Lavoro domestico: il marito è datore di lavoro “apparente”

Paolo Laguzzi
08 Settembre 2015

In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, non sussiste vincolo di solidarietà per le obbligazioni assunte da uno di essi per soddisfare i bisogni familiari pur in presenza di un regime di comunione legale, fatto salvo il principio di affidamento del creditore che abbia ragionevolmente confidato nell'apparente realtà giuridica, desumibile dallo stato di fatto, che il coniuge contraente agisse anche in nome e per conto dell'altro. Ne consegue che il credito vantato dalla collaboratrice domestica per le obbligazioni assunte dalla moglie, da cui promanavano le quotidiane direttive del servizio, rende coobbligato anche il marito, datore della provvista in danaro ordinariamente utilizzata per la corresponsione della retribuzione sì da ingenerare l'affidamento di esser l'effettivo datore di lavoro.
Massime

In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, non sussiste vincolo di solidarietà per le obbligazioni assunte da uno di essi per soddisfare i bisogni familiari pur in presenza di un regime di comunione legale, fatto salvo il principio di affidamento del creditore che abbia ragionevolmente confidato nell'apparente realtà giuridica, desumibile dallo stato di fatto, che il coniuge contraente agisse anche in nome e per conto dell'altro. Ne consegue che il credito vantato dalla collaboratrice domestica per le obbligazioni assunte dalla moglie, da cui promanavano le quotidiane direttive del servizio, rende coobbligato anche il marito, datore della provvista in danaro ordinariamente utilizzata per la corresponsione della retribuzione sì da ingenerare l'affidamento di esser l'effettivo datore di lavoro.

Nel processo del lavoro, l'onere di contestare specificamente i conteggi relativi al "quantum" sussiste anche quando il convenuto contesti in radice la sussistenza del credito, poiché la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l'affermazione dell'erroneità della loro quantificazione, mentre la contestazione dell'esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, dovendosi escludere una generale incompatibilità tra il sostenere la propria estraneità al momento genetico del rapporto e il difendersi sul "quantum debeatur". Ne consegue che la parte, qualora neghi non l'esistenza del rapporto lavorativo ma solo la propria titolarità passiva dell'obbligazione contrattuale, riferendola ad altri, non è esonerata dalla contestazione dei conteggi, i quali, in assenza di tale censura, si consolidano nell'importo formulato.

Il caso

La Collaboratrice Familiare, dopo circa 10 anni di lavoro prestato al servizio della Famiglia, conveniva avanti il Giudice del lavoro il Marito, chiedendone la condanna al pagamento di somme a vario titolo maturate a credito in corso di rapporto.

Il Marito si costituiva in giudizio contestando la propria legittimazione passiva, per essere il rapporto di lavoro domestico (non regolarizzato con una formale assunzione) intercorso con la di lui Moglie, nel frattempo separatasi.

L'adito Tribunale accoglieva la domanda della ricorrente, pronunciando condanna generica stante l'incompletezza del conteggio allegato.

La Corte di Appello respingeva il gravame del Marito accogliendo invece l'appello incidentale della Collaboratrice Familiare: e così stabilendo il quantum dellacondannain virtù del principio di non contestazione, principio da applicarsi anche a carico della controparte che, come il Marito resistente, aveva limitato le difese alla negazione della propria legittimazione passiva.

Il Marito proponeva ricorso per cassazione, articolando due motivi: il primo afferente la violazione dell'art. 1372 comma 2 c.c. sull'efficacia del contratto e la falsa applicazione del principio dell'apparenza del diritto; il secondo relativo alla violazione dell'art. 416 comma 3 c.p.c. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto sussistere a carico del resistente l'onere di contestazione, in un caso in cui vi era stata radicale negazione della titolarità passiva del rapportoprospettato.

La Collaboratrice Familiare resisteva con controricorso.

La questione

La Suprema Corte, pur ribadendo l'insussistenza di vincolo di solidarietà tra i coniugi per le obbligazioni assunte da uno di essi per soddisfare i bisogni familiari, quand'anche gli stessi siano in regime di comunione legale, fa salvo e applica nella specie il c.d. principio dell'apparenza del diritto.

Con ciò la Corte riconosce meritevole di tutela l'affidamento della lavoratrice domestica che, in ragione della somministrazione dal marito alla moglie della provvista utilizzata per la sua retribuzione, ha attribuito al primo la posizione di datore di lavoro, pur avendo egli delegato alla moglie le direttive quotidiane del servizio.

Le soluzioni giuridiche

Nella teoria generale viene definito “di apparenza” il principio in base al quale la mera sembianza di una situazione di fatto o di diritto, nel concorso di particolari circostanze che lo giustifichino, può produrre gli effetti della situazione stessa nei confronti di chi su di essa ha fatto ragionevole affidamento.

La dottrina dell'apparenza, la cui origine può farsi risalire agli interpreti francesi e tedeschi del IX secolo, trova ingresso in Italia all'inizio del secolo successivo e si consolida attraverso gli studi di Mariano D'Amelio (D'Amelio, Sull'apparenza del diritto, MT, 1934), primo presidente della Corte di Cassazione dal 1923 al 1941 e, non a caso, ebbe in quegli anni e nei successivi elaborazione eminentemente giurisprudenziale.

Le corti da allora presero a giudicare conformandosi alla seguente regola: colui il quale è in colpa per aver creato l'apparenza di una situazione non può far valere il vero stato delle cose nei confronti del terzo che abbia confidato incolpevolmente nell'apparenza.

Il diritto positivo e, in particolare, il codice civile si limita a disciplinare singole ipotesi (ad es.: l'erede apparente, art. 534; il pagamento al creditore apparente, art. 1189; si discute se anche nella posizione del simulato acquirente, artt. 1415 e 1416 c.c., si possa ravvisare un'ipotesi di apparenza) in cui è protetta la buona fede fondata sull'apparenza o sulla pubblicità.

La regola sull'apparenza è quindi di fonte giurisprudenziale e rappresenta la più importante norma civilistica creata dal giudice al di là della legge.

Ne discende una situazione di contrasto tra la parte maggioritaria della dottrina, che limita la rilevanza dell'apparenza alle ipotesi normativamente richiamate; e la giurisprudenza che, in base alle medesime norme, la ritiene un principio generale del nostro ordinamento.

Tra le applicazioni più frequenti di tale principio vanno ricordate quelle in materia di società apparente, di apparenti poteri rappresentativi, di titolarità apparente di un'azienda nonché, pur in modo discontinuo, di provvedimenti della pubblica amministrazione apparentemente validi.

Altro settore di applicazione è quello dei rapporti contrattuali tra i coniugi ed i terzi, con particolare riferimento alla fattispecie della responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie tutte le volte che sia stata posta in essere una situazione tale da indurre i terzi a ritenere che la moglie abbia agito in nome del marito.

In materia giuslavoristica, tale fattispecie si è essenzialmente concentrata nell'individuazione del soggetto responsabile per le obbligazioni relative al lavoro domestico.

La pronuncia in commento ne costituisce un esempio.

Il lavoro domestico rientra tra i rapporti speciali di lavoro subordinato e, in base all'art. 2240 c.c. ed all'art. 1 L. 2 aprile 1958 n. 339, si caratterizza per il fatto che l'attività lavorativa viene prestata nell'ambito di una convivenza familiare o parafamiliare (elemento soggettivo-strutturale) per il soddisfacimento delle esigenze della vita familiare stessa con particolare riferimento al governo della domus (elemento teleologico-finalistico).

La disciplina codicistica oggi ha un rilievo residuale.

Il legislatore, infatti, con la L. 2 aprile 1958 n. 339 ha regolamentato separatamente i rapporti di lavoro domestico che si svolgono per almeno quattro ore giornaliere presso il medesimo datore.

Ne discende che gli artt. da 2240 a 2246 del codice civile continuano a regolare i soli rapporti ai quali non si applichi la predetta legge speciale.

La sentenza in commento, nel decidere sulla domanda di pagamento proposta da una lavoratrice domestica per somme a vario titolo maturate nel corso del rapporto stesso, domanda proposta nei confronti del solo marito in assenza di una formale assunzione da parte dei coniugi, fa applicazione dei seguenti principi di diritto:

  • nella disciplina del diritto di famiglia, introdotta dalla legge 19 maggio 1975 n. 151, l'obbligazione assunta da un coniuge per soddisfare bisogni familiari non pone l'altro coniuge – indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni - nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi (la Corte richiama il proprio precedente n. 3471 del 2007; conformi altresì Cass. n. 25026/2008 e n. 6118/1990);
  • nondimeno, rimane salva l'ipotesi – nella specie accertata in fatto dal giudice del merito – dell'obbligazione contrattuale nascente a carico del marito in virtù del principio dell'apparenza, data dal fatto che il contraente che ha contrattato con uno dei coniugi dovesse fare ragionevole affidamento che questi agisse anche in nome e per conto dell'altro coniuge (la Corte richiama in proposito la precedente sua pronuncia n. 87 del 1998, peraltro vertente in tema di contratto di locazione);
  • nella determinazione della quantità ed entità delle prestazioni lavorative, la mancata specifica contestazione dei conteggi allegati dal ricorrente rende, ai sensi dell'art. 416 comma 3 c.p.c., i conteggi accertati in via definitiva anche nel caso in cui la parte resistente neghi in radice l'esistenza del credito avversario o, come nel caso di specie, sostenga la propria estraneità al rapporto controverso (la Corte sul punto richiama l'orientamento scaturito a seguito della pronuncia a Sezioni Unite n. 761/2002 e quindi, ex multis, Cass. n. 4051/2001 e n. 12408/2013).

Sul tema dell'apparenza del diritto ai fini dell'individuazione delle parti del rapporto di lavoro, argomento centrale della pronuncia in esame, segnaliamo che nella giurisprudenza di legittimità si rinviene un precedente di segno contrario.

Infatti, con la sentenza 5 marzo 2012 n. 3418 la Corte di Cassazione afferma che per l'individuazione del datore di lavoro, al criterio dell'apparenza del diritto il giudice deve preferire il criterio dell'effettività del rapporto, in quanto la subordinazione è la soggezione del lavoratore all'altrui effettivo potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare.

Come si evince dalla parte motiva di tale diversa pronuncia, nel caso di specie una lavoratrice aveva reso prestazioni domestiche in favore di una persona anziana osservando, nel corso del rapporto, le direttive della di lei figlia e da questa percependo la retribuzione.

Nel processo medesimo la Suprema Corte ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, correggendone tuttavia la motivazione, nel senso che la legittimazione passiva della figlia era fondata sull'effettività del potere direttivo da lei esercitato e non – come ritenuto dal giudice territoriale – sull'apparenza giuridica determinata dalla sua condotta.

Osservazioni

La sentenza commentata applica al contratto di lavoro domestico il principio dell'apparenza del diritto, secondo schemi ormai risalenti e consolidati nella giurisprudenza.

Volendo qui tralasciare gli spunti critici che, in linea generale, diversi autori muovono a tale principio, prendiamo atto che anche in questo caso detta regola giudiziaria viene impiegata come una vera e propria norma di diritto positivo, pur non essendolo affatto: al dichiarato fine di apprestare una tutela più efficace al terzo quando il soggetto interessato abbia con il proprio comportamento suscitato una ragionevole convinzione circa l'esistenza di una data situazione di fatto o di diritto.

In ogni caso, va considerato il rilievo più volte espresso in dottrina secondo cui dell'apparenza occorre dare un inquadramento coerente con il diritto positivo.

Nel caso di specie, tale coerenza pare mancare.

Invero la Corte, disattendendo le doglianze sollevate in ricorso, ha ritenuto che la sussistenza del solo “indice” di subordinazione costituito dalla somministrazione della provvista utilizzata per la retribuzione valesse ad attribuire al somministrante stesso la posizione di datore di lavoro, pur promanando da altro soggetto, la moglie, le direttive quotidiane del servizio.

L'approdo si palesa in contrasto con la nozione di subordinazione individuata da dottrina e giurisprudenza nell'interpretazione dell'art. 2094 c.c.: rappresentata dalla soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro.

In altri termini, nell'applicare il principio dell'apparenza, la pronuncia si è concentrata sull'esame delle circostanze che hanno nella specie connotato e giustificato detta apparenza e cioè sui tratti della situazione di fatto manifestatasi al contraente in buona fede, dimenticando però di valutare se questa situazione fosse tale da potersi qualificare giuridicamente quale rapporto di lavoro subordinato, in conformità ai comuni canoni interpretativi dell'art. 2094 c.c..

In tale prospettiva, è senz'altro da preferirsi l'approccio alla questione fornito attraverso il citato precedente giurisprudenziale in materia di lavoro domestico (Cass. sez. lav. n. 3418/2012), decisione nella quale [v. supra] la legittimazione passiva del datore di lavoro invece che sulla base del principio dell'apparenza è stata accertata attraverso la verifica dell'effettività del rapporto di lavoro, vale a dire dell'effettivo esercizio in concreto degli specifici poteri datoriali.

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