Usura psicofisica da lavoro prestato oltre il sesto giorno: considerazioni in tema di trattamento economico
10 Febbraio 2017
Massima
In tema di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, occorre tenere distinto il danno da usura psicofisica, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall'eventuale ulteriore danno biologico, che invece si concretizza in un'infermità determinata da una continua attività lavorativa non seguita da riposi settimanali.
Nella prima evenienza, il danno può essere presunto sull'an; il relativo quantum è indennizzabile mediante ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dal contratto collettivo o individuale per altre voci retributive. Il caso
Con la sentenza n. 17966 del 13 settembre 2016, la Cassazione riafferma il principio giurisprudenziale (Cass. sez. lav., 20 ottobre 2015, n. 21225; Cass. sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11581) secondo il quale, in ipotesi di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, il danno da usura psicofisica conseguente alla mancata fruizione del riposo e alla sua intrinseca penosità (diverso da quello biologico), deve ritenersi presunto nell'an e il relativo quantum è indennizzabile mediante il ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dal contratto collettivo o individuale per altre voci retributive.
La pronuncia cassa la sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Roma che, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda di condanna proposta da alcuni lavoratori, relativa al pagamento dell'ulteriore somma di denaro dovuta, a titolo d'indennità compensativa del lavoro prestato, per effetto della turnazione pianificata su sette od otto giorni consecutivi.
I giudici di legittimità, hanno rilevato come la ratio decidendi dell'impugnata sentenza fosse ravvisabile nel fatto che il mancato rispetto del riposo settimanale sarebbe stato la diretta conseguenza di un'articolazione della turnazione adottata “per venire incontro a una richiesta dei lavoratori”. La peculiarità insita in tale passaggio della decisione risiede nella circostanza per cui tale deduzione non sarebbe evinta da uno specifico accordo sindacale bensì dalla sola mancata contestazione da parte dei ricorrenti.
Sul punto, la Cassazione ha affermato che si tratta di un'erronea applicazione del principio di non contestazione; quest'ultimo non concede al giudice un'indiscriminata possibilità di porre a fondamento della decisione qualsiasi deduzione di parte non specificamente contestata, pena l'arbitraria estensione del suo ambito di applicazione il quale necessita, per contro, di limiti certi che consentano alla parte di poter previamente calibrare le proprie difese, scongiurando il timore di dover in ogni caso contestare qualsiasi affermazione di parte avversa.
Su tali aspetti la giurisprudenza è da tempo concorde nel ritenere che il principio sia da riferire ai soli fatti primari (costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi del diritto) e non anche ai fatti secondari, dedotti in funzione probatoria.
La sentenza pone in debito rilievo come parte della dottrina e altresì le Sezioni Unite (Cass. sez. lav., n. 12065/2014), abbiano ventilato l'eventualità di rimeditare l'orientamento ed estendere il principio di non contestazione anche ai fatti secondari, in virtù del nuovo testo dell'art. 115, co. 1, c.p.c..
La Cassazione precisa, però, come la novella legislativa non possa che applicarsi ai giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della legge e che l'essere la società venuta incontro a un'ipotetica richiesta dei lavoratori non possa neanche considerarsi un fatto secondario, bensì una mera difesa, estranea all'ambito di applicazione oggettivo del principio di non contestazione. La questione
La sentenza offre lo spunto per tornare a riflettere sul tema della natura giuridica del maggior compenso spettante al lavoratore che abbia prestato il proprio lavoro oltre il sesto giorno consecutivo e sulla corretta ripartizione dei relativi oneri probatori. Le soluzioni giuridiche
Mancato godimento del riposo settimanale e danno da usura psicofisica Ripercorrendo l'evoluzione legislativa, l'istituto ha avuto un primo riconoscimento nella Legge n. 370/1934, relativa proprio al riposo settimanale e domenicale, in seguito è stato sancito dall'art. 2109 c.c. e ha poi trovato copertura costituzionale con l'art. 36 Cost. che al terzo comma, stabilisce il diritto del lavoratore al riposo settimanale e la sua irrinunciabilità.
La ratio è da rinvenire nel necessario recupero delle energie fisico-psichiche spese con il lavoro e nella garanzia di un'adeguata tutela degli interessi familiari e sociali del lavoratore. Da ultimo, l'intera materia dell'orario di lavoro è stata disciplinata nel D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66.
L'art. 9 del D.Lgs. n. 66/2003, nel confermare il contenuto dell'art. 2109 c.c., dispone che il lavoratore ha diritto, ogni sei giorni di lavoro, a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica. Il giorno di riposo non è, di per sé, retribuito ma, ove al lavoratore venga richiesto di prestare attività di lavoro nel giorno di riposo, questi avrà diritto, oltre alla normale retribuzione, a una maggiorazione determinata dalla contrattazione collettiva.
Sebbene la lettura delle suddette norme possa legittimare un'interpretazione rigida delle stesse, nel senso di un divieto assoluto di svolgimento dell'attività per più di sei giorni consecutivi, è necessario porre in evidenza che il legislatore, nel dare rilevanza costituzionale al riposo settimanale, non ha prescritto per tutte le categorie di lavoro una rigorosa periodicità e, dunque, l'attuazione della normativa può avvenire in modo elastico e differenziato in base alla natura di ciascuna attività.
La Corte Costituzionale, pur avendo affermato che l'art. 36 Cost. contiene un diritto irrinunciabile per il lavoratore, è intervenuta più volte su questioni di legittimità in riferimento a norme contenenti deroghe al riposo settimanale, venendo a mitigare la rigidità del principio nei casi in cui la deroga possa essere motivata da esigenze produttive dell'azienda, caratterizzate da una evidente necessità o comunque da situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale.
Anche la Cassazione ha affermato la legittimità della differenziazione nella periodicità di godimento dei riposi, a condizione però che vi sia la necessità di tutela di interessi apprezzabili, che nel complesso non sia eluso il rapporto di un giorno di riposo ogni sei giorni di lavoro e che non siano superati i limiti della ragionevolezza (Cass. sez. lav., 28 giugno 2001, n. 8820).
Lo stesso D.Lgs. n. 66/2003 ammette la possibilità di deroga da parte dei contratti collettivi, purché ai lavoratori siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui per motivi oggettivi ciò non sia possibile, sia comunque apprestata una tutela appropriata.
Infine, l'art. 41 del D.L. n. 112/2008 ha aggiunto al testo dell'art. 9 cit. che il periodo di riposo settimanale di ventiquattro ore consecutive deve essere calcolato come media in un periodo non superiore a quattordici giorni; pertanto, il riposo può essere anche inferiore alle ventiquattro ore nella prima settimana purché nell'arco delle complessive due settimane il lavoratore goda di un periodo di riposo totale pari a quarantotto ore.
Ciò premesso, il D.Lgs. n. 66/2003 non ha risolto la delicata questione del trattamento economico e delle maggiorazioni retributive dovute per il lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, lasciando agli interpreti il compito di dover valutare caso per caso.
Natura giuridica Un primo orientamento seguito da parte della dottrina e della giurisprudenza ha ritenuto che il compenso spettante al lavoratore abbia natura risarcitoria, poiché l'alterazione della periodicità inciderebbe sul ritmo fisiologico di recupero delle energie del lavoratore, provocando un danno da usura psicofisica non del tutto compensato dall'eventuale successivo riposo tardivo (Cass. sez. lav., 7 marzo 2002, n. 3298; Cass. sez. lav., 28 giugno 2001, n. 8820; Cass. sez. lav., 30 maggio 2001, n. 7359).
La responsabilità è considerata prevalentemente di tipo contrattuale, in quanto consegue a un inadempimento del datore di lavoro, che compie una scelta organizzativa in contrasto con norme imperative (art. 36 Cost., art. 2109 c.c.), poste a tutela del benessere fisico e psichico del lavoratore.
Un diverso orientamento ha previsto, così come accade per il lavoro domenicale, una maggiorazione connessa al principio di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost. La maggior penosità del lavoro prestato nel settimo giorno consecutivo andrebbe apprezzata non in termini risarcitori, bensì come intensificazione anomala della quantità e qualità del lavoro prestato, avente quindi natura meramente retributiva (Cass. sez. lav., 8 ottobre 2003, n. 15046): la prestazione di particolare penosità esigerebbe un adeguamento della retribuzione, ex art. 36 Cost., alla quantità e qualità del lavoro prestato, senza che sia richiesta alcuna prova di un danno.
Diversamente, la tesi cui accede la Cassazione nella sentenza in commento, richiama un'opzione interpretativa dominante nella più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. lav., 20 ottobre 2015, n. 21225; Cass. sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11581) che, ponendosi in una zona intermedia tra chi attribuisce al maggior compenso spettante al lavoratore natura risarcitoria o retributiva, ha affermato come tale compenso vada concesso a “titolo di indennizzo”.
Ciò consente di rinviare alla distinzione tra illegittima soppressione del riposo e legittima modifica della periodicità dello stesso, distinzione che solo sporadicamente appare nelle sentenze in materia, continuandosi a sovrapporre due distinti profili: da un lato, la perdita definitiva del riposo settimanale, senza che sia concesso alcun riposo compensativo o con modalità tali da vanificarne la funzione, da cui consegue un danno da usura psicofisica che come tale andrebbe risarcito; dall'altro, il mancato riposo derivante da uno spostamento legittimo della collocazione dello stesso, da cui consegue una maggior penosità del lavoro prestato dopo il sesto giorno, la quale deve trovare ristoro, oltre che nel riposo compensativo, in un indennizzo mediante ricorso a maggiorazioni retributive.
Indennizzabilità del danno La questione dell'indennizzabilità del danno da usura si rivela particolarmente controversa sia per la difficoltà di quantificare oggettivamente un evento dannoso puramente soggettivo, sia per la mancanza di un parametro legislativo utile a tal fine.
Il D.Lgs. n. 66/2003 nulla dispone in relazione a tale aspetto e, pertanto, l'ostacolo viene superato dalla giurisprudenza procedendo all'indennizzo secondo equità, pur ancorato parzialmente a dati oggettivi.
I parametri utilizzati sono essenzialmente tre:
Nel caso in cui il giudice utilizzi strumenti o istituti affini, fermo restando che le disposizioni previste dalla contrattazione collettiva non assumono in ogni caso valore vincolante, lo stesso dovrà valutare se la maggiorazione prevista sia diretta a compensare anche l'usura psicofisica.
La qualificazione del compenso determina, infine, conseguenze rilevanti dal punto di vista del regime della prescrizione cui è soggetto il credito del lavoratore: nel caso in cui si accetti la natura risarcitoria dell'indennità, esso sarà soggetto alla prescrizione ordinaria decennale - decorrente anche in pendenza del rapporto di lavoro - prevista dall'art. 2946 c.c. Qualora, invece, si sostenga la tesi della natura retributiva, il credito sarà soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 4, c.c.
Regime probatorio. Danno ingiusto o sanzione punitiva? La Cassazione, nella sentenza in esame, ha ritenuto che il danno da usura psicofisica conseguente alla mancata fruizione del riposo settimanale possa essere sorretto da una presunzione assoluta sull'an, in quanto derivante dalla violazione di un diritto fondamentale posto a tutela del benessere fisico e psichico del lavoratore (sarebbe quindi il legislatore ad aver presunto ex ante la maggiore penosità del lavoro).
In altri termini, la giurisprudenza richiama il concetto di danno in re ipsa, configurando una fattispecie svincolata dall'applicazione delle regole che fondano la responsabilità civile, nell'ambito della quale l'accertamento del giudice è ancorato più che all'inadempimento e al danno oggettivo (o anche solo presunto), alla soggettiva violazione della regola cautelare da parte del datore di lavoro.
La ricostruzione è stata oggetto di alcune critiche che rimarcano come la maggiore penosità del lavoro prestato oltre il sesto giorno, non comporti di per sé un danno, ma semmai possa al più favorire l'insorgere di una patologia psicofisica che richiederebbe un accertamento in concreto senza possibilità di essere liquidata in modo automatizzato.
Allo stesso modo, non appare del tutto persuasiva la distinzione, ribadita dalla sentenza in commento, tra danno da usura psicofisica, derivante dalla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni consecutivi di lavoro, e danno biologico, consistente in un'infermità determinata da una continua attività lavorativa che, a differenza del primo, dovrebbe essere dimostrato sia nella sussistenza che nel nesso eziologico. Osservazioni
La pronuncia appare apprezzabile per la capacità rappresentativa del tipo di danno che può derivare dalla mancata fruizione del riposo ma, oltre a creare confusione concettuale tra due voci di danno considerate generalmente legate da un rapporto di genere e specie (usura psicofisica come fattispecie di danno biologico), configura una fattispecie di danno non ancorata ad una lesione concreta e attuale del bene salute.
La Cassazione sembrerebbe legittimare l'applicazione di una sanzione punitiva comminata al datore di lavoro per la violazione in sé di una regola cautelare, sebbene nel sistema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale il rimedio risarcitorio abbia natura prevalentemente riparatoria, sicché la violazione di un diritto o di un dovere non consentirebbe di per sé di presumere un danno.
Il principio giurisprudenziale ribadito dalla sentenza in commento sembra dunque accostarsi, almeno in parte, all'area dei danni punitivi (ancora poco approfonditi nel nostro ordinamento), aventi natura prevalentemente sanzionatoria e afflittiva, e forieri, per contro, di possibili ingiustificati arricchimenti.
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