra loro connessi mediante nuovi vincoli contrattuali.

Non resta che attendere gli sviluppi normativi che potranno scaturire dal ripensamento della figura del datore di lavoro.

Studio Legale Quorum

Guida all'Approfondimento
  • Silvia Ciucciovino, in AMOROSO-DI CERBO-MARESCA, Diritto del lavoro, vol. I, La Costituzione, il Codice Civile e le Leggi speciali, Giuffré, Milano, 2017
  • Raffaele De Luca Tamajo, Profili di rilevanza del potere direttivo del datore di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2005, I, pag. 467
  • Raffaele De Luca Tamajo, Metamorfosi dell'impresa e nuova disciplina dell'interposizione, in Riv. It. Dir. Lav., 2003, I, pag. 183
  • Raffaele De Luca Tamajo, Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: analisi e prospettive, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, I, pag. 4
  • Oronzo Mazzotta, in “Trattato di Diritto Privato” a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Diritto del Lavoro, Milano, 2016
  • Oronzo Mazzotta, Rapporti interpositori e contratto di lavoro, Milano, 1979
  • Alberto Perulli, Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: problemi e prospettive, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, I, pag. 30

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