Il licenziamento per motivi economici è giustificato anche senza la crisi aziendale
07 Febbraio 2017
Ai sensi dell'art. 3 della Legge sui licenziamenti individuali (L. n. 604/1966), il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello fondato su ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
L'esigenza oggettiva del licenziamento è stata tradotta, da un orientamento giurisprudenziale piuttosto diffuso, in necessità, intesa come extrema ratio ed indefettibilità dello stesso, la cui prova grava sul datore di lavoro, che deve dimostrare che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato da una modifica organizzativa dell'azienda, necessitata dall'esigenza di far fronte a situazioni sfavorevoli – non meramente contingenti – influenti sulla normale attività produttiva o per sostenere notevoli spese di carattere straordinario.
Sulla scorta di queste premesse, si è radicata una considerazione del licenziamento “economico” inteso come quello giustificato da situazioni sfavorevoli, non meramente strumentale ad un incremento del profitto, dalla quale consegue che il presupposto di fatto delle difficoltà economiche in cui versa l'azienda, costituisce una sorta di pre-requisito della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendo considerato come necessario ancor prima della valutazione della effettività delle ragioni addotte a giustificare la consequenzialità del licenziamento.
La Corte di merito, avverso il cui provvedimento è stato promosso il giudizio in Cassazione dal quale è scaturito la sentenza, ha aderito proprio a questo filone giurisprudenziale, ritenendo (come pure i giudici di legittimità più volte) l'illegittimità del licenziamento perché nel caso specifico, non sussistevano particolari ragioni di sofferenza economica dell'azienda in grado di incidere in modo decisivo sulla normale attività produttiva.
Conseguentemente, la riorganizzazione aziendale, che pure nel caso specifico è stato dimostrato essere effettiva e funzionale agli scopi dichiarati dal datore di lavoro legati alla produzione, e perciò non pretestuosa, di per sé stessa non è stata considerata sufficiente a costituire un legittimo motivo di licenziamento per ragioni oggettive, in quanto “motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”. La sentenza in esame, nel giustificare il licenziamento economico sorretto da esigenze di razionalizzazione del profitto, ancòra invece le proprie conclusioni ad una interpretazione letterale dell'art. 3 della Legge n. 604/1966, dimostrando, in realtà, come tale lettura non si discosti dai valori costituzionali sottesi, né si ponga in contrasto con i canoni fondamentali tradizionalmente posti a sostegno della legittimità del licenziamento economico.
Secondo i giudici l'interpretazione letterale della norma esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere un presupposto fattuale – che il datore di lavoro debba indefettibilmente provare ed il giudice conseguentemente accertare – identificabile nella sussistenza di situazioni sfavorevoli ovvero di spese notevoli di carattere straordinario, cui sia necessario fare fronte.
Dal punto di vista dell'esegesi testuale dell'art. 3, L. n. 604/1966 – è questo il fulcro della motivazione – è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, “tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d'impresa”.
La norma è dunque chiara e, secondo la Corte, la pretesa ulteriore della necessità di un quadro economico sfavorevole è ultronea, oltreché fuorviante rispetto alla sua ratio, così come coordinata nel quadro costituzionale del nostro ordinamento.
Sostenere il contrario, secondo quanto tracciato dalla sentenza n. 25201/2016, varrebbe a contraddire il principio sancito dall'art. 41 Cost., in virtù del quale (come già altre volte la stessa Corte di Cassazione ha potuto affermare) le ragioni del processo di riorganizzazione aziendale, la cui individuazione rientra nell'ambito delle scelte imprenditoriali di libera iniziativa economica rimesse ala valutazione del datore di lavoro, realizzano il giustificato motivo oggettivo di licenziamento (Cass. sez. lav., 27 maggio 2016, n. 11010).
Tale lettura, rigorosa ma costituzionalmente orientata dell'art. 3 della L. n. 604/1966, è stata ritenuta dalla Stampa oltremodo compiacente rispetto alle esigenze datoriali.
In realtà, con riferimenti puntuali, la stessa pronuncia dà conto da un lato dei numerosi precedenti conformi, tali da costituire un riconosciuto filone giurisprudenziale, dall'altro dell'inquadrabilità delle motivazioni nell'ambito dei principi costituzionali consolidati, nonché della compatibilità dei princìpi espressi con i requisiti univocamente riconosciuti come fondamentali della legittimità del licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
La sentenza richiama infatti le numerose decisioni, anche risalenti nel tempo, che hanno riconosciuto la liceità del licenziamento economico “puro”, sorretto cioè non dalla necessità di fronteggiare situazioni sfavorevoli, bensì (Cass. sez. lav., n. 9310/2001) anche soltanto da oggettive esigenze inerenti la gestione dell'impresa, volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto (Cass. sez. lav., n. 5777/2003).
Più volte la Corte aveva affermato il primato del datore di lavoro nella determinazione della scelta organizzativa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., assegnando al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore. Quest'ultimo non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, purché risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (Cass. sez. lav., 4 novembre 2004, n. 21121).
Ciò perché, come ancora ricordato dalla sentenza n. 25201/2016, a prescindere dalla origine esogena o endogena delle ragioni economiche addotte a sostegno del motivo del licenziamento, deve considerarsi estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall'imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell'impresa e, dunque, dell'intera comunità dei lavoratori. Il valore sostanziale del primato della interpretazione letterale della norma
La posizione espressa dalla Corte è sorretta dunque da un rigore interpretativo della norma, l'art. 3, Legge n. 604/1966, nonché da un approccio pragmatico che, nell'escludere la necessità della crisi economica per la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, valorizza l'esigenza di migliorare la redditività dell'azienda. Ciò non soltanto per un malinteso riconoscimento della supremazia del profitto, ma proprio per rispondere alle esigenze di tutela sottese alla compatibilità “sociale” della libertà di cui all'art. 41 Cost., considerato che l'impresa che non gode di adeguata ponderazione dei costi, nel lungo periodo, in un regime di sana concorrenza, è destinata ad essere espulsa dal mercato, con ricadute negative sull'occupazione.
La sentenza dichiara e dimostra, inoltre, la propria compatibilità con i canoni fondamentali del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il controllo giudiziale sull'effettività del ridimensionamento del personale ed il nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro, tale da impedirne la natura meramente pretestuosa o voluttuaria, ne garantiscono la sua oggettività.
Non si tratta del riconoscimento indiscriminato della libertà della ricerca del profitto. La tutela è destinata all'obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l'attività dell'impresa attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori della produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli. La ragione inerente all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una determinata posizione lavorativa.
Ma ciò non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia sottratta ad ogni controllo e sfugga a ben precisi limiti.
Come premesso infatti, anche la sentenza n. 25201/2016 dà conto dei precedenti in materia riguardo i canoni fondamentali del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, riaffermando princìpi più volte espressi, anche a Sezioni Unite, che negano la effettività della soppressione del posto di lavoro in caso di redistribuzione delle mansioni e, più in generale, respingono la possibilità di riconoscere asilo ad una ricerca di profitto fine a sé stesso, soltanto con il puro e semplice licenziamento di un dipendente che non sia conseguenza di un mutamento dell'assetto aziendale (Cass. sez. lav., 1 luglio 2016, n. 13516).
Su questo aspetto, così come sulla effettività e non pretestuosità della scelta, rimane – pregnante – il sindacato del giudice, che pure non può ingerirsi nella gestione virtuosa, per effetto del già ricordato art. 41 Cost. La sentenza in commento dimostra di collocarsi su posizioni non sconosciute alla giurisprudenza e, soprattutto, perché nel valorizzare la genuinità ed effettività tout court del motivo addotto a giustificazione del licenziamento, conferma i canoni fondamentali noti ad entrambi gli orientamenti puntualmente analizzati in motivazione, tanto da affermare che, in ogni caso, quando sia affermato che il licenziamento è fondato sulla esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli, il giudice deve accertare la sussistenza delle stesse.
Più radicale appare la scelta invece su un altro tema correlato, altrettanto sensibile: la considerazione del licenziamento come ipotesi senza alternative quale requisito di legittimità dello stesso. Assunto che si traduce normalmente nella dimostrazione (della quale è onerato il datore di lavoro) che, conseguentemente al riassetto organizzativo, quel lavoratore non è più utilmente ricollocabile all'interno dell'azienda (c.d. repechage), tale che il licenziamento costituisce una soluzione necessitata dalle emergenze oggettive.
La sentenza valuta in realtà tali temi come “elementi extra-testuali”, rispetto al già descritto corollario dell'approccio all'art. 3 della Legge n. 604/1966, tali da costituire una “lettura non costituzionalmente imposta”.
Va osservato che, nel caso di specie, la Corte di merito non aveva valutato tali elementi, pure oggetto di gravame, perché considerati assorbiti nel primo motivo che l'aveva condotta a dichiarare l'illegittimità del licenziamento.
Qui, nello specifico, la Corte di Cassazione conferma la chiave di lettura già offerta di rigorosa interpretazione della norma sui licenziamenti individuali, assimilando la pretesa incombenza del repechage a quel giudizio sui profili di congruità ed opportunità della decisione imprenditoriale che già sono stati respinti, per quanto qui brevemente ricordato. L'alternativa al licenziamento non rileva perciò al di fuori dei casi di pretestuosità e/o infondatezza dello stesso.
Parrebbe dunque, proprio per questo aspetto, confermarsi un moto effettivamente liberalizzatorio in materia di licenziamenti (es. Cass. sez. lav., 18 novembre 2015, n. 23620). In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto l'art. 3 della L. n. 604/1966 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l'imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi. Tale ultima circostanza è esclusa, secondo la sentenza in commento, dal dettato dell'art. 41 Cost.
Senonchè tanto rigore, in massima parte condivisibile ed espressione di coerenza intima e sistematica, è messo in crisi proprio dalla stessa Corte di Cassazione, che ancora di recente (peraltro con una composizione che vede uno dei giudici già partecipe della decisione in discorso) ribadisce la necessità dell'adempimento all'onere di dimostrazione del repechage da parte del datore di lavoro, pena l'illegittimità del licenziamento (Cass. sez. lav., 12 gennaio 2017, n. 618).
Si attendono dunque ulteriori sviluppi. |