Decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi per i lavoratori cui si applicano le tutele crescenti

Elisa Noto
08 Giugno 2015

Le rilevanti novità che il D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ha apportato alla normativa sui licenziamenti avranno necessariamente delle ricadute sulla disciplina della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore, con particolare riferimento al momento della sua decorrenza. Il presente approfondimento si propone di ripercorrere brevemente il lungo percorso di razionalizzazione della materia in esame, partendo dall'analisi delle pronunce della Corte Costituzionale, confermate successivamente dalla giurisprudenza di legittimità, per illustrare, infine, alcune ipotesi interpretative in merito al momento delle decorrenza della prescrizione nel nuovo sistema delle tutele crescenti.
La prescrizione breve in materia di rapporto di lavoro

I crediti retributivi del lavoratore, corrisposti con cadenza periodica, si prescrivono nel termine di cinque anni (art. 2948 c.c.). Nello specifico, sono soggetti a tale termine ridotto oltre alla retribuzione ordinaria, il compenso per lavoro straordinario (a prescindere dalla periodicità della relativa prestazione), le retribuzioni per festività nazionali, “ed ogni altro credito di lavoro, restando escluse dalla sua applicazione soltanto le erogazioni originate da cause autonome, rispetto a detto rapporto, ovvero dalla responsabilità del datore di lavoro

"

(Cass. 10 novembre 2004, n. 21377).

Nell'ambito dei crediti di lavoro, tuttavia, la regola ordinaria in base alla quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere non si applica in maniera assoluta. Nel corso del tempo si è, infatti, delineato un doppio regime di decorrenza:

  • in corso di rapporto di lavoro, per i lavoratori impiegati in imprese in cui trova applicazione l'obbligo di reintegra ex art. 18 L. n. 300 del 1970 (di seguito “art. 18”);
  • alla cessazione del rapporto di lavoro per le altre categorie di lavoratori.

Lo speciale regime di prescrizione, così come sopra delineato, non è frutto di un intervento normativo ma è il risultato di un lungo percorso giurisprudenziale che ripercorriamo brevemente qui di seguito.

La giurisprudenza costituzionale

La Corte Costituzionale ha inciso profondamente sulla disciplina della prescrizione dei crediti di lavoro con diversi interventi.

Il tutto prende le mosse dalla nota sentenza della Corte del 10 giugno 1966, n. 63 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, tra l'altro, dell'art. 2948, n. 4, c.c., limitatamente alla parte in cui consente che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro. In altre parole: durante il rapporto di lavoro, e fino alla cessazione dello stesso, non decorre la prescrizione del diritto alla retribuzione. La ratio della pronuncia ben si comprende inquadrando il contesto socio economico dell'epoca: in un sistema caratterizzato dalla libera recedibilità, era necessario tutelare il lavoratore il quale – versando in una situazione psicologica di timore di essere licenziato – poteva essere indotto a non esercitare i propri diritti, di fatto rinunciandovi. Ciò valeva con particolare riferimento ai rapporti di lavoro privato, non dotati di quella particolare resistenza che caratterizzava il rapporto di pubblico impiego o quelli alle dipendenze di enti pubblici economici.

Successivamente, in considerazione del mutato contesto normativo rispetto alla pronuncia del 1966 – ossia delle incisive modifiche al potere del datore di lavoro in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro – risultò naturale un nuovo intervento del Giudice delle leggi in merito alla decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro.
Si pensi alla L. del 15 luglio 1966, n. 604, il cui art. 1 stabiliva che nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato per i quali la stabilità non risulti assicurata da norme di legge o di contratto, il licenziamento non potesse avvenire se non per giusta causa o per giustificato motivo. Successivamente la L. del 20 maggio 1970, n. 300 introdusse l'ordine di reintegra del dipendente licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. In particolare, con la sentenza del 12 dicembre 1972, n. 174, la Corte ha escluso l'applicazione del principio della non decorrenza della prescrizione della retribuzione in corso di rapporto di lavoro a quei rapporti, indipendentemente dalla loro natura pubblicistica o privatistica, caratterizzati dal requisito della stabilità. Lo stesso Giudice ha sostenuto che il principio su cui poggiava la parziale invalidazione dell'art. 2948, n. 4, c.c., statuita con la citata sentenza del 1966, “non dovesse trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.

La Corte, pertanto, segnava una distinzione non solo tra impiego pubblico e privato (come aveva fatto in precedenza) ma anche – nell'ambito di quest'ultimo – tra rapporti stabili e non stabili, considerando come tali ultimi quelli in cui non trovavano applicazione le tutele introdotte nel nostro ordinamento con le leggi n. 604 del 1966 e n. 300/1970.


La giurisprudenza di legittimità

Conformandosi ai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, anche la Corte di Cassazione ha affermato che la prescrizione dei crediti di natura retributiva del lavoratore decorre in costanza di rapporto di lavoro solo ove questo sia assistito da garanzia di stabilità reale.

In particolare, la pronuncia a Sezioni Unite del 12 aprile 1976, n. 1268 ha aderito sostanzialmente ai principi espressi dalla citata sentenza della Corte Costituzionale del 1972, ritenendo che il termine di prescrizione decorrente dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (quindi anche in costanza di rapporto di lavoro), trova applicazione tutte le volte in cui il rapporto stesso sia munito del requisito della stabilità, ossia quel rapporto che – indifferentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro – sia regolato da una disciplina che subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tale circostanza e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Relativamente al settore privato il carattere della stabilità viene garantito dalla contemporanea applicabilità della legge n. 604/1960 e dell'art. 18 della legge n. 300/1970, oppure ogniqualvolta siano applicabili leggi speciali o specifiche pattuizioni (collettive o individuali) che assicurino al dipendente una tutela di intensità simile (conformi alla sentenza delle S. U. si veda Cass. 16 giugno 1987, n. 9251 e Cass. 21 giugno 1989, n. 2968.

Al contrario, “la mera stabilità obbligatoria - costituita dalla possibilità di una sentenza che, ritenendo illegittimo il licenziamento, importi per l'imprenditore soltanto l'obbligo di riassunzione in alternativa a quello del risarcimento in favore del lavoratore - non è parificabile alla (più ampia ed incisiva tutela reale accordata dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970 e, pertanto, non vale a far decorrere la prescrizione quinquennale dei crediti del lavoratore anche in pendenza del rapporto di lavoro.” (Cass. 26 agosto 1986, n. 5232)

La giurisprudenza di legittimità successiva, aderendo ai principi appena enunciati, ha altresì sottolineato che il requisito della stabilità reale del rapporto di lavoro, che consente la decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti retributivi in costanza di rapporto, vada verificata sul concreto atteggiarsi del rapporto stesso e sulla sussistenza - nel caso concreto - di una plausibile situazione psicologica di metus del lavoratore (ovvero, una situazione soggettiva di incertezza in capo al lavoratore sulla applicabilità della tutela reintegratoria ex art. 18), indipendentemente dalla disciplina giuridica astrattamente applicabile al rapporto di lavoro ove questo fosse sorto con le modalità e la disciplina che il giudice, con un giudizio necessariamente ex post, riconosce applicabile al caso concreto. Vedi in tal senso, ex multis, Cass. 2 giugno 2014, n. 12533, Cass. 28 marzo 2012, n. 4942, Cass. 23 gennaio 2009, n. 1717; Cass. 13 dicembre 2004, n. 23227. A questo orientamento, più recente e maggioritario, si contrappongono pronunce per le quali la stabilità del rapporto di lavoro deve essere valutata con riferimento alla disciplina legale che il lavoratore avrebbe potuto far valere, vedi Cass. 14 maggio 1991, n. 5344. Qualora sia controverso se il rapporto di lavoro sia soggetto o meno al regime della stabilità, secondo il prevalente orientamento l'onere della prova relativa alle circostanze di fatto che determinano la stabilità del rapporto, e dunque la decorrenza della prescrizione durante lo stesso, grava sul datore di lavoro che propone l'eccezione di prescrizione (vedi in tal senso Cass. 16 maggio 2012, n. 7640; Cass. 6 agosto 2002, n. 11793; Cass. 1 luglio 1998, n. 6441). Si pensi, ad esempio, ai rapporti definiti dalle parti come lavoro autonomo. In tal caso, la prescrizione dei crediti del lavoratore non decorre in costanza di rapporto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia stata successivamente riconosciuta la natura subordinata con garanzia di stabilità reale. Per lo stesso motivo, è stato escluso che la prescrizione decorra in costanza di rapporto di lavoro nelle ipotesi di occupazione “fluttuante” nel quale - a causa di continue variazioni della consistenza del personale - non è chiaro quale sia l'effettivo organico nell'impresa, sussistendo l'oggettiva impossibilità di stabilire ex ante l'assoggettabilità del rapporto di lavoro al regime di tutela reale ovvero obbligatoria Cass. 8 novembre 1995, n. 11615.

Quali soluzioni rispetto ai contratti a tutele crescenti? Prime ipotesi interpretative

Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, è evidente come l'entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015 imponga serie riflessioni sull'attuale operatività dell'istituto della prescrizione dei crediti di lavoro con particolare riferimento alla disciplina della relativa decorrenza.

In effetti, con i contratti a tutele crescenti conclusi a seguito dell'entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015 – ma in realtà già con la L. 92/2012 – la tutela reintegratoria diventa un'eccezione rispetto alla regola ordinaria della tutela indennitaria anche in caso di licenziamenti ingiustificati relativi a rapporti di lavoro rientranti nel campo di applicazione dell'art. 18.

Partendo dalla premessa che la giurisprudenza ha sempre ritenuto che il requisito della “stabilità” del rapporto di lavoro dovesse valutarsi in base alla concreta situazione di fatto ossia alla sicurezza o meno del lavoratore – nel caso concreto e sulla base di elementi oggettivi ed attuali (e.g. qualifica non dirigenziale e requisito occupazionale del proprio datore) – di poter godere di una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento illegittimo e/o ingiustificato, non potrebbe che concludersi che nell'attuale quadro normativo tale certezza viene meno e soprattutto non è più legata a requisiti oggettivi ed attuali (ossia conosciuti ex ante) in base ai quali il lavoratore possa decidere se formulare le proprie rivendicazioni in corso di rapporto o attendere la cessazione dello stesso. Necessaria conseguenza dovrebbe essere il differimento della decorrenza della prescrizione al momento della cessazione del rapporto.

La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con circolare n. 4 del 18 febbraio 2015, ha ipotizzato, invece, una differente conclusione. In particolare, stante il fatto che “il contratto a tutele crescenti, pur depotenziando la tutela reale, delinea comunque il diritto alla reintegra per i licenziamenti disciplinari in cui si dimostri l'insussistenza del fatto contestato e per quelli affetti da nullità”, conclude nel senso che “potrebbe ritenersi… che nelle aziende più grandi la prescrizione continui a decorrere durante il rapporto di lavoro”. La stessa Fondazione immagina, allora, che “la giurisprudenza (se non lo stesso legislatore) delineerà un regime di decorrenza invertito” ossia, sussistendo il requisito occupazionale “un lavoratore che potrà richiedere l'indennizzo economico nella misura massima o comunque in una misura consistente…maturerà la prescrizione in corso di rapporto, mentre un neoassunto la maturerà successivamente al raggiungimento di un numero di anni che potrà rappresentare un deterrente per il proprio licenziamento”. I Consulenti del Lavoro osservano, inoltre, che il D.lgs. n. 23/2015 garantisce comunque la tutela reintegratoria in caso di licenziamento nullo (in quanto discriminatorio o per altri casi di nullità previsti dalla legge) e in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa laddove sia dimostrata l'insussistenza del fatto materiale contestato. Ed ancora, sostengono che nel novero dei licenziamenti nulli possa ricondursi un licenziamento motivato da ragioni ritorsive, quali quelle conseguenti ad una richiesta di retribuzioni. Da tali considerazioni, fanno discendere la possibilità di conservare la decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro anche per i dipendenti ai quali si applicano le tutele crescenti.

Entrambe tali soluzioni non sono – a nostro avviso – condivisibili.

Circa un regime di decorrenza invertito, l'ipotesi – sebbene interessante – si scontra con quella giurisprudenza che sostiene che pur potendo riconoscere il requisito della stabilità del rapporto anche in caso di tutela non esattamente coincidente con quella prevista dall'art. 18, ha sempre escluso che una tutela indennitaria – se pur di rilevante entità – potesse comportare il decorso del termine prescrizionale nel corso del rapporto di lavoro (Cass. 23 giugno 2003, n. 9968; Cass. 13 settembre 1997, n. 9137).

Inoltre, con riferimento alla residua tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, si deve notare come questa non sia sufficiente a qualificare come “stabile” un rapporto di lavoro. Infatti, oltre a non potersi basare su circostanze oggettive e conosciute ex ante, non potrebbe mai trattarsi di una tutela reintegratoria piena: in ogni caso l'indennità risarcitoria non può superare le 12 mensilità, dalle quali andrà dedotto non solo l'aliunde perceptum ma anche l'aliunde percipiendum.

Anche la tesi secondo cui una stabilità del rapporto potrebbe farsi discendere dalla garanzia della reintegra in caso di licenziamenti nulli – tra i quali ritengono di ricomprendere quelli ritorsivi – se pur suggestiva a nostro avviso è discutibile. Si potrebbe obiettare, infatti, che la reintegra spetterebbe anche in caso di licenziamenti nulli intimati a dipendenti di aziende con meno di 16 dipendenti, arrivando all'estrema conseguenza che – a prescindere dal requisito occupazionale – anche per i dipendenti di datori di minori dimensioni la prescrizione debba decorrere nel corso del rapporto di lavoro. Ma tale soluzione si sarebbe potuta applicare ai rapporti di lavoro assistiti da tutela obbligatoria anche precedentemente alla riforma di cui si discute. Eppure, non sussistono precedenti in tal senso. Non solo. Esaminando l'art. 2 del D.lgs n. 23/2015, si nota che il legislatore fa riferimento unicamente “agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” mentre non ha richiamato la previsione della nullità del licenziamento “determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 del codice civile”, sulla quale pacificamente la giurisprudenza fondava la dichiarazione di nullità del licenziamento ritorsivo e che è tutt'ora contenuta nell'art. 18, come modificato dalla L. 92/2012. Non possiamo escludere, dunque, che con tale modifica il legislatore abbia voluto sottrarre i licenziamenti c.d. ritorsivi dalla sanzione della nullità.

In conclusione

Da quanto sopra esposto ed argomentato, emerge un quadro giuridico attuale dal quale sembrerebbe doversi ritenere superata la distinzione fra tutela reale e tutela obbligatoria, ai fini di determinare la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi. Venendo meno, infatti, la certezza della reintegrazione, anche i lavoratori dipendenti di aziende di maggiori dimensioni potrebbero essere indotti a non esercitare i propri diritti per il timore di essere licenziati.

È evidente, tuttavia, che tale conclusione non sia in linea con il contesto socio economico attuale, profondamente mutato rispetto a quello che ha visto nascere le pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione sopra ricordate, quando il licenziamento ad nutum era la regola nei rapporti di lavoro privati. Né, verosimilmente, tale conclusione è in linea con lo spirito della riforma attuata con il D.lgs. n. 23/2015: se l'obiettivo era quello di promuovere l'occupazione a tempo indeterminato, alleggerendo – e soprattutto rendendo più certi – gli obblighi gravanti sui datori di lavoro nella fase conclusiva del rapporto di lavoro, lo spostamento del termine di decorrenza dei crediti retributivi alla fase conclusiva del rapporto rischia di avere un effetto contrario.

È auspicabile, dunque, un tempestivo intervento del legislatore che faccia chiarezza sul tema in esame. In mancanza, infatti, non potrà che essere la giurisprudenza ordinaria a chiarire quale impatto abbia l'introduzione del contratto a tutele crescenti sul regime di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore. Non sarebbe sorprendente, allora, assistere a decisioni contrastanti tra loro, addirittura all'interno di sezioni di un medesimo Tribunale. Con buona pace dell'esigenza di certezza del diritto che è la stessa ragion d'essere dell'istituto della prescrizione.

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