Licenziamenti collettivi: computo dei lavoratori a tempo determinato

Enrico De Luca
05 Febbraio 2016

L'art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a), della Direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretato nel senso che i lavoratori che beneficino di un contratto a tempo determinato o per un compito determinato debbono essere considerati lavoratori “abitualmente” impiegati presso lo stabilimento interessato. Una diversa interpretazione priverebbe l'insieme dei lavoratori dei diritti loro conferiti dalla Direttiva stessa, compromettendo l'efficacia di quest'ultima. Orbene, ai fini del calcolo dell'organico, la natura del rapporto di lavoro è irrilevante.
Massima

L'art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a), della Direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretato nel senso che i lavoratori che beneficino di un contratto a tempo determinato o per un compito determinato debbono essere considerati lavoratori “abitualmente” impiegati presso lo stabilimento interessato.

Una diversa interpretazione priverebbe l'insieme dei lavoratori dei diritti loro conferiti dalla Direttiva stessa, compromettendo l'efficacia di quest'ultima. Orbene, ai fini del calcolo dell'organico, la natura del rapporto di lavoro è irrilevante.

Per un approfondimento sull'assimilazione operata dalla Corte di Giustizia fra le ipotesi di dimissioni per giusta causa e licenziamento, si veda il commento di Apa "La linea sottile fra licenziamento e dimissioni per giusta causa: un'importante pronuncia della CGUE"

Il caso

Un lavoratore spagnolo conveniva dinanzi allo Juzgado de lo Social di Barcellona (i.e. il Tribunale del Lavoro) la società sua datrice di lavoro affinché venisse dichiarato illegittimo il licenziamento individuale intimatogli per ragioni oggettive. Nello specifico, il lavoratore riteneva che la società avrebbe dovuto applicare la procedura di licenziamento collettivo, dal momento che la soglia numerica per l'applicazione di detta disciplina risultava raggiunta tenuto conto delle cessazioni di rapporti di lavoro occorse nei giorni precedenti e successivi al licenziamento.

Lo Juzgado de lo Social adito ha sospeso il procedimento ed ha sottoposto alla Corte di Giustizia Europea tre questioni pregiudiziali rispetto all'interpretazione della Direttiva n. 98/59/CE, ossia:

a) se i lavoratori che beneficino di contratti di lavoro conclusi a tempo determinato o per un compito determinato debbano essere computati nella determinazione del numero dei lavoratori “abitualmente” impiegati nello stabilimento interessato. Ciò è finalizzato al calcolo della soglia numerica per l'applicabilità della disciplina sul licenziamento collettivo;

b) se la riserva per l'applicabilità della predetta disciplina – ovverosia che “i licenziamenti siano almeno cinque” - si riferisca al numero dei licenziamenti posti in essere dal datore di lavoro oppure al numero di cessazioni del contratto assimilabili a tali licenziamenti;

c) se una cessazione consensuale del contratto di lavoro - intervenuta su richiesta del lavoratore interessato, ma che abbia in realtà costituito solo una reazione ad una modifica delle condizioni di lavoro da parte del datore di lavoro e sia stata poi definita con un indennizzo - costituisca una cessazione del rapporto di lavoro assimilabile ad un licenziamento.

La questione

In questa sede vengono approfondite ed esaminate le motivazioni formulate dalla Corte di Giustizia Europea per rispondere alla prima questione pregiudiziale alla stessa sottoposta dallo Juzgado de lo Social e concernente la computabilità dei lavoratori assunti a tempo determinato nella determinazione del numero di lavoratori “abitualmente” impiegati nella struttura interessata e, nello specifico, nel raggiungimento della soglia numerica per l'applicabilità della disciplina sul licenziamento collettivo dettata dall'art. 1, paragrafo 1, lettera a), sub i) e ii) della Direttiva n. 98/59/CE.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Giustizia Europea, nel formulare la sua decisione, si sofferma sul tenore letterale dell'art. 1, comma 1, lettera a), sub i) e ii), della Direttiva n. 98/59/CE del 20 luglio 1998, il quale stabilisce che :

Ai fini dell'applicazione della presente direttiva:

a) per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore se il numero dei licenziamenti effettuati è, a scelta degli Stati membri:

i) per un periodo di 30 giorni:

- almeno pari a 10 negli stabilimenti che occupano abitualmente più di 20 e meno di 100 lavoratori;

- almeno pari al 10% del numero dei lavoratori negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 100 e meno di 300 lavoratori;

- almeno pari a 30 negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 300 lavoratori;

ii) oppure, per un periodo di 90 giorni, almeno pari a 20, indipendentemente dal numero di lavoratori abitualmente occupati negli stabilimenti interessati”.

Preliminarmente la Corte di Giustizia Europea precisa che le modalità di calcolo delle soglie numeriche fissate dalla disposizione normativa de quo non possono essere rimesse alla discrezione degli Stati membri, diversamente privando la Direttiva stessa della sua piena efficacia.

La Corte di Giustizia Europa chiarisce, poi, che la disposizione in commento, riferendosi al numero di lavoratori “abitualmente” presenti nella struttura interessata dalla riduzione del personale, non fa alcun accenno (né tantomeno distinzione) alla durata dei rapporti di lavoro. Conseguentemente, secondo la Corte, “non si può concludere a priori che le persone che beneficino di un contratto concluso a tempo determinato o per un compito determinato non possano essere considerate lavoratori «abitualmente» impiegati dallo stabilimento interessato”.

Tale tesi trova conferma, oltretutto, in una precedente pronuncia emessa della stessa Corte di Giustizia Europea all'esito di un procedimento avente ad oggetto la possibilità per la normativa nazionale, al fine dell'attuazione di disposizioni del diritto del lavoro, di escludere dal computo degli organici delle imprese alcune categorie di lavoratori (Corte di Giustizia Europea, sent. n. C-385/05, EU:C:2007:37, Confédération genérale du travail e altri). Anche in tal caso, la Corte di Giustizia Europea aveva stabilito che l'interpretazione dell'art. 1 della Direttiva n. 98/59/CE ostava, ancorché temporaneamente, a tale possibilità, diversamente comportando una lesione dei diritti di quella determinata categoria di lavoratori e, allo stesso tempo, la compromissione dell'efficacia della Direttiva stessa.

Sotto altro profilo, la Corte di Giustizia Europea evidenzia che la Direttiva n. 98/59/CE non ha effettuato alcuna distinzione tra le diverse categorie di lavoratori, prendendo in considerazione l'organico complessivo degli stabilimenti coinvolti, al fine di non assoggettare i datori di lavoro ad un onere sproporzionato rispetto alle dimensioni della propria compagine aziendale.

A tal proposito, la Corte di Giustizia Europea - riprendendo una massima derivante dalla sentenza C-229/14, avente ad oggetto la computabilità di un amministratore nell'organico aziendale ai fini del calcolo del numero dei lavoratori occupati di cui all'art. 1 della Direttiva n. 98/59/CE – stabilisce espressamente che “ai fini del calcolo dell'organico di uno stabilimento per l'applicazione della direttiva 98/59, la natura del rapporto di lavoro è irrilevante” (Corte Giustizia Europea, sentenza n. C-229/14, EU:C:2014:455, Balkaya).

Orbene, sulla scorta delle predette considerazioni e valutazioni, la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza in commento, conclude affermando che “i lavoratori che beneficino di un contratto concluso a tempo determinato o per un compito determinato devono essere considerati lavoratori «abitualmente» impiegati nello stabilimento interessato” e, pertanto, computati ai fini della determinazione della soglia numerica per l'applicabilità della disciplina sul licenziamento collettivo.

Osservazioni

Nell'ordinamento italiano, la disciplina dei licenziamenti collettivi è contenuta nella Legge 23 luglio 1991 n. 223 e trova applicazione allorché l'azienda (i) sia caratterizzata da una determina dimensione occupazionale (più di 15 dipendenti) e (ii) riguardi un determinato numero di licenziamenti (almeno 5) in arco temporale di 120 giorni.

Detti elementi portano a distinguere i licenziamenti collettivi dai licenziamenti plurimi individuali per giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3 della Legge 15 luglio 1966 n. 604.

E proprio la questione relativa alla determinazione dell'organico aziendale è stata oggetto negli anni di diverse pronunce giurisprudenziali. Sul punto, la prevalente giurisprudenza di legittimità era consolidata nell'affermare che per la determinazione dell'organico aziendale, anche al fine di evitare pratiche elusive degli obblighi di legge, fosse necessario fare riferimento al numero dei dipendenti mediamente occupati nel semestre antecedente alla data di intimazione dei licenziamenti (Cass. civ., sez. lav., sent. 12 novembre 1999, n. 12592 in Mass. Giur. Lav. 2000, 92; Riv. it. dir. lav. 2000, II, 376; Cass. civ., sez. lav., sent. 9 dicembre 1999, n. 13796 in Giut. civ. 2000, I, 3249; Cass. civ., sez. lav., sent. 8 maggio 2001, n. 6421 in Foro it. 2002, I, 2477).

Detto orientamento trovava conferma anche nella prassi amministrativa. Il Ministero del lavoro, infatti, con la circolare 25 settembre 1996 n. 62, precisava che il numero di dipendenti andava determinato tenendo conto della normale occupazione, cioè dell'organigramma produttivo o, in sua mancanza, facendo riferimento all'occupazione media dell'ultimo semestre.

Anche in dottrina, la problematica della computabilità dei lavoratori a termine è stata risolta facendo prevalentemente riferimento al criterio della normale occupazione. In particolare, detti lavoratori sono stati considerati “computabili” se inseriti nell'ordinario ciclo produttivo e, quindi rientranti nell'organigramma aziendale, mentre sono stati ritenuti “non computabili” se assunti per sopperire ad esigenze eccezionali e/o occasionali (G. Ferraro, (a cura di), I licenziamenti individuali. Commento alla l. 11 maggio 1990, n. 108, Esi, Napoli 1990, p. 36; L. Corazza, Il campo di applicazione delle tutele, p. 162, in “Diritto del lavoro” commentario diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 1998).

Ovviamente, non sono mancante posizioni dottrinali estreme tra i commentatori. C'è stato chi ha sostenuto che tutti i lavoratori a tempo determinato dovessero essere ritenuti computabili (M. De Luca, La tutela differenziata contro il licenziamento illegittimo, Giuffrè, 1991) e chi, invece, li avrebbe voluti costantemente esclusi (M. Papaleoni, La fine del libero licenziamento, F. Angeli, Milano, 1991).

Oggi, l'ordinamento italiano – che appare allineato rispetto alla normativa comunitaria di cui sopra ed ai principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza in commento – presenta una disposizione che regolamenta le modalità di computo dei dipendenti a tempo determinato rispetto all'applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale.

Parliamo dell'art. 27 del D.Lgs. 15 giugno 2015 n. 81 secondo il quale per il computo dei dipendenti si deve considerare il numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.