Sull’eccezione di inadempimento nel rapporto di lavoro

Corinna Papetti
08 Luglio 2015

In tema di eccezione "inadimplenti non est adimplendum", è contrario a buona fede e, quindi, illegittimo, ai sensi dell'art. 1460, secondo comma, cod. civ., il rifiuto del lavoratore di accettare la nuova sede di lavoro a fronte dell'inadempimento del datore, il quale abbia omesso di erogargli una somma a titolo di risarcimento del danno derivante della declaratoria di nullità del termine apposto al contratto, giacché l'inadempimento in questione, non riguardando il corrispettivo della prestazione, non inerisce direttamente al sinallagma fra le obbligazioni facenti capo alle parti del rapporto di lavoro.
Massima

In tema di eccezione inadimplenti non est adimplendum, è contrario a buona fede e, quindi, illegittimo, ai sensi dell'art. 1460, secondo comma, cod. civ., il rifiuto del lavoratore di accettare la nuova sede di lavoro a fronte dell'inadempimento del datore, il quale abbia omesso di erogargli una somma a titolo di risarcimento del danno derivante della declaratoria di nullità del termine apposto al contratto, giacché l'inadempimento in questione, non riguardando il corrispettivo della prestazione, non inerisce direttamente al sinallagma fra le obbligazioni facenti capo alle parti del rapporto di lavoro.

Il caso

In seguito ad una sentenza dichiarativa della nullità del termine apposto al contratto di lavoro Tizia - all'atto della riammissione in servizio - veniva trasferita presso una sede diversa da quella ove aveva espletato originariamente le proprie mansioni; la lavoratrice conveniva quindi in giudizio il proprio datore di lavoro impugnando il licenziamento disciplinare comminato per assenza ingiustificata, dovuta al fatto che non si era mai presentata sul posto di lavoro, presso la nuova unità produttiva.

La ricorrente eccepiva, per quanto di specifico interesse ai presenti fini, che la mancata prestazione dell'attività lavorativa risultava legittima ex art. 1460 cod. civ. in ragione dell'inadempimento datoriale all'obbligazione di corrisponderle le retribuzioni arretrate a titolo risarcitorio: queste ultime, infatti, alla data in cui ella avrebbe dovuto prendere servizio nella nuova sede di destinazione (così come peraltro al momento del licenziamento) non le erano state versate.

La domanda della lavoratrice veniva rigettata dal Tribunale adito e la Corte di Appello confermava tale pronuncia.

La ricorrente, proponendo ricorso per cassazione, insisteva nell'eccezione illustrata.

In motivazione

“Secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità (cfr., ad esempio, Cass., 16 maggio 2006, n. 11430) il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui, qualora rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l'eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell'art. 1460, secondo comma, cod. civ. (…). Nel caso di specie la sentenza impugnata ha rilevato che l'inadempimento (…) riguardava un risarcimento del danno nascente dalla declaratoria di nullità del termine e non già il corrispettivo della prestazione e pertanto non riguardava direttamente il sinallagma fra le obbligazioni facenti capo a lavoratore e datore di lavoro (…)”.

La questione

La questione in esame è la seguente: in che termini l'inadempimento del datore di lavoro rispetto ad obblighi sul medesimo gravanti giustifica la mancata prestazione dell'attività lavorativa da parte del dipendente?

Le soluzioni giuridiche

La norma di riferimento è l'art. 1460 cod. civ., che dispone: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.

Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”.

La problematica interpretativa attiene alla chiarificazione delle tipologie di inadempimento datoriale che giustificano la sospensione del vincolo obbligatorio – il quale rimane in vigore ma tuttavia in stato di “latenza”– e, quindi, legittimano il lavoratore a non rendere la propria prestazione finché la controparte non adempia ai propri obblighi.

La clausola di buona fede prevista dal secondo comma della disposizione menzionata soddisfa l'esigenza di bilanciamento tra gli interessi contrapposti delle parti: sulla base di tale principio è stata individuata la soglia della gravità e della non scarsa importanza come limite oltre il quale è consentita la mancata esecuzione della prestazione, pur nella – summenzionata - vigenza del rapporto.

Deve osservarsi che se l'affermazione di principio è chiara nella sua portata teorica, la valutazione - nell'analisi delle fattispecie concrete - delle condotte che superino tale soglia può risultare, viceversa, complessa.

L'opzione interpretativa nell'uno o nell'altro senso rileva evidentemente, come nel caso qui esaminato, ai fini della qualificazione di legittimità o illegittimità del licenziamento irrogato nei confronti del lavoratore rimasto inadempiente, il quale in sede di impugnazione eccepisca la conformità della propria condotta al disposto dell'art. 1460 cod. civ.

Osservazioni

La giurisprudenza di legittimità ha affrontato sovente la questione interpretativa che ci occupa. È interessante in primis osservare che nella sentenza in commento l'operatività dell'eccezione ex art. 1460 cod. civ. è stata esclusa non già sulla base del profilo della gravità o meno dell'inadempimento datoriale (consistente nella mancata corresponsione del risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni arretrate) ma, piuttosto, a cagione dell'assenza di vincolo sinallagmatico tra le obbligazioni, cioè a dire quella datoriale disattesa e quella del lavoratore avente ad oggetto l'espletamento delle mansioni. La corrispettività tra le obbligazioni costituisce, infatti, il presupposto per la configurabilità stessa dell'eccezione, soltanto in presenza del quale dovrà essere verificato se l'inadempimento possa, a sua volta, qualificarsi grave o di non scarsa importanza.

In particolare, tra le ipotesi in cui tale gravità è stata ritenuta sussistente, con conseguente legittimità del rifiuto del prestatore, si annovera anzitutto la violazione da parte del datore degli obblighi di protezione attinenti alle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro ed incombenti sullo stesso ex art. 2087 cod. civ. (Cass. sez. lav., 7 novembre 2005, n. 21479). A tale proposito, la Suprema Corte ha, naturalmente, precisato che la facoltà di astenersi è circoscritta a quelle, tra le mansioni, la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio all'integrità fisica del soggetto (Cass. sez. lav., 10 agosto 2012, n. 14375). Ha inoltre riconosciuto la legittimità dell'astensione solo ove il lavoratore abbia evidenziato al datore l'inidoneità delle misure in essere (Cass. sez. lav., 7 maggio 2013, n. 10553).

È stato altresì statuito che il rifiuto di svolgere l'attività lavorativa non comporta il venir meno del diritto alla retribuzione, alla cui corresponsione l'impresa rimane comunque tenuta, considerato che non possono gravare sul lavoratore le conseguenze sfavorevoli causalmente determinate dall'inadempimento altrui (Cass. sez. lav., 1 aprile 2015, n. 6631).

Ulteriore fattispecie nella quale l'astensione del prestatore è stata considerata autorizzata è quella in cui - a seguito di sentenza dichiarativa della nullità del termine - il lavoratore sia stato riammesso in servizio con trasferimento presso unità produttiva diversa da quella iniziale, laddove tale trasferimento non risulti sorretto da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive e non sia quindi conforme ai requisiti di cui all'art. 2103 cod. civ. (Cass. sez. lav., 16 maggio 2013, n. 11927).

Per altro verso, l'eccezione sollevata ex art. 1460 cod. civ. è stata respinta in ipotesi in cui l'inadempimento, pur consistito nella mancata corresponsione della retribuzione, sia stato limitato ad una sola mensilità (Cass. sez. lav., 5 settembre 2012, n. 14905).

Sotto il profilo dell'obbligo di adibire il dipendente alle mansioni per le quali egli è stato assunto - o corrispondenti alla qualifica successivamente acquisita - è stato per lo più ritenuto che al lavoratore non sia consentito rifiutarsi di espletare l'attività (ferma chiaramente la facoltà di agire in giudizio per la riconduzione delle mansioni alla qualifica posseduta); ciò sulla base dell'obbligo altresì, per il lavoratore, di procedere all'esecuzione dell'attività nell'osservanza degli articoli 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi sulla scorta del principio stabilito dall'art. 41 Costituzione. È stato tuttavia specificato che il rifiuto diviene legittimo in caso di gravità estrema dell'inadempimento datoriale, ossia laddove quest'ultimo sia tale da incidere sulle esigenze vitali del lavoratore in modo irrimediabile (Cass. sez. lav., 20 luglio 2012, n. 12696).

In conclusione, è l'indispensabile bilanciamento degli interessi delle parti - trasfusi ed oggettivati nel contratto di lavoro - a governare la valutazione in esame: il rigore che deve caratterizzare il giudizio di cui si tratta è imposto dall'esigenza di evitare il realizzarsi di alterazioni dell'equilibrio negoziale, le quali si risolverebbero nella sostanziale elusione della vincolatività del contratto ex art. 1372 cod. civ.

L'art. 1460 cod. civ., infatti, presenta come sopra detto un'efficacia dirompente nel sistema imperniato sulla norma da ultimo citata, consentendo la mancata esecuzione dell'obbligazione contrattuale pur nella vigenza del rapporto; al contempo costituisce importante strumento di autotutela proprio in vista della concretizzazione dell'equilibrio sinallagmatico, ove inciso da condotte di inadempimento grave.