Conseguenze della nullità del contratto a chiamata
05 Settembre 2017
Massime
L'art. 14 D.Lgs. n. 81/15 fa espresso divieto di concludere contratti di lavoro intermittente per i datori di lavoro che non abbiano provveduto alla valutazione dei rischi, con la conseguenza che, ove il datore non vi abbia ottemperato, il contratto concluso dovrà ritenersi nullo per contrarietà a norme imperative. Sanzione per la nullità del contratto di lavoro intermittente è la conversione in ordinario rapporto di lavoro subordinato. Il caso
Un lavoratore, assunto con contratto di lavoro intermittente a tempo determinato, ne chiedeva la conversione in ordinario rapporto di lavoro subordinato, ritenendone l'illegittimità sotto più profili.
L'apposizione del termine era priva di causale e la proroga, intervenuta alla prima scadenza, si era posta in violazione del secondo comma dell'art. 21 D.Lgs. n. 81/2015 (disposizione che, in realtà, regola la successione di assunzioni a tempo determinato, fattispecie concettualmente diversa da quella della proroga dell'originario termine).
Infine, il datore di lavoro non aveva effettuato la valutazione dei rischi, incorrendo così nel divieto legale di stipulare contratti a chiamata.
Il datore di lavoro sosteneva la piena legittimità del contratto, del termine ad esso apposto e della relativa proroga, allegando, ma senza darne prova alcuna, di aver effettuato la valutazione dei rischi. La questione
La principale questione affrontata dal Tribunale attiene alle conseguenze sanzionatorie della nullità del contratto a chiamata, laddove concluso in spregio ai divieti di legge.
In assenza di un'espressa previsione normativa, la soluzione viene individuata attraverso il richiamo ai principi generali, ove si confrontano, in teoria, due possibili opzioni: quella meramente risarcitoria e quella della conversione del contratto nullo. Le soluzioni giuridiche
Il contratto di lavoro intermittente è stato introdotto nell'ordinamento italiano con gli artt. 33 e ss. D.Lgs. n. 276/2003, subendo poi alterne vicende che vedevano l'istituto dapprima abolito (con l'art. 1, Legge n. 47/2007), poi reintrodotto (con l'art. 39, comma 11, D.L. n. 112/2008), quindi revisionato (con l'art. 1, commi 21 e 22, Legge n. 92/2012) ed infine inserito nel complessivo riordino dei contratti di lavoro ad opera del “Jobs Act” (artt. 13 e ss. D.Lgs. n. 81/2015).
La nozione di lavoro intermittente (o “a chiamata” o, con espressione anglofona, “job on call”) si rinviene oggi nell'art. 13, D.Lgs. n. 81/2015: il contratto, con forma scritta ad probationem, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro, esclusivamente privato, per lo svolgimento di una prestazione lavorativa discontinua o intermittente.
La norma assegna alla contrattazione collettiva, con l'eventuale “supplenza” ministeriale (si veda il D.M. 23 ottobre 2004), il compito di individuare le esigenze in base alle quali possa essere utilizzato il particolare contratto, anche con riferimento alla predeterminazione dei possibili ambiti temporali, settimanali, mensili o annuali.
Non vi sono invece limiti causali se il lavoratore ha meno di ventiquattro anni o più di cinquantacinque anni.
L'ipotizzata discriminatorietà della norma, in relazione all'età, è stata recentissimamente esclusa dalla Corte di Giustizia (CGUE, 19 luglio 2017, C-143-16)
È sempre consentita l'apposizione di un termine, ma non si fa applicazione della disciplina generale sul contratto a tempo determinato.
Analogamente al lavoro accessorio, la legge fissa in quattrocento, nell'arco di un triennio, il limite massimo di giornate lavorative effettivamente lavorabili a chiamata, limite superato il quale il rapporto si trasforma in ordinario lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
Aldilà delle condizioni sopra descritte la legge pone poi dei divieti di ricorso al lavoro intermittente: per la sostituzione di lavoratori che esercitino il diritto di sciopero; presso unità produttive ove siano in corso interventi di integrazione salariale o si sia proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, il tutto in relazione a lavoratori adibiti alle medesime mansioni cui farebbe riferimento il contratto di lavoro a chiamata; per i datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, di cui all'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008.
Il legislatore non ha tuttavia previsto alcuna sanzione in caso di infrazione dei predetti divieti, così come nessuna specifica conseguenza è espressamente disciplinata nell'ipotesi di stipulazione del contratto di lavoro intermittente al di fuori dei casi previsti dalla contrattazione collettiva o dal Decreto ministeriale.
Proprio tale lacuna normativa, che dunque non può non comportare una integrazione giudiziale, costituisce il tema giuridico più rilevante della vicenda oggetto della sentenza in commento, ove il datore di lavoro “intermittente” non aveva fornito il giudizio la prova di aver effettuato la valutazione dei rischi, incorrendo così in una delle ipotesi espressamente vietate dalla legge.
In realtà, il Tribunale liquida la questione senza troppi ragionamenti espliciti, facendo apparire come scontata una soluzione che tale, di fatto, non è sempre stata: “… in presenza di un rapporto pacificamente di lavoro subordinato e di fronte alla violazione del divieto previsto per legge, la conseguenza non può che essere la sussunzione del rapporto nell'alveo dell'ordinario rapporto di lavoro”.
Tanto poco scontata che da alcuni si è ritenuto come il contratto di lavoro intermittente stipulato al di fuori delle ipotesi legislativamente previste e consentite, fosse da sanzionare con il risarcimento dei danni, equitativamente determinati (Trib. Monza, sez. lav., 15 ottobre 2012; analogo pronunciamento, seppur riferito ai divieti di stipulazione del contratto a termine, in App. Milano, sez. lav., 26 settembre 2009, n. 747).
Detta posizione interpretativa, facendo leva sull'assenza di una espressa disposizione sanzionatoria, pur riconoscendo l'invalidità del contratto, non ritiene di applicare il principio di conservazione, arrestandosi al dato positivo contenuto nell'art. 1419 c.c. e nell'art. 2126 c.c.
Detta nullità tuttavia non determina un effetto risolutorio, come in generale nei rapporti privatistici, dovendo cedere, in qualche modo, al meccanismo della inderogabilità tipica delle norme poste a tutela dei lavoratori così come delineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 11 maggio 1992 n. 210 e perfettamente “calzante” nel caso in esame.
Ivi si legge (seppur con riferimento alla diversa fattispecie del part time) che l'art. 1419, comma 1, c.c. “non è applicabile rispetto al contratto di lavoro, allorquando la nullità della clausola derivi dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore, così come, più in generale, la disciplina degli effetti della contrarietà del contratto a norme imperative trova in questo campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto ad evitare la conseguenza della nullità del contratto. Ciò in ragione del fatto che, se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del contratto nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere”.
Il medesimo assetto, prosegue la Corte, si realizza anche rispetto a pattuizioni contrattuali che incidono sullo stesso schema causale del negozio, così come per l'apprendistato ed anche per il (non più vigente) contratto di formazione e lavoro, posto che la nullità generata dal difetto delle condizioni di ammissibilità di tali figure contrattuali “deve ritenersi inidonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la cd. conversione in un “normale” contratto di lavoro (o meglio, la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione dell'inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale) senza che vi sia spazio per l'indagine – oggettiva o soggettiva – circa la comune volontà dei contraenti in ordine a tale esito”.
Le ricordate espressioni della Corte Costituzionale trovano oggi solida e positiva conferma nella perentoria statuizione legislativa contenuta nell'art. 1 D.Lgs. n. 81/2015 (erede dell'art. 1, co. 39, Legge n. 247/2007 e di una ormai copiosa giurisprudenza comunitaria (per tutte: CGUE, 22 novembre 2005, C-144/04), ove si dispone: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune del rapporto di lavoro”; in altre parole, il modello contrattuale di riferimento per tutte quelle ipotesi in cui una invalidità parziale interessi un contratto di lavoro non “ordinario”.
Ecco dunque che, in applicazione della regola espressa dall'art. 1419, secondo comma, c.c., all'opzione contrattuale scelta dalle parti, ma vietata (nel nostro caso) dalla legge, si viene a sostituire automaticamente – in coerenza con il principio espresso dall'art. 1339 c.c. – l'opzione base, ossia la forma comune del rapporto di lavoro.
Osservazioni
Resta tuttavia, nel caso di specie, il problema della determinazione del danno risarcibile, problema risolvibile utilizzando lo strumento della valutazione equitativa ma che, si ricorda, non può mai prescindere da una specifica allegazione e prova dei danni subiti, potendo solo supplire ad una loro determinazione quantitativa.
Il che lascia a carico del lavoratore un non sempre agevole onere probatorio, dovendosi in ogni caso escludere che l'invalidità del contratto possa generare un danno in re ipsa.
Più convincente il ragionamento fatto proprio dalla sentenza in commento che, tenuto conto di una serie di principi ricavabili dall'ordinamento lavoristico, mira e centra il bersaglio della salvaguardia dei diritti della parte debole del rapporto di lavoro, nel caso specifico (quello cioè della omessa valutazione dei rischi), due volte prevaricata: nell'assunzione con una tipologia contrattuale estremamente flessibile (a prevalente, se non totale, vantaggio aziendale) e nell'inserimento in una struttura organizzativa inidonea (ovviamente sulla carta) a proteggere i beni primari della salute e sicurezza.
In questo contesto, la serie di divieti alla stipulazione del contratto di lavoro intermittente (prevista anche per il contratto a termine e per la somministrazione di lavoro) si colloca certamente nel novero delle norme imperative, la cui violazione cagiona la nullità del contratto.
Con specifico riferimento all'ipotesi della mancata redazione del documento di valutazione dei rischi, la ratio del divieto risiede chiaramente nell'obbiettivo di coniugare flessibilità e sicurezza, rendendo più pregnante – anche attraverso l'effetto dissuasivo della “sanzione civile indiretta” di nullità del contratto – l'obbligo di sicurezza verso i lavoratori con minor esperienza e familiarità verso l'ambiente di lavoro (Cass., sez. lav., 2 aprile 2012, n. 524). |