Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo "organizzativo": la fattispecie
10 Gennaio 2017
Massime
In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, tra le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro rientrano anche quelle organizzative, come, ad esempio, quella diretta ad una migliore efficienza gestionale, anche a prescindere dall'andamento economico negativo dell'azienda
Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente dimostrare l'effettività del mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, a meno che il datore di lavoro non abbia motivato il licenziamento richiamando l'esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli. Il caso
Il caso esaminato dalla Cassazione riguarda un licenziamento intimato da un'azienda per soppressione della mansione di direttore operativo per ridurre la catena di comando.
A questa fattispecie concreta il giudice di primo e di secondo grado hanno dato soluzioni differenti, respingendo il primo la domanda del lavoratore, mentre la corte d'Appello, pur confermando la soppressione del posto, ha ritenuto il licenziamento illegittimo per l'insussistenza del requisito economico in quanto non imposto da riduzioni di fatturato o aumento di costi di produzione.
La Cassazione, con sentenza del 7 dicembre 2016 n. 25201, ha cassato con rinvio la sentenza della corte d'Appello con una motivazione molto articolata che, a mio avviso, ha il pregio di riconoscere la sussistenza della fattispecie giustificato motivo oggettivo anche in assenza di una situazione di difficoltà economica del datore di lavoro, ed anche prescindendo da dati economici.
Questioni
Nel principio di diritto enunciato nella motivazione della sentenza infatti trova riconoscimento, accanto alla definizione di causa economica, anche quella di causa organizzativa. Precisamente, si afferma che il giudice è legittimato a verificare la sussistenza e la veridicità del riassetto organizzativo come causale del licenziamento. Non solo: tra “le ragioni” la Suprema Corte non esclude quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa. In altri termini si osserva un riconoscimento delle ragioni strettamente “organizzative” come causali della soppressione del posto.
Inoltre, nel principio di diritto enunciato in questa motivazione, si conferma implicitamente quanto affermato da un'altra recente sentenza del 28 settembre 2016, n. 19185, secondo la quale il giustificato motivo oggettivo “organizzativo” rileva a condizione che il licenziamento sia la conseguenza e non la causale del riassetto organizzativo. Secondo la sentenza n. 19185/2016 “certe mansioni, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, possono essere suddivise tra più lavoratori ognuno dei quali le vedrà aggiunte a quelle già espletate: il risultato finale fa emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anzichè costituirne mero effetto di risulta”.
E tuttavia, mentre quest'ultima sentenza ha elevato “la soppressione del posto” a rango di primo presupposto del giustificato motivo oggettivo senza preoccuparsi di verificare le ragioni del riassetto organizzativo che sono alla base della soppressione del posto, la sentenza del 7 dicembre 2016 da un lato riafferma il controllo da parte del giudice della veridicità e della sussistenza della causale economica, (solo se) addotta dall'imprenditore a monte della scelta espulsiva, e, dall'altro, al di fuori di tale ipotesi, per la soppressione di una individuata posizione lavorativa afferma che “la ragione organizzativa e produttiva” può identificarsi nell'effettivo mutamento dell'assetto organizzativo.
Orbene queste affermazioni si prestano a qualche osservazione e puntualizzazione. Le soluzioni giuridiche
In primo luogo, la motivazione esclude che l'andamento economico negativo dell'azienda costituisca presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare e il giudice accertare e però, per contro, afferma che, ove il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore.
Non è persuasivo, però, affermare che lo stesso fatto possa assumere o non assumere rilevanza causale e quindi diventare un requisito della fattispecie a seconda che sia menzionato o non menzionato nella lettera di intimazione del licenziamento.
In secondo luogo, da questa lettura si può trarre la conclusione che, laddove il datore di lavoro adduca una ragione di tipo economico alla base della soppressione del posto, il giudice è legittimato a verificarne la veridicità e la sussistenza, mentre nel caso in cui la scelta di sopprimere il posto di lavoro sia basata su una modificazione organizzativa, il giudice deve limitarsi ad accertare l'effettiva esistenza di un riassetto organizzativo (ad es. ridistribuzione delle mansioni o soppressione della funzione alla quali era addetto il lavoratore o nell'esternalizzazione della sua attività a terzi, o nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto), perché la modifica organizzativa stessa è, nelle motivazioni della Corte, la ragione di cui fornire la prova.
Di fronte a un'interpretazione siffatta, da oggi in poi qualunque imprenditore si guarderà bene dall'indicare le ragioni economiche alla base del licenziamento per non cadere sotto la scure dell'accertamento del giudice, ma si limiterà a indicare, nella lettera di intimazione del licenziamento, un generico riassetto organizzativo (ad es. effettiva soppressione o ridistribuzione delle funzioni e mancata assunzione di altri lavoratori) come ragione del licenziamento.
In realtà, l'art. 3 della Legge n. 604/1966 non si limita a richiedere all'imprenditore la prova della sussistenza e dell'effettiva soppressione del posto e del nesso di causalità tra questa e il licenziamento ma individua la fattispecie del giustificato motivo oggettivo nelle "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa". Dalla esegesi della norma risulta quindi che i requisiti del giustificato motivo oggettivo sono tre e non due :
Invece, secondo la motivazione della Corte, la modificazione organizzativa può corrispondere anche a obiettivi di una “migliore efficienza gestionale o produttiva” o, ancora, ad un aumento della redditività (e quindi del profitto), ma non si tratta di un aspetto necessario della verifica giudiziale. Ciò perché la modificazione organizzativa, in sé e per sé considerata, determina la riduzione del personale: la prova della sua esistenza è condizione necessaria e sufficiente per ritenere giustificato il licenziamento.
D'altra parte è bene precisare che non si devono confondere le ragioni alla base della soppressione del posto con le scelte dell'imprenditore e tanto meno con le sue motivazioni.
Come è evidente, le scelte e le motivazioni sono insindacabili ma le ragioni che determinano la soppressione del posto vanno accertate dal giudice non discrezionalmente ma utilizzando criteri oggettivi e verificabili per evitare il controllo del giudice diventi un controllo di merito o si risolva in una semplice ratifica della decisione imprenditoriale.
Facciamo un esempio: un'impresa organizzata per la produzione e vendita di due prodotti cessa di produrne uno e, pertanto, le prestazioni del direttore di produzione e del direttore commerciale del prodotto eliminato diventano verosimilmente inutili. In questo caso la scelta e la motivazione di eliminare uno dei due prodotti è insindacabile, ma la ragione che determina la soppressione del posto deve essere accertata dal giudice, ovviamente non discrezionalmente ma utilizzando un criterio oggettivo e verificabile, ad esempio la inutilità della prestazione conseguente alla eliminazione del prodotto. Beninteso, come si vedrà in seguito, il criterio dell'inutilità della prestazione non è l'unico.
A questo proposito va chiarito una volta per tutte che il sindacato sulla sussistenza e veridicità delle ragioni “organizzative” addotte dall'imprenditore per giustificare la soppressione del posto non deve essere confuso con il sindacato di merito sulla congruità delle scelte dell'imprenditore, perché in quest'ultimo caso si tratterebbe di un controllo discrezionale non consentito, mentre nel primo caso il controllo del giudice è di legittimità e quindi non solo è consentito ma doveroso ai sensi dell'art. 3, Legge n. 604/1966.
In altre parole, la sentenza, pur conferendo dignità normativa al requisito organizzativo in sé e per sé considerato, mediante il richiamo a categorie non valutabili esclusivamente dal punto di vista economico (quali la “migliore efficienza gestionale" che determini “la soppressione di una posizione lavorativa"), come si è detto, non ha enucleato (consapevolmente o inconsapevolmente) criteri idonei per individuare tale ragione organizzativa, in assenza dei quali il riassetto organizzativo rischia di appiattirsi tautologicamente sulla mera soppressione del posto, che invece dovrebbe costituire la conseguenza della ragione organizzativa (e con ciò finendo per tradire la stessa interpretazione letterale della norma, che si riferisce alla “ragione" che determina la soppressione del posto/licenziamento).
Se questa è la conclusione cui perviene la Cassazione del 7 dicembre 2016, ho l'impressione che in questo caso la motivazione ha omesso di indicare parametri e criteri oggettivi che consentano al giudice di accertare la veridicità e la effettiva sussistenza delle ragioni organizzative addotte dal datore di lavoro per timore che il suo sindacato possa essere considerato di merito.
In tale ottica, pertanto, appare opportuno individuare alcuni possibili parametri di identificazione della ragione organizzativa, per evitare che tale presupposto nasca ab origine svuotato di contenuto e che si traduca in ciò che la Corte afferma di non volere, ossia “un recesso ad nutum frutto di scelte autosufficienti ed insindacabili dell'imprenditore" (cfr. ancora Cass. n. 25201/2016, p. 13).
Come si è già rilevato, ma vale la pena ribadirlo: soltanto l'uso di tali criteri e parametri oggettivi esclude che il controllo del giudice diventi di merito ovvero una semplice ratifica notarile della decisione del datore di lavoro di sopprimere il posto di lavoro.
E ancora, l'uso di tali criteri e parametri evita che il giustificato motivo oggettivo, in nome di un dichiarato ma non dimostrato riassetto organizzativo, diventi una sorta di licenza al datore di lavoro di sopprimere con assoluta discrezionalità posti di lavoro, risultando sufficiente l'accertamento della veridicità della soppressione del posto di lavoro. Se così fosse si avvalorerebbe la tesi della non pretestuosità del licenziamento (che qui si contesta) perché in ultima analisi potrebbe tradursi in una sorta di licenziamento ad nutum mascherato e neppure oneroso.
Per evitare questo rischio, resto convinto che il datore di lavoro per licenziare per giustificato motivo oggettivo “organizzativo” debba preventivamente indicare, non le sue scelte (come tali insindacabili) e neppure le motivazioni, ma "le ragioni conseguenti a tali scelte che determinano nel caso specifico la soppressione del posto".
E il giudice deve accertare che le ragioni alla base del riassetto organizzativo addotte dal datore di lavoro siano vere ed effettivamente sussistenti e, in secondo luogo, deve indicare i parametri di cui si avvale per controllare che il suddetto riassetto dichiarato abbia determinato effettivamente la soppressione del posto di lavoro. E tra questi parametri va segnalata sicuramente la sopravvenuta inutilità della prestazione di lavoro e la non sostituzione del lavoratore licenziato con altro soggetto.
Si possono prospettare diversi esempi in cui la prestazione diventa oggettivamente inutile.
Interessante la fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione n. 23620/2015 (v. il commento di G. Danise, in questo Portale, Anche il maggior profitto giustifica il licenziamento per g.m.o.), concernente una clinica operante nel settore della sanità privata in accreditamento con il SSN, la quale aveva assunto la lavoratrice, poi licenziata per giustificato motivo oggettivo, quale tecnico di laboratorio responsabile del laboratorio di analisi. Alla base del licenziamento per motivo oggettivo era stato posto “Provvedimento amministrativo della Regione datato 16 aprile 2006, che ravvisava, per garantire qualità ed efficacia del servizio sanitario, la necessità di assumere per il laboratorio di analisi, un direttore laureato in biologia o in chimica”. Ne “conseguiva l'inutilità” delle mansioni affidate alla lavoratrice.
In sostanza, secondo i giudici di legittimità che hanno deciso la suddetta controversia (Cass. n. 23620/2015) il giustificato motivo oggettivo “ben può consistere in una valutazione dell'imprenditore che, in base all'andamento economico dell'impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive". In questo caso, quindi, il dipendente licenziato è sostituito da un altro più qualificato e la finalità non è la riduzione dei costi.
Altro esempio nel settore degli studi legali.
Tradizionalmente, almeno per gli studi più strutturati, era comune avere una o più segretarie che si occupavano di deposito e notifica di atti giudiziari in tribunale, rapporti con le cancellerie, insomma i cd “giri" in tribunale. Da un paio di anni, con l'introduzione per legge del Processo civile telematico (PCT), tutto deve o può avvenire telematicamente mediante l'uso di speciali chiavette che si attivano secondo modalità particolari, autorizzate dal Tribunale etc. La procedura telematica nei processi, pur non essendo impossibile da capire, presenta numerose insidie, per la risoluzione delle quali è anche necessario avere qualche cognizione di informatica (e l'errore, in questi casi, si paga caro: inammissibilità del ricorso, tardività della costituzione, documenti non allegati agli atti etc.).
Ebbene, in molti studi legali, stanno assumendo informatici, molto ben pagati, per fare il lavoro che prima era delle segretarie, che quindi vengono licenziate. Questa esigenza riorganizzativa, lungi dall'essere finalizzata alla riduzione dei costi (i costi aumentano solo: è necessario sottoscrivere un abbonamento annuale al PCT, assumere un lavoratore qualificato), e men che meno al conseguimento dei profitti o una più economica gestione, è semplicemente una riorganizzazione necessitata e subita dagli studi e dai loro titolari (ovviamente poi, inciderà poco in termini di costi per un grande studio, e invece parecchio in uno studio di medie dimensioni).
E quando l'imprenditore adduca come causa del licenziamento una più efficace gestione aziendale o un incremento di produttività, il giudice, per accertare la veridicità e la sussistenza di queste causali, deve avvalersi di una serie di indici - qui indicati a mero titolo esemplificativo ma oggettivamente verificabili, come:
Altro esempio: la decisione di concentrare le proprie risorse su uno anzicchè due prodotti. E, a seguito di questa decisione, insindacabile, ne consegue una riorganizzazione che comporta l'inutilità della presenza di due direttori di produzione e di due direttori commerciali. Riorganizzazione, si noti, che non comporta necessariamente almeno nel breve periodo una riduzione dei costi. Osservazioni
In conclusione, a mio avviso è legittimo un licenziamento determinato da ragioni esclusivamente organizzative e non provocate necessariamente da motivo economico.
Anzi, è bene precisare che il riassetto organizzativo, anche se determina la soppressione del posto di lavoro, non comporta necessariamente una riduzione dei costi, ma può lasciarli invariati o determinare almeno temporaneamente un aumento degli stessi.
Il giudice, per accertare ex post la veridicità e la sussistenza delle ragioni addotte dall'imprenditore che giustificano la soppressione del posto e, conseguentemente, il licenziamento, deve ricorrere ad un criterio oggettivo come quello della inutilità sopravvenuta della prestazione (da non confondere con l'assolvimento dell'obbligo di repechage) e deve avvalersi dei suindicati criteri e parametri oggettivi nell'ipotesi in cui una più efficace gestione aziendale sia addotta dall'imprenditore come causale del licenziamento.
L'adozione del parametro oggettivo dell'inutilità della prestazione o l'accertamento da parte del giudice dei suindicati criteri quando la più efficace gestione aziendale sia addotta come causale del licenziamento, consente anche di superare l'obbiezione che il riassetto produttivo possa celare in realtà un licenziamento ritorsivo o l'emarginazione di un dipendente senza per questo integrare gli estremi del mobbing.
Si noti che il confine tra licenziamento pretestuoso illecito ma valido e ritorsivo nullo è talvolta molto labile e si risolve sul piano della prova, non sempre agevole per il lavoratore. E, tuttavia, le conseguenze sono assai diverse perché nel caso del licenziamento pretestuoso la sanzione è il risarcimento, mentre per il licenziamento ritorsivo che rientra nell'area del licenziamento discriminatorio la sanzione è quella della reintegrazione. |