Termine di decadenza ed erronea indicazione da parte dell’INPS nel provvedimento di rigetto
04 Settembre 2015
Massima
L'erronea indicazione da parte dell'INPS del termine per adire l'autorità giudiziaria, contenuta nel provvedimento di rigetto del ricorso amministrativo, non è idonea a determinare l'inoperatività della decadenza annuale. Il caso
Con la sentenza n. 38 del 2008 la Corte d'Appello di Trento sezione distaccata di Bolzano rigettava il gravame proposto dall'INPS avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accertato il diritto di F.P. alla percezione dell'indennità di disoccupazione. La Corte argomentava che l'eccezione di decadenza annuale proposta dall'Istituto ai sensi del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 4 7 Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione I'INPS, affidato a due motivi; F.P. è rimasta intimata. La questione
Con la sentenza in esame la Suprema Corte si è espressa in ordine alla tutela, o meno, dell'affidamento del destinatario del provvedimento amministrativo di rigetto, nel quale l'INPS aveva erroneamente indicato il termine di decadenza per proporre la domanda in giudizio. Le soluzioni giuridiche
Premessa La regolamentazione temporale del procedimento amministrativo previdenziale è stata originariamente introdotta al fondamentale scopo di rendere effettiva la tutela del cittadino assicurato, soggetto debole del rapporto previdenziale. L'indicata "intenzione" normativa è rimasta l'unico fine delle norme che si sono occupate dell'argomento fino a quando, in tempi recenti, le esigenze di bilancio dello Stato non hanno portato il legislatore a mutare la prospettiva. Si è così passati dalla originaria visione garantista a quella, attuale, di "favore" dell'Ente previdenziale contingentando in maniera stretta (?) i tempi per l'esercizio delle azioni poste a tutela delle prestazioni previdenziali. La modificata visione prospettica ha determinato l'inserimento di un termine decadenziale al precipuo fine di evitare che l'Ente deputato al pagamento delle provvidenze possa essere chiamato a pagare somme di denaro dopo un certo tempo ritenuto congruo dal legislatore.
L'evoluzione storica La norma fondamentale che regolamenta il procedimento per l'esercizio dell'azione previdenziale è contenuta nell'art. 47 del D.P.R. n. 639/1970. Nella sua originaria stesura, la citata disposizione testualmente prevedeva: «[1] Esauriti i ricorsi in via amministrativa, può essere proposta l'azione dinanzi l'autorità giudiziaria ai sensi degli articoli 459 e seguenti del codice di procedura civile. [2] L'azione giudiziaria può essere proposta entro il termine di dieci anni dalla data di comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunziata dai competenti organi dell'istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della decisione medesima, se trattasi di controversie in materia di trattamenti pensionistici. [3] L'azione giudiziaria può essere proposta entro il termine di cinque anni dalle date di cui al precedente comma se trattasi di controversie in materia di prestazioni a carico dell'assicurazione contro la tubercolosi e dell'assicurazione contro la disoccupazione involontaria. [4] Dalla data della reiezione della domanda di prestazione decorrono, a favore del ricorrente o dei suoi aventi causa, gli interessi legali sulle somme che risultino agli stessi dovute. [5] L'Istituto nazionale della previdenza sociale è tenuto ad indicare ai richiedenti le prestazioni o ai loro aventi causa, nel comunicare il provvedimento adottato sulla domanda di prestazione, i gravami che possono essere proposti, a quali organi debbono essere presentati ed entro quali termini. È tenuto, altresì, a precisare i presupposti ed i termini per l'esperimento dell'azione giudiziaria». Il delineato quadro normativo venne integrato dall'art. 7 della L. n. 533/1973 (rubricato “Formazione del silenzio rifiuto sulla richiesta agli istituti previdenziali e assistenziali”) con il quale, sempre al fine di favorire l'assicurato ed, in particolare, di evitare che l'esercizio dell'azione previdenziale dipendesse dai tempi, non brevi, entro i quali l'Ente preposto adottava i singoli provvedimenti, si stabilì che: «In materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, la richiesta all'istituto assicuratore si intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione, senza che l'istituto si sia pronunciato». Come ben si vede la norma appena indicata pone un limite temporale al procedimento amministrativo previdenziale ed attribuisce all'assicurato la facoltàdi esercitare l'azione senza attendere l'adozione del provvedimento conclusivo da parte dell'Ente assicurativo. Mette conto a questo punto riferire che il procedimento amministrativo relativo alla materia che ci occupa è stato ridefinito dalla legge 88/89. In particolare, l'art. 46 della citata legge, al comma 5, ha previsto che «il termine per ricorrere al comitato provinciale è di novanta giorni dalla data di comunicazione del provvedimento impugnato. Trascorsi inutilmente novanta giorni dalla data della presentazione del ricorso, gli interessati hanno facoltà di adire l'autorità giudiziaria». Dal combinato disposto delle norme di cui abbiamo riferito deriva che il procedimento amministrativo previdenziale risulta così cadenzato: Proposta la domanda, l'Ente previdenziale deve adottare il provvedimento conclusivo entro 120 giorni. In assenza di provvedimento, l'assicurato deve proporre il ricorso amministrativo entro i successivi 90 giorni, scaduti i quali gli è concesso ulteriore termine di altri novanta giorni per l'inizio del giudizio. La complessiva durata del procedimento è, quindi, pari a trecento giorni. I termini appena descritti erano stati considerati non incidenti sul diritto alla prestazione. Si era ritenuto, infatti, trattarsi di un termine di decadenza procedimentale (nettamente distinto dal termine prescrizionale) e, di conseguenza, «il decorso del termine decennale dall'esaurimento della fase amministrativa, senza che sia stata proposta la domanda giudiziale per l'accertamento di denegati diritti a specifiche prestazioni pensionistiche, non determina la perenzione di tali diritti sostanziali, ma - senza possibilità di interruzione o sospensione – incide sulla fase di attuazione dei medesimi, caducando la domanda amministrativa facendone venir meno gli effetti tipici ed essenziali in relazione alla proponendo azione giudiziaria e al successivo processo. Per dar vita ad un utile processo l'assicurato deve presentare nuova domanda all'INPS, avviando autonoma procedura amministrativa, la quale soltanto (non pure quella perenta) si pone come presupposto formale dell'azione giudiziaria e fonte di elementi valutabili ai fini della relativa decisione; salvi gli effetti dell'eventuale prescrizione dei diritti a determinate prestazioni (ratei o integrazioni di essi)”» (Cass. SS.UU. 21 giugno 1990, n. 6245). Come ormai purtroppo accade sempre, il Legislatore, per modificare l'interpretazione delle norme datane dalle Sezioni Unite, mutando la visione prospettica della regolamentazione, ha introdotto l'art. 6 del D.L. n. 103/1991, conv. in L. n. 166/1991. La riferita disposizione, attraverso un'interpretazione autentica dell'art. 47 del D.P.R. 639/1970, ha dichiarato che i termini ivi previsti sono termini di decadenza sostanziale. Il loro spirare determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni e l'inammissibilità della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione del ricorso al amministrativo al comitato provinciale INPS i termini decadenziali indicati “decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei”. Ulteriore intervento è stato attuato con l'art. 4 del D.L. n. 384/1992, conv. nella L. n. 438/1992. Detta norma ha modificato i commi secondo e terzo dell'art. 47, D.P.R. n. 639/1970 riducendo i termini per la proposizione dell'azione giudiziaria in materia pensionistica da dieci a tre anni ed estendendo la decadenza a tutte le controversie riguardanti le prestazioni erogate dalla gestione di cui all'art. 24 della L. n. 88/1989 per le quali il termine entro il quale esercitare l'azione è stato fissato in un anno soltanto. L'intervento conclusivo (allo stato?) nella materia che stiamo trattando è stato realizzato con l'articolo 38, comma 1, lett. d), numero 1), del D.L. 6 luglio 2011, n. 98 convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111. Questa disposizione ha introdotto un ulteriore comma, il sesto, all'art. 47 D.P.R. 639/70 prevedendo che “Le decadenze previste dai commi che precedono si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte”.
I contrasti (risolti?) nella giurisprudenza di legittimità Il quadro normativo finora descritto pone svariate questioni interpretative e gli interventi della Giurisprudenza e della Dottrina sull'argomento sono stati molteplici e variamente difformi (v. Mesiti e Gentile infra Guida all'approfondimento). I contrasti sorti hanno riguardato vari aspetti dell'istituto che stiamo esaminando. Senza entrare nel merito specifico di ciascuno di essi, è qui il caso di ricordare che, secondo l'interpretazione prevalente, il termine decadenziale di cui stiamo discutendo decorre dalla data di scadenza dei termini posti per la conclusione del procedimento amministrativo (trecento giorni successivi alla presentazione della domanda), a prescindere dall'avvenuta (o meno) adozione del provvedimento conclusivo del procedimento (v. Cass. civ., sez. un., n. 12718/2009; contra, Cass. sez. lav., n. 21595/2004 e Mesiti infra Guida all'approfondimento). La descritta interpretazione, tuttavia, deve tenere conto del principio, unanimemente acquisito ed affermato, secondo il quale il diritto a pensione, costituzionalmente tutelato, è imprescrittibile e non è sottoponibile a decadenza. In quest'ottica, si è ritenuto che lo spirare del termine decadenziale determina la decadenza dal diritto ai singoli ratei di pensione ma non incide sul diritto alla prestazione. In siffatte ipotesi, il termine dovrà essere computato sui singoli ratei a decorrere dal triennio precedente il deposito del ricorso giudiziario (v. Cass. sez. lav. n. 6904/2004 e Gentile infra Guida all'approfondimento). Analoghi principi non sono stati ritenuti applicabili in materia di prestazioni minori. Per esse, quindi, lo spirare del termine di decadenza determina la perdita totale del diritto alla prestazione. Osservazioni
La mancata o erronea indicazione del termine per l'esercizio dell'azione La sentenza che si commenta si occupa dello specifico problema riguardante l'erronea indicazione, nel provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, dei termini entro i quali può essere proposta l'azione giudiziaria a tutela del diritto non riconosciuto. La soluzione data esclude che l'eventuale errore possa determinare l'impedimento del decorso del termine della causa estintiva dell'azione. Si sostiene, in particolare, che la decadenza in materia previdenziale ha natura di decadenza di ordine pubblico con conseguente "inderogabilità della relativa disciplina, irrinunciabilità e rilevabilità d'ufficio, restando preclusa per le parti di derogare, attraverso propri atti e comportamenti, alla disciplina legale". Già da tempo si era sostenuto che l'obbligo di comunicazione ex art. 3 comma 4 L. 241/90 vale quando la posizione del privato è effettivamente incisa dal provvedimento amministrativo (autoritativo), e non quando, come è in materia previdenziale, il provvedimento ha carattere meramente ricognitivo ed è data piena tutela all'interessato davanti al giudice ordinario, quale giudice del rapporto (Cass. sez. lav. 7 dicembre 2007 n. 25670).
La soluzione individuata dalla decisione che si riscontra appare affatto condivisibile. Abbiamo sopra riferito che, secondo il disposto dell'art. 47 comma 5 del D.P.R. 639/70, l'Istituto nazionale della previdenza sociale è tenuto ad indicare ai richiedenti le prestazioni o ai loro aventi causa, nel comunicare il provvedimento adottato sulla domanda di prestazione, i gravami che possono essere proposti, a quali organi debbono essere presentati ed entro quali termini. È tenuto, altresì, a precisare i presupposti ed i termini per l'esperimento dell'azione giudiziaria. A ciò è da aggiungere che, in generale, in tutti i provvedimenti della Pubblica Amministrazione, in applicazione dell'art. 3, 4 comma, 1. 7 agosto 1990 n. 241, deve essere specificata all'interessato l'indicazione delle modalità di impugnazione. Appare di tutta evidenza che l'erronea indicazione dei termini per impugnare l'atto conclusivo adottato dall'Istituto previdenziale non può essere considerato un fatto neutro al quale non riconnettere alcuna conseguenza. Una interpretazione siffatta eluderebbe i precetti normativi di cui si è riferito consentendo alla Parte Pubblica un comportamento certamente illegittimo per il quale, non solo non sarebbe prevista alcuna sanzione, ma, addirittura, determinerebbe la mancata attribuzione di responsabilità per le conseguenze dannose che il comportamento medesimo produce. Si penalizzerebbe irrimediabilmente il soggetto debole del rapporto, a favore del quale sono state previste le garanzie contenute nelle citate disposizioni normative che trovano fondamento nel principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost. Dell'argomento, in una fattispecie simile, se ne è occupato lo stesso Supremo Consesso (Cass. sez. lav., 6 luglio 2009, n. 15813) giungendo a conclusioni diametralmente opposte. La questione riguardava un provvedimento definitivo di mancata iscrizione negli elenchi anagrafici agricoli nel quale era stato indicato un termine per la proposizione dell'azione giudiziaria più lungo rispetto a quello normativamente stabilito. In quest'occasione, con motivazione totalmente condivisibile, si è sostenuto che l'indicato errore fa sorgere nel destinatario dell'atto un ragionevole affidamento in ordine all'applicabilità del termine indicato, con la conseguenza che, ove l'interessato lo abbia rispettato, deve ritenersi che sia incorso in errore scusabile, e può quindi beneficiare della rimessione in termini, dovendosi escludere la decadenza in conformità con il canone costituzionale di buon andamento delle PP.AA. Nella citata decisione si chiarisce che, anche se è vero che, in generale, la disciplina della rimessione in termini (art. 184 bis c.p.c.) riguarda solo la fase istruttoria del processo e non quella di proposizione delle impugnazioni né la tempestività della proposizione del ricorso di primo grado, tuttavia, "tale principio va coordinato con la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 4, che, nel contesto della disciplina del procedimento amministrativo, ha prescritto che "in ogni allo notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere". Tale specifica prescrizione costituisce proiezione di un più ampio principio di carattere generale di necessaria tutela dell'affidamento del soggetto che entra in contatto con un ente pubblico e che si trovi ad essere destinatario di un'attività amministrativa procedimentalizzata; principio questo che si raccorda direttamente al canone costituzionale del buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost. Se la Pubblica Amministrazione riporta nell'atto il termine per impugnarlo, ciò fa sorgere nel destinatario dell'atto il ragionevole affidamento che quello sia il termine effettivo per proporre l'impugnazione innanzi al giudice. Questo affidamento non può rimanere privo di tutela" (Cass. sez. lav., 6 luglio 2009, n. 15813). La garanzia del menzionato ragionevole affidamento trova attuazione attraverso il riconoscimento della "rilevanza all'errore scusabile si da predicare l'ammissibilità della rimessione in termini." Sulla base delle riportate argomentazioni si è ritenuto tempestivo il deposito del ricorso giudiziario proposto dopo la scadenza dei termini legali.
Una diversa soluzione alla problematica di cui ci stiamo occupando è stata fornita da altri arresti giurisprudenziali. Si è ritenuto che, data la natura meramente ricognitiva del procedimento amministrativo preordinato all'accertamento ed alla liquidazione della prestazione previdenziale, l'eventuale inosservanza delle regole proprie del procedimento medesimo non incide sul correlato rapporto obbligatorio. All'assicurato, in ogni caso, pur non potendo egli fondare la pretesa giudiziale di pagamento della prestazione previdenziale rinvenendone la causa in disfunzioni procedimentali addebitabili all'Istituto, è riconosciuta, tuttavia, la possibilità, ai sensi dell'art. 2043 c.c., di chiedere il risarcimento del danno cagionato dall'illegittimo comportamento dell'Istituto previdenziale (Cass. sez. lav. n. 20604/2014; Cass. sez. lav. n. 2804/2003).
L'applicabilità della L. 241/1990 al procedimento previdenziale Le regole di cui alla L. n. 241/1990 rimangono un punto di riferimento fondamentale per l'azione amministrativa senza distinzione alcuna tra atti paritetici ed atti autoritativi. L'art. 3, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241, disponendo che "in ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere", contiene un principio di carattere generale, che si applica ad ogni manifestazione di volontà espressa dalla Pubblica Amministrazione. Per conseguenza, la mancata o erronea indicazione del termine e dell'autorità cui è possibile ricorrere impedisce il verificarsi di preclusioni a proporre opposizione a seguito del mancato rispetto, da parte dell'interessato, dei termini posti dalla legge per l'esercizio dell'azione corrispondente. Diversamente opinando, si vanificherebbe, in sostanza, oltre alla portata precettiva dell'art. 3, comma 4, della legge n. 241 del 1990, l'esigenza di effettiva tutela del cittadino nei confronti degli atti della pubblica amministrazione. Non possono verificarsi preclusioni a proporre opposizione non solo quando manchi nel provvedimento l'indicazione del termine entro cui è possibile impugnarlo, ma, a maggior ragione, nel caso in cui sia indicato erroneamente un termine più lungo di quello fissato dalla legge (Corte Costituzionale, 1 aprile 1998, n. 86). E se ciò vale, in generale, per tutti i provvedimenti amministrativi, a maggior ragione è da ritenere che il detto principio deve trovare applicazione nel procedimento previdenziale per il quale il precetto risulta rafforzato dall'art. 47 comma 5 del D.P.R. n. 639/70. In conclusione, non si condivide la soluzione interpretativa fornita dalla decisione che si commenta e si ritiene che la mancata o erronea indicazione del termine per l'esercizio dell'azione nell'atto conclusivo del procedimento amministrativo previdenziale impedisce il verificarsi della decadenza nei termini previsti dalle norme che se ne occupano. |