Nullità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alle nuove mansioni estranee al livello di iniziale inquadramento

Paolo Patrizio
07 Marzo 2016

L'assegnazione di un lavoratore a mansioni diverse e non superiori a quelle per le quali è stato assunto, anche col suo consenso, costituisce atto giuridico nullo ai sensi dell'art. 2103, capoverso c.c., con la conseguenza che la sopravvenuta inidoneità fisica a quelle mansioni non può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Massima

L'assegnazione di un lavoratore a mansioni diverse e non superiori a quelle per le quali è stato assunto, anche col suo consenso, costituisce atto giuridico nullo ai sensi dell'art. 2103, capoverso, c.c., con la conseguenza che la sopravvenuta inidoneità fisica a quelle mansioni non può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Il caso

La fattispecie in esame trae vita dalla condotta di una società operante nel settore aereo portuale, la quale aveva provveduto a licenziare un proprio dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni di movimentazione dei bagagli assegnategli, mansioni che, seppur diverse da quelle previste al momento dell'assunzione per il livello di appartenenza del lavoratore, dovevano considerarsi, secondo il datore, esigibili e dunque pienamente legittimanti il comminato licenziamento, in quanto incluse nell'oggetto del contratto individuale di lavoro attraverso fatti concludenti, per averle il dipendente di fatto accettate e svolte fin dal primo giorno.

La questione

La principale questione giuridica trattata dalla sentenza in commento, seppur occasionata da una ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, involge essenzialmente il disposto dell'art. 2103 c.c. (nella veste antecedente la novella del D.lgs. n. 81/2015) ed, in particolare, il profilo di nullità dell'assegnazione del lavoratore a mansioni diverse e non superiori rispetto a quelle di assunzione, nonostante l'eventuale consenso, anche per fatti concludenti, prestato dal dipendente.

Le soluzioni giuridiche

Nel confermare l'approdo fatto proprio dal Giudice d'appello, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha definitivamente statuito l'illegittimità del licenziamento comminato al dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni diverse da quelle attribuitegli in sede di assunzione, chiarendo che l'assegnazione di un lavoratore a mansioni diverse e non superiori a quelle di iniziale inquadramento costituisce atto giuridico nullo ai sensi dell'art. 2103 c.c. e, pertanto, la sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle stesse non può giustificarne il licenziamento, a nulla rilevando l'eventuale consenso, anche per fatti concludenti, prestato dal lavoratore all'effettuazione delle nuove incombenze.

Osservazioni

La sentenza in commento riprende e ripropone, forse per l'ultima volta, il tema del mutamento di mansioni e dei concreti limiti all'esercizio dello ius variandi da parte datoriale, nell'articolazione declinata dall'art. 2103 c.c., nel testo previgente alla riscrittura operata con il D.lgs. n. 81/2015.

Come è noto, la norma codicistica appena menzionata, nella sua prima ed originaria stesura, testualmente disponeva che il “prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l'imprenditore può, in relazione alle esigenze dell'impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui. Nel caso previsto dal comma precedente il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, se è a lui più vantaggioso”, mentre la Giurisprudenza largamente prevalente ammetteva, all'epoca, la possibilità di modifica delle mansioni con il consenso, anche tacito, del lavoratore.

In detto contesto, nel quale, è bene ricordarlo, era consentito anche il licenziamento ad nutum, il prestatore di lavoro era dunque sostanzialmente costretto ad accettare qualsiasi mutamento delle proprie mansioni, al fine di conservare l'occupazione.

Tale situazione di forte debolezza venne, quindi, ad essere attenuata e colmata dalle modifiche al sistema apportate dalla legge n. 300/1970 (meglio nota come Statuto dei Lavoratori), la quale, nel riscrivere l'art. 2103 c.c., ha disposto che “I. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo o, per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai CCNL e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. 2. Ogni patto contrario è nullo”.

Inutile sottolineare la dirompente portata innovativa di detta novella normativa, che di fatto limitava fortemente lo ius variandi datoriale, sottoponendolo al limite della duplice esigenza della garanzia del livello retributivo già raggiunto e del rispetto dell'equivalenza delle nuove mansioni a quelle precedentemente svolte dal lavoratore, inserendo, dunque, il sostanziale divieto di assegnare il “dipendente a mansioni inferiori che non consentano, nel loro espletamento, l'utilizzazione ed il conseguente perfezionamento del patrimonio professionale già acquisito, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale” (tra le tante, vedasi in tal senso Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150).

Detta impostazione, considerata da molti addirittura di valore superindividuale, in quanto finalizzata non solo alla salvaguardia della dignità e personalità del singolo prestatore di lavoro, ma, più in generale, alla tutela dell'“interesse della collettività che il patrimonio di nozioni, di esperienza e perizia acquisita dal lavoratore nell'esercizio dell'attività non venga sacrificato alle esigenze dell'organizzazione aziendale del lavoro ed al profitto dell'impresa” (in tal senso Cass. 27 maggio 1983, n. 3671), ha quindi rappresentando per oltre quarantacinque anni il punto di riferimento nel bilanciamento di interessi tra la salvaguardia del livello professionale del lavoratore ed il legittimo esercizio del potere di iniziativa imprenditoriale e la sentenza in commento ne ricalca di certo i principi.

La Suprema Corte, infatti, con la pronuncia in esame evidenzia come risulti erroneo supporre che le mansioni diverse da quelle previste al momento dell'assunzione del lavoratore fossero divenute esigibili perché accettate di fatto dal dipendente e quindi incluse nell'oggetto del contratto individuale di lavoro attraverso fatti concludenti, in quanto detta tesi contrasta con l'art. 2103 c.c., che vieta l'assegnazione del lavoratore a mansioni diverse da quelle di assunzione o non di categoria superiore, sancendo la nullità di ogni patto contrario e, dunque, a cascata, di qualsiasi condotta concludente.

Senonché e come già anticipato nell'incipit delle osservazioni, l'approdo in commento costituisce, se non proprio l'ultima, di sicura una delle residue applicazioni della previgente disciplina dell'art. 2103 c.c.

Con il D.lgs. n. 81/2015 (entrato in vigore lo scorso 25 giugno) infatti, è stata integralmente riscritta la norma de qua, prevedendo, in particolare, il novellato art. 2103 c.c., la regola della possibilità datoriale di adibire il lavoratore a “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” ed “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali” di assegnare il dipendente a “mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale” (in uno alla possibilità, lasciata alla contrattazione collettiva, di prevedere ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni riconducibili al livello di inquadramento inferiore, sempre rientranti nella medesima categoria legale).

Come è evidente, la modifica normativa non è di poco conto, perché eliminando il concetto di equivalenza tra le precedenti mansioni disimpegnate e le nuove unilateralmente assegnate, si viene sostanzialmente ad elidere la tutela del bagaglio e della professionalità specifica del lavoratore, in nome di una più semplice gestione aziendale.

Pronunce quali quelle per cui: “Deve ritenersi che il concetto di equivalenza delle mansioni prescinda dalla riconducibilità in astratto delle mansioni al medesimo livello contrattuale, postulando di contro che le nuove mansioni siano in concreto aderenti alla specifica competenza tecnica e professionale del dipendente al fine di salvaguardare il livello professionale raggiunto” (Cass. sez. lav. 17 luglio 1998, n. 7040) dunque, da oggi non avranno più diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento, posto che la nuova veste normativa, piuttosto che valorizzare la specializzazione professionale, predilige la polivalenza funzionale, oltretutto ancorandola ad un concetto di mera equipollenza rimessa all'insindacabile giudizio delle pattuizioni intersindacali e sottratta, dunque, al vaglio giudiziario.

È allora doveroso sottolineare come una tale soluzione normativa era già stata prevista dall'art. 52 del D.lgs. n. 165/2001 per il pubblico impiego e si ricorderà l'opinione espressa in merito dalla Suprema Corte, la quale, con la sentenza n. 11835 del 21 maggio 2009 era giunta ad asserire che:il D.lgs. n. 165 del 2001, art. 52, sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto, o ad altre equivalenti. Sul concetto di equivalenza, nel settore privato, come è noto, è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera del citato art. 52 sembra invece far proprio un concetto di equivalenza «formale», ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. In quest'ottica, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico.

Senonché e come è noto, detta disciplina venne sostanzialmente rimossa per effetto della modifica in tema di mansioni apportata dal D.lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009, tramite cui fu operata una tendenziale parificazione, in ordine al mutamento di mansioni, tra settore privato e pubblico, esportando anche in quest'ultimo la nozione di "equivalenza" giudizialmente sindacabile.

Alla luce delle considerazioni sin qui espresse, appare allora evidente come l'attuale riscrittura dell'art. 2103 c.c., seppur certamente dettata dalla necessità di adeguare le attitudini professionali e le disponibilità dei lavoratori a riconversioni e fungibilità in grado di fronteggiare la mutevole realtà degli assetti produttivi e organizzativi aziendali, abbia finito nondimeno per tradire la fiducia e le aspettative di molti, rappresentando di fatto una "soluzione di arretramento", in senso sostanziale e temporale, dei diritti dei prestatori di lavoro e delle tutele riconosciute in anni di battaglie alla parte debole del rapporto.

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