La fruizione dei permessi ex L. n. 104 del 1992, non presuppone un previo rientro in servizio dopo un periodo di assenza per malattia od aspettativa, ma soltanto l'attualità del rapporto di lavoro. Di conseguenza, l'assenza dal lavoro verificatasi nel giorno in cui il lavoratore avrebbe dovuto far rientro al lavoro, al termine del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro, se imputabile a permesso ex L. n. 104 del 1992, non è computabile ai fini del superamento del periodo massimo di comporto.
Massima
La fruizione dei permessi ex
L. n. 104 del 1992
, non presuppone un previo rientro in servizio dopo un periodo di assenza per malattia od aspettativa (non essendo - questa - una condizione prevista dalla legge), ma soltanto l'attualità del rapporto di lavoro. Di conseguenza, l'assenza dal lavoro verificatasi nel giorno in cui il lavoratore avrebbe dovuto far rientro al lavoro, al termine del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro, se imputabile a permesso ex
L. n. 104 del 1992
, non è computabile ai fini del superamento del periodo massimo di comporto.
Il caso
La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento per superamento del periodo massimo di comporto, conseguente ad un periodo di assenza per malattia (seguito da un periodo di aspettativa non retribuita), relativamente ad una dipendente ammessa a fruire dei permessi previsti dall'
art.33 L. n. 104 del 1992
.
Poiché, in punto di fatto, la lavoratrice, al termine del periodo di aspettativa non retribuita, anziché riprendere servizio, era rimasta assente dal lavoro per fruire di un permesso ex
L. n. 104 del 1992
, la società datrice di lavoro ha proceduto al suo licenziamento per superamento del periodo massimo di comporto, adducendo che la fruizione dei predetti permessi aveva come presupposto indefettibile l'attuale svolgimento della prestazione lavorativa, per cui, al fine di poter godere di detto permesso, la dipendente avrebbe dovuto far rientro in servizio prima della scadenza del periodo di aspettativa non retribuita concessole.
La questione
La questione da esaminare è se la fruizione dei permessi ex
L. n. 104 del 1992
, avvenuta senza soluzione di continuità al termine di un periodo di assenza per malattia, senza che il lavoratore sia rientrato in servizio, sia computabile o meno ai fini del calcolo del superamento del periodo massimo di comporto.
Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento muove, in punto di fatto, dalla constatazione che la lavoratrice, cui era stato riconosciuto lo stato di handicap grave con il correlato diritto ai permessi ex
art.33 L. n. 104 del 1992
, aveva richiesto ed ottenuto dal datore di lavoro, al termine di un periodo di malattia e prima dell'ultimo giorno di aspettativa non retribuita, la concessione di un permesso per il giorno in cui avrebbe dovuto far rientro in servizio.
In punto di diritto, non era in contestazione tra i contendenti che la fruizione dei permessi ex
art.33 L. n. 104 del 1992
, concessi in favore di chi abbia disabilità grave o assista un familiare portatore di handicap, non fosse computabile ai fini della verifica del superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia, oltre il quale scatta il licenziamento.
Sostiene tuttavia la società datrice di lavoro che nella fattispecie detto principio non avrebbe potuto trovare applicazione, in quanto la lavoratrice aveva fruito del permesso ex
senza neanche tornare al lavoro, mentre invece la sua concessione avrebbe dovuto essere preceduta dal rientro in servizio della dipendente.
Sostiene inoltre la medesima società che, mentre in linea generale l'INPS era titolare del potere di ammettere il lavoratore a fruire dei benefici previsti dalla
L. n. 104 del 1992
, la specifica autorizzazione alla fruizione in concreto dei permessi ex art.33 della medesima legge richiedeva invece una specifica richiesta al datore, mentre nella fattispecie la società non aveva ricevuto, alla data in cui la dipendente avrebbe dovuto far rientro in servizio, alcuna comunicazione od istanza attestante il diritto alla fruizione dei permessi, né dall'INPS, né dalla lavoratrice. Pertanto, essendo quest'ultima venuta meno al suo onere di chiedere al datore di lavoro la fruizione dei permessi in discorso, la sua assenza andava computata ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto.
Poste tali allegazioni, la sentenza in commento, pur muovendo dalla constatazione che, in punto di fatto, le deduzioni di parte datoriale erano risultate in buona parte smentite per tabulas (la lavoratrice, in realtà, aveva documentato di aver tempestivamente chiesto ed ottenuto dal datore di lavoro l'autorizzazione a fruire del richiesto permesso), fissa alcuni condivisibili criteri applicativi della normativa in materia, e cioè:
l'assenza dal lavoro imputabile a legittima fruizione di un permesso ex
L. n. 104 del 1992
non rileva ai fini del calcolo del superamento del periodo massimo di comporto;
la fruizione dei permessi ex
L. n.
104 del 1992
non presuppone il previo rientro in servizio del lavoratore dopo il periodo di assenza per malattia od aspettativa (non essendo - questa - una condizione prevista dalla legge), ma soltanto l'attualità del rapporto di lavoro;
pur non essendo configurabile un onere del datore di lavoro di accertare presso l'INPS l'esistenza del provvedimento di concessione dei benefici ex
L. n. 104 del 1992
, tuttavia eventuali ritardi dell'INPS nelle comunicazioni che l'ente previdenziale deve di propria iniziativa inoltrare al datore di lavoro non possono ridondare a danno del dipendente.
Fissati questi principi guida, la Suprema Corte è quindi giunta alla conclusione della illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato alla lavoratrice, in considerazione della circostanza che quest'ultima aveva chiesto alla società datrice di lavoro un permesso ex
L. n. 104 del 1992
(da fruire proprio il giorno in cui avrebbe dovuto rientrare al lavoro), diritto che le era stato riconosciuto dalla società datrice di lavoro prima del licenziamento, con la conseguenza che il comporto non poteva dirsi superato.
Osservazioni
Il punto nodale della questione in disamina non è rappresentato tanto dalla necessità di stabilire se l'assenza dal lavoro imputabile a fruizione di un permesso ex
L. n. 104 del 1992
sia rilevante o meno ai fini del calcolo del superamento del periodo massimo di comporto, quanto piuttosto quello di stabilire quali siano i limiti entro cui tale fruizione possa considerarsi rispondente ai canoni di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto.
In questa prospettiva, va tenuto presente che i benefici ex
art. 33 L. n. 104/1992
devono intendersi come razionalmente inseriti in un ampio complesso normativo - riconducibile ai principi sanciti dall'
art. 3 Cost.
, comma 2, e dall'
art. 32 Cost.
- che deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che, tuttavia, devono coesistere e bilanciarsi con altri valori di rilievo costituzionale, e presuppongono, nell'ottica di tale bilanciamento, la prevalenza dell'interesse del portatore di handicap e la tutela, prioritaria, della sua personalità e della sua salute quali diritti fondamentali dell'individuo (cfr., in motivazione, Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 4623 del 25/02/2010). A detta esigenza di bilanciamento consegue che il permesso ex
L.104/1992
non può risolversi in una mera opportunità di riposo a beneficio del lavoratore, bensì in una autorizzazione a sostituire all'attività lavorativa un'altra attività, di carattere assistenziale, nel primario e prevalente interesse dell'assistito, e non certo del beneficiario del permesso.
In un simile contesto, ha affermato la S.C. nella sentenza n. 16207/2008, seppure in tema di congedi parentali, che il diritto ai permessi, avente natura di diritto potestativo, “non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale). Tale verifica … trova giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che - precipuamente nella materia in esame - anche la titolarità di un diritto potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio nell'esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti - mediante i quali la prerogativa viene esercitata - da parte del giudice, il cui accertamento può condurre alla declaratoria di illegittimità dell'atto e alla responsabilità civile dell'autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale”, nell'ottica di una “crescente valorizzazione dei principi di correttezza e buona fede e della operatività di essi in sinergia con il valore costituzionale della solidarietà”, al fine di identificare “forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che l'ordinamento riconosce al titolare del diritto e che costituisce la ragione dell'attribuzione al medesimo titolare della potestas agendi”. Secondo la Suprema Corte,pertanto, anche in tale ambito può venire in rilievo una “condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto di congedo si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo”.
Nella fattispecie trattata nella sentenza in commento, in realtà, non sembra neanche porsi un problema di legittimità dell' ammissione della lavoratrice ai benefici previsti dalla
, atteso che la società datrice di lavoro ha contestato esclusivamente le modalità con cui l'autorizzazione era stata richiesta ed ottenuta dalla medesima dipendente. In altri termini, detta società, considerato che la lavoratrice non era neanche tornata al lavoro al termine del periodo di assenza per malattia, né aveva dimostrato di aver presentato una domanda amministrativa all'INPS (che nulla aveva comunicato), ha sostenuto che la suddetta esigenza di bilanciamento, nella caso concreto, avrebbe dovuto condurre ad una pronuncia dichiarativa del travalicamento, da parte della dipendente, dei limiti posti dal rispetto dei generali principi di correttezza e buona fedenell'esecuzione del contratto, ex
La Suprema Corte, tuttavia, non ha condiviso tale impostazione ed ha chiarito che, da un lato, il concreto svolgimento della prestazione lavorativa non costituisce un presupposto necessario per ottenere l'autorizzazione a fruire dei permessiex
L.104/1992
(essendo richiesta soltanto l'attualità del rapporto di lavoro) e che, dall'altro, eventuali ritardi nelle comunicazioni dell'INPS al datore di lavoro non possono ridondare a danno del dipendente.
Tale impostazione appare condivisibile, dovendosi ritenere che l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'
, compiuta dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, si è avvalsa, ai fini dell'accertamento del superamento del periodo massimo di comporto, di una motivazione adeguata e preferibile, che fa corretta applicazione, entro limiti di ragionevolezza, dei principi sopra richiamati, in una prospettiva di prevalenza della tutela, prioritaria, della personalità e della salute quali diritti fondamentali dell'individuo.
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