Il giustificato motivo oggettivo sussiste anche quando le mansioni vengono ripartite fra il personale in servizio
08 Febbraio 2017
Massime
Può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi della L. n. 604/1966, articolo 3, anche soltanto una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale fa emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza, il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta.
Il motivo d'appello è inammissibile per difetto di interesse ad impugnare (v. art. 100 c.p.c.) quando l'appellante sul punto è risultato vittorioso ed il solo fine è quello di ottenere la correzione della motivazione della sentenza. Il caso
Il signor P.C. conveniva in giudizio, avanti il Tribunale di Roma, la Società datrice di lavoro per sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento comminatogli per giustificato motivo oggettivo, per essere ritorsivo e, comunque, perchè la sede della società dove lavorava era stata chiusa, ma le attività di commercializzazione di immobili (cui egli era adibito in via esclusiva) erano proseguite anche dopo la chiusura della predetta sede, attraverso una ripartizione delle stesse tra i dipendenti rimasti in servizio.
Il Tribunale rigettava il ricorso e il sig. P.C. proponeva appello, ottenendo – in parziale riforma della sentenza di primo grado – la declaratoria di illegittimità del licenziamento per l'irrilevanza del giustificato motivo oggettivo su cui si fondava e, quindi, l'ordine di riassunzione entro tre giorni o, in mancanza, il pagamento di una indennità pari a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La Corte d'Appello, inoltre, riprendendo la sentenza di primo grado, si pronunciava sul carattere ritorsivo del licenziamento, ritenendolo, tuttavia, infondato.
Avverso la sentenza della Corte d'Appello, la Società proponeva ricorso in Cassazione per due motivi, di cui il primo veniva accolto, con rinvio alla Corte d'appello competente anche per le spese, ed il secondo dichiarato inammissibile, per le ragioni di seguito esposte. Le questioni
Con il primo motivo di ricorso la Società denuncia la violazione/falsa applicazione dell'art. 3, L. n. 604/1966, anche in relazione all'art. 41 Cost., per avere la Corte d'Appello ritenuto irrilevante come giustificato motivo oggettivo di licenziamento la chiusura della sede della società cui il ricorrente era adibito, solo perché non erano state soppresse le mansioni affidategli.
Il secondo motivo d'impugnazione riguarda, invece, la violazione/falsa applicazione degli artt. 346 c.p.c. e 112 c.p.c. per vizio di ultrapetizione, in quanto la Corte d'Appello si era pronunciata in merito alla ritorsività del licenziamento, benché il ricorrente non avesse proposto uno specifico motivo di gravame. Le soluzioni giuridiche
Il nodo centrale della sentenza riguarda il primo motivo di ricorso, cioè la ritenuta sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento nel caso in cui le mansioni attribuite in modo esclusivo o prevalente ad un lavoratore, a seguito di una riorganizzazione aziendale attuata al fine di ottenere una più economica ed efficiente gestione dell'impresa – nel caso di specie, a seguito della chiusura della sede, cui era adibito il lavoratore – non vengano soppresse, ma siano ridistribuite tra il personale rimasto in servizio.
La Corte di Cassazione, seguendo l'orientamento già espresso in precedenti pronunce (ex multis, Cass. sez. lav., 4 novembre 2004, n. 21121), concorda con i rilievi espressi dalla Società in sede di ricorso, sottolineando che il giustificato motivo oggettivo può consistere anche in una diversa distribuzione di determinate mansioni, volta ad ottenere una più efficiente gestione, all'esito della quale emerga un esubero della posizione lavorativa del lavoratore licenziato.
Il potere del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti incontra, tuttavia, il limite della necessaria verifica della congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento. Non basta, dunque, che i compiti prima espletati dal lavoratore licenziato risultino ridistribuiti, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento, anziché costituirne il risultato (cfr. Cass. sez. lav., 21 novembre 2011, n. 24502).
In altri termini, se la redistribuzione fosse un effetto e non una causa, si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove, non – cioè - in un'esigenza di più efficiente organizzazione produttiva.
La Corte di Cassazione rileva, inoltre, l'inconferenza del richiamo alla giurisprudenza secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere valutato sulla base di elementi di fatto realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non, invece, su circostanze future ed eventuali (cfr. Cass. sez. lav., 20 agosto 2003, n. 12261 e Cass. sez. lav., 22 aprile 2000, n. 5301). Nel caso di specie, infatti, la redistribuzione ad altri dipendenti delle mansioni prima affidate al signor P.C. era da collocarsi nel “medesimo contesto temporale in cui è stato intimato il licenziamento per cui è causa”.
Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso proposto dalla Società, concernente il vizio di ultrapetizione, la Suprema Corte ha ritenuto che lo stesso fosse inammissibile, “ancor prima che infondato”, atteso che la Società era risultata vincitrice sul punto e che la sola correzione della motivazione, alla luce dell'art. 100 c.p.c., non poteva rappresentare un valido interesse ad impugnare (ex aliis, Cass. civ., sez. II, n. 18674/2011; Cass. civ., sez. I, n. 14970/2007; Cass. sez. lav.,n. 6601/2005).
La Corte di Cassazione, peraltro, ha rilevato che la Corte d'Appello si era legittimamente pronunciata sul punto in quanto le conclusioni dell'atto d'appello rinviavano a quelle dell'atto di primo grado, in cui era stata chiesta anche la reintegra del lavoratore, in ragione della ritorsività del licenziamento e, di conseguenza, la domanda avversaria era da considerarsi riproposta. Osservazioni
La prima delle questioni affrontata nella pronuncia in esame attiene alla riconosciuta sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento nel caso in cui, a seguito di una riorganizzazione effettuata al fine di ottenere una più economica ed efficiente gestione aziendale, venga soppressa una posizione lavorativa, senza che – però - vengano eliminate le relative mansioni, redistribuite tra i lavoratori in servizio.
La pronuncia ammette, cioè, la soppressione della posizione lavorativa (che determina il licenziamento), senza che vengano eliminate le mansioni alla stessa connesse; non si concentra, invece, sulle motivazioni che hanno indotto il datore di lavoro alla scelta.
La sentenza in commento, quindi, pare non dar peso all'orientamento in base al quale eventuali riassetti organizzativi, oltre che “non pretestuosi e strumentali”, devono essere “volti a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti che influiscano decisamente sulla normale attività produttiva imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi (…)” (così, Cass. sez. lav., 14 giugno 2000, n. 8135; cfr. anche, di recente, Cass. sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24037; Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20534).
Il citato orientamento si fonda sul secondo comma dell'art. 41 Cost., in base al quale l'iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza alla libertà ed alla dignità umana” (Cass. sez. lav., 17 ottobre 2010, n. 21967, in cui si fa riferimento anche all'art. 30 del Trattato di Lisbona).
Al contempo, la pronuncia lascia spazio all'opposto orientamento, ai sensi del quale “il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, (atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., n.d.r.), mentre al Giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (ex plurimis, Cass. sez. lav., 4 novembre 2004, n. 21121; Cass. sez. lav., 23 ottobre 2001 n. 13021). (…)” (così, di recente, Cass. sez. lav., 18 novembre 2015, n. 23620).
Conseguentemente, potrà ritenersi legittimo anche il licenziamento derivante da una modifica organizzativa volta a ridurre i costi o ad aumentare i profitti, sempre che sia consentita al giudice la verifica della sussistenza di un rapporto di causalità tra la scelta datoriale e il conseguente licenziamento; sarebbe, infatti, in ogni caso illegittimo il licenziamento effettuato per motivi diversi (ad esempio, per motivi discriminatori o disciplinari), rispetto a cui la riorganizzazione sia solo una conseguenza (cfr. Cass. sez. lav., 11 luglio 2012, n. 7474; Cass. sez. lav., 1 luglio 2016, n. 13516 e Cass. sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201).
Resta il fatto che, in materia, vi è attualmente una evidente dicotomia interpretativa, che porta a pronunce di segno opposto, partendo da identiche situazioni di fatto, tendenzialmente superabile solo attraverso un intervento della Suprema Corte Sezioni Unite.
Rispetto alla seconda delle questioni trattate in sentenza, vale la pena di ricordare che, secondo un consolidato orientamento, l'interesse ad agire sussiste in ogni caso in cui, attraverso la nuova pronuncia, si possa ottenere un risultato utile e giuridicamente apprezzabile (ad esempio, Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 2006, n. 830 e, di recente, Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 2012, n. 1236).
Va, inoltre, rilevato che, nell'ambito del ricorso in Cassazione, la parte proponente ha l'obbligo di indicare il concreto pregiudizio derivato dalla sentenza impugnata, atteso che l'impugnazione non tutela l'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma mira ad eliminare un pregiudizio concreto (Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2014, n. 26157).
Nel caso di specie, la Corte d'Appello si era pronunciata anche sulla questione portata alla sua attenzione attraverso il richiamo delle conclusioni di primo grado, dando così origine – a giudizio della Società - ad un vizio di ultrapetizione per violazione/falsa applicazione degli artt. 346 c.p.c. e 112 c.p.c.. La Società ricorrente, però, sul punto era risultata vincitrice e il ricorso in Cassazione era volto più a tutelare regolarità della pronuncia, che a rimuovere un effetto pregiudizievole. Per tale ragione, il motivo di ricorso è stato correttamente ritenuto inammissibile per mancanza di interesse ad impugnare ex art. 100 c.p.c. |