La rinnovazione della omessa o inesistente notificazione del ricorso introduttivo del giudizio

Enrico Zani
07 Aprile 2015

Nel rito del lavoro, nel caso di omessa o inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza, è ammessa la concessione di un nuovo termine, perentorio, per la rinnovazione della notifica.
Massima

Nel rito del lavoro, nel caso di omessa o inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza, è ammessa la concessione di un nuovo termine, perentorio, per la rinnovazione della notifica.

Il caso

La sentenza in argomento si occupa del caso di omessa o inesistente notificazione del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza e della facoltà del giudice del lavoro di concedere un nuovo termine perentorio per la rinnovazione della stessa.

Il ricorrente ometteva di notificare l'atto introduttivo del giudizio ed il relativo decreto di fissazione dell'udienza: il giudice autorizzava la rinnovazione della notifica ed il convenuto si costituiva alla successiva udienza.

Al contrario, i giudici d'appello consideravano, in ragione del costituzionalizzato principio della “ragionevole durata” del processo, il giudizio improcedibile in quanto, stante l'omessa notifica dell'atto introduttivo, il giudice di prime cure non poteva concedere un nuovo termine per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza.

La Corte di legittimità riteneva applicabile il disposto dell'art. 291 c.p.c. al caso di nullità della notificazione, sulla scorta dell'avvenuto deposito del ricorso.

La questione giuridica

La questione esaminata dalla Suprema Corte riguarda la possibilità di considerare valida la vocatio in ius che sia stata attuata rinnovando un atto mai compiuto o giuridicamente inesistente, attraverso il combinato disposto degli artt. 291 e 415 c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

Introduzione del giudizio nel rito del lavoro

Nel rito del lavoro, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, il deposito del ricorso sancisce l'introduzione vera e propria del giudizio, essendo il momento in cui avviene la costituzione della parte e l'individuazione del diritto che si intende far valere (editio actionis), mentre la fase dell'instaurazione del contraddittorio viene attuata con la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza (vocatio in ius).

La struttura bifasica dell'introduzione del giudizio ha dato adito a diverse, talvolta contrastanti, interpretazioni giurisprudenziali in ordine alla possibilità di rinnovare la notifica dell'atto introduttivo relativamente alle ipotesi di omessa o inesistente notificazione dello stesso.

Gli aspetti su cui la Suprema Corte si è concentrata, nelle molteplici pronunce che hanno interessato l'argomento in oggetto, possono riassumersi nella distinzione e definizione tra il momento della proposizione della domanda (che culmina nel deposito del ricorso) ed il momento dell'instaurazione del contraddittorio; nell'applicabilità del disposto di cui all'art. 159 c.p.c. in merito all'irrilevanza delle nullità afferenti alle notifiche rispetto alla validità dell'atto introduttivo; nell'applicazione del disposto dell'art. 162 c.p.c. al rito del lavoro allorché sia possibile disporre la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende.

Il rito del lavoro risulta dunque imperniato sul deposito del ricorso, i cui effetti, tuttavia, si consolidano e stabilizzano allorquando la chiamata in giudizio possa affermarsi rituale, e quindi legalmente e validamente compiuta.

Presupposto per la rinnovazione della notificazione degli atti è la nullità della stessa.

La notificazione è nulla quando manca di uno o più requisiti formali necessari al raggiungimento dello scopo ovvero quando l'atto presenta dei vizi o delle difformità che incidono sulla sua validità, sulla sua idoneità a produrre gli effetti giuridici propri dell'atto cui appartiene.

Diverse dalla nullità sono le fattispecie di omissione e di inesistenza della notificazione: la prima concerne l'ipotesi di assoluta mancanza della notificazione, in quanto mai avvenuta.

Il secondo caso riguarda invece l'istituto, di origine dottrinale e giurisprudenziale, della notificazione inesistente: per tale deve intendersi l'atto assolutamente inidoneo a produrre alcun effetto, sia esso sostanziale o processuale tale da non poter essere qualificato in alcun tipo di atto determinato.

La ragionevole durata del processo

Di avviso negativo è parsa la dottrina a seguito dell'introduzione del principio della ragionevole durata del processo, principio previsto dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nonché dall'art. 111 della Costituzione italiana.

Alla luce della legge n. 89/2001 sull'equo indennizzo da durata irragionevole del processo, anche la giurisprudenza è parsa orientata a modificare il proprio convincimento, tenuto conto dell'assenza di una sanzione in caso di omessa notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza per accedere alla giurisdizione nell'ipotesi di danno per irragionevole durata del processo.

La Corte di legittimità ha posto a confronto la predetta legge e il rito del lavoro, tenuto conto della mancanza in entrambi della sanzione dell'improponibilità per l'omessa notifica, al fine di risolvere il seguente interrogativo, e cioè se nel giudizio di 1° grado il contraddittorio non ancora instauratosi possa creare legittime aspettative sulla sua tutela.

Sulla scorta di tale parallelo, la Sezione lavoro ha tratto le proprie conclusioni in ordine alla possibilità di definire la chiamata in giudizio come fase dell'accesso alla giurisdizione: la Suprema Corte è giunta ad affermare che in assenza della rinnovazione della notificazione, un'eventuale pronuncia di improcedibilità porterebbe a ripercussioni eccessivamente gravose travolgendo anche l'editio actionis.

Dall'assunto per cui editio actionis e vocatio in ius costituiscono due fasi autonome dal punto di vista formale e strutturale del medesimo rito, è possibile pervenire all'affermazione secondo cui l'editio actionis produce effetti autonomi, quali ad esempio la determinazione della litispendenza, dal che è possibile dedursi che il perfezionamento degli atti della prima fase non ha ripercussioni sulla seconda. Può pertanto ritenersi che il procedimento di notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza concorre a formare un atto complesso rispetto ad un'unica azione di introduzione del processo.

Tuttavia, la fase incentrata sul deposito del ricorso produce effetti stabili solo in presenza di una valida instaurazione del contraddittorio e, quindi, di una valida vocatio in ius. La giurisprudenza si è interrogata sull'opportunità di rinnovare un atto che non è mai stato compiuto o inesistente dal punto di vista giuridico allo scopo di non pervenire ad una mera pronuncia di rito ed impedire così il giudizio cui la parte ha diritto ed interesse in forza del rituale deposito del ricorso.

Con arresto giurisprudenziale del 2008 la Corte di legittimità stabiliva che nel rito del lavoro l'improcedibilità del giudizio è conseguenza della omessa o inesistente notificazione del ricorso e del decreto, non essendo consentito al giudice di assegnare ex art. 421 c.p.c. (previa fissazione di altra udienza di discussione) un termine perentorio onde provvedere ad una nuova notifica a mente dell'art. 291 c.p.c. (Cass. sez. un., n. 20604/2008).

Invero, la sentenza in argomento evidenzia che l'omissione della notificazione o la sua inesistenza determinano la nullità della fattispecie della vocatio in ius: da qui deriva la diversa conclusione cui è pervenuta la sezione lavoro con la sentenza in argomento.

In caso di nullità della notificazione il giudice può concedere la rinnovazione dell'atto, emanando un nuovo decreto di fissazione dell'udienza e concedendo un termine perentorio per la notifica.

La predetta tesi pare essere conforme ai principi generali di conservazione degli atti del processo, nonché dell'economia del giudizio, atteso che il processo deve mirare ad una decisione di merito attraverso la promozione degli strumenti idonei al raggiungimento di tale obiettivo.

Vi è tuttavia da domandarsi se proprio in ragione di un'interpretazione costituzionalmente orientata non sia invece da preferire la concessione di un termine per rinnovare la notificazione in considerazione del vantaggio in termini di tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost. nonché di rispetto del giusto processo con riferimento alla durata dello stesso. Quest'ultima può definirsi “ragionevole” soltanto quando il tempo che trascorre tra il momento in cui il cittadino accede alla giustizia ed il momento in cui ottiene una pronuncia di merito atta ad assicurare l'inviolabile diritto di difesa previsto dall'art. 24 Cost. non reca pregiudizi alla parte ed al diritto preteso.

In ossequio al principio della ragionevole durata del processo, è opportuno considerare l'eventualità che possa derivare il “dovere” da parte del giudice di concedere un nuovo termine sì da attuare concretamente il predetto principio costituzionale. In ogni caso infatti la pronuncia di improcedibilità del giudizio non ha effetto preclusivo sull'azionabilità del diritto mediante la proposizione di un nuovo ricorso.

Dal che ne discende l'opportunità di favorire la concentrazione e la speditezza del processo rispetto all'utilità di punire la negligenza o l'omissione del ricorrente.

Osservazioni

Questioni relative all'“overruling” giurisprudenziale

Appare infine chiaro che l'applicazione di un mutamento giurisprudenziale, quando lo stesso consiste nel radicale cambio di indirizzo di una corrente giurisprudenziale radicatasi nel tempo, non può trovare spazio, tenuto conto del ragionevole affidamento che la parte fa in ordine all'attuazione di detto principio.

Infatti, la Sezione lavoro ha affermato che «la parte ha ragionevolmente confidato nell'interpretazione della disciplina sulla notificazione del ricorso, tanto più in primo grado, risultante da giurisprudenza affermatasi in base a pronunce della stessa Suprema Corte».

Del resto, l'effetto di preclusione e decadenza che deriva dall'imprevedibile mutamento giurisprudenziale non comporta il venir meno della legittima aspettativa della parte ad addivenire ad una pronuncia di merito.

In buona sostanza, come già ribadito dalle Sezioni Unite con una precedente pronuncia, «deve escludersi l'operatività della preclusione o della decadenza derivante dall'overruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e ciò non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell'arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l'apparenza di una regola conforme alla legge del tempo» (Cass. sez. un., n. 15144/2011).

Presupposti indispensabili per la validità di quanto sopra evidenziato sono da ricercarsi nelle seguenti circostanze: il mutamento di indirizzo giurisprudenziale dev'essere relativo ad una regola processuale, dev'essere imprevedibile (rispetto alla sua pregressa costante e non controversa applicazione) nonché infine deve avere ad oggetto una preclusione del diritto di azione e difesa della parte. Trattasi, pertanto, di una irretroattività “relativa” dei mutamenti di orientamenti ermeneutici, irretroattività che si ferma ai predetti limiti.

Proprio in virtù della nozione di “giusto processo”, recepita nel nostro ordinamento a livello costituzionale, la Corte di legittimità ha ritenuto necessario tutelare la parte che incolpevolmente ripone il proprio affidamento su di uno stabile orientamento della giurisprudenza.

Sulla scorta della predetta affermazione ne discende la facoltà di considerare efficace l'atto processuale posto in essere in applicazione dell'indirizzo ermeneutico costante sino al repentino mutamento di giurisprudenza.

Guida all'approfondimento

Antonio Didone (a cura di), Le riforme del processo civile, Milano, 2015, pagg. 607 e ss.

Chiara Ianniruberto, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2015, pagg. 168 e ss.

Maurizio Tatarelli, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2008, pagg. 993 e ss.

Cass. civ. sez. un., 12 marzo 2014, n. 5700

Cass. civ. sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144

Cass. civ. sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604

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