Non contrasta con gli artt. 5 e 8 della L. n. 300 del 1970 la condotta del datore di lavoro che si rivolga ad una agenzia investigativa al fine di verificare l'attendibilità della certificazione medica inviata dal lavoratore, posto che gli accertamenti di carattere sanitario possono essere contestati anche valorizzando ogni circostanza di fatto, pur non risultante da un accertamento di tipo sanitario, quando ciò sia necessario a dimostrare l'insussistenza o la non idoneità della malattia a determinare uno stato di incapacità lavorativa.
Massime
“Non contrasta con gli artt. 5 e 8 della L. n. 300 del 1970 la condotta del datore di lavoro che si rivolga ad una agenzia investigativa al fine di verificare l'attendibilità della certificazione medica inviata dal lavoratore, posto che gli accertamenti di carattere sanitario possono essere contestati anche valorizzando ogni circostanza di fatto, pur non risultante da un accertamento di tipo sanitario, quando ciò sia necessario a dimostrare l'insussistenza o la non idoneità della malattia a determinare uno stato di incapacità lavorativa”.
“Può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppur compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per come si manifesta, ad arrecare un pregiudizio al datore di lavoro, benchè non economico”.
Il caso
Il signor C.M., dipendente presso A. S.p.a., previa contestazione degli addebiti, veniva licenziato per giusta causa, mentre era in malattia, per aver tenuto una condotta incompatibile ictu oculi con la patologia dichiarata, come risultava dalla relazione dell'agenzia investigativa incaricata dalla Società. Più precisamente il signor C.M. - dichiarato dall'INAIL, a seguito di denuncia di malattia professionale, affetto da una menomazione della integrità psico-fisica, consistente nel deficit dell'estremo rachide lombare, con danno biologico dell'8% - si assentava dal lavoro nel periodo compreso tra il 22 novembre ed il 6 dicembre 2004 a causa di una lombosciatalgia acuta. All'esito delle indagini svolte dall'agenzia investigativa era risultato che, nel medesimo periodo, C.M. aveva posto in essere azioni (quali, l'aver sollevato una bombola del gas da 25 Kg, l'aver sostituito una ruota della propria autovettura con quella di scorta posizionata sotto il veicolo e l'aver sollevato in braccio, la propria figlia, dondolandola mentre camminava) che denotavano una buona efficienza fisica e risultavano del tutto incompatibili con la patologia (acuta), causa della prolungata assenza dal lavoro. La gravità della condotta tenuta dal lavoratore - consistente nell'essere rimasto assente per una denunziata patologia, poi risultata insussistente o, comunque, non così grave da impedire lo svolgimento dell'attività lavorativa - andando ad incidere in maniera diretta sul vincolo fiduciario, così da impedire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, aveva indotto la Società a disporre un licenziamento per giusta causa. Il lavoratore, impugnato il provvedimento espulsivo in via cautelare ed ordinaria, si vedeva respinto il ricorso dal Tribunale di Salerno. Ricorreva, allora, il lavoratore alla Corte d'Appello di Salerno, che confermava la sentenza di primo grado. A sua volta, la Corte d'Appello riteneva che la condotta del signor C.M., accertata a mezzo dell'agenzia investigativa incaricata dalla Società A. spa durante il periodo di assenza per malattia, fosse “di indubbia gravità” e tale da integrare gli estremi di “causa legittimante l'adozione del provvedimento estintivo del rapporto di lavoro”. Il signor C.M. impugnava la sentenza della Corte di Appello di Salerno avanti la Suprema Corte con quattro motivi di ricorso.
Le questioni
Le questioni in esame sono le seguenti:
è legittimo il licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. e art. 1 L. n. 604/1966 fondato su una condotta tenuta dal lavoratore al di fuori dello svolgimento dell'attività lavorativa, in considerazione del fatto che non ne è derivato un pregiudizio economico per il datore di lavoro? E, ancora,
costituisce violazione degli artt. 5 ed 8 della L. n. 300/1970 la condotta del datore di lavoro che incarica una agenzia investigativa di pedinare il lavoratore assente per malattia, al fine di verificare la sussistenza della patologia denunziata o, quantomeno, l'idoneità della stessa a determinare uno stato di incapacità lavorativa, tale da giustificare l'assenza dal lavoro?
Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte, nel rispondere al primo dei predetti quesiti, si pone in linea con i propri precedenti giurisprudenziali sia in tema di giusta causa, che in ordine alla possibilità per il datore di lavoro, in determinate ipotesi, di effettuare controlli sui propri dipendenti, in relazione a condotte tenute dal lavoratore al di fuori della prestazione lavorativa, anche quando dalle stesse non sia derivato un pregiudizio economico per la società. Occorre premettere che, in linea generale, le condotte tenute al di fuori del lavoro sono da ritenersi irrilevanti, perché appartengono alla vita privata e sono estranee al rapporto di lavoro. In alcuni casi, tuttavia, tali comportamenti assumono rilievo in quanto idonei a ledere il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro stesso; si pensi al caso del lavoratore che spacci droga (cfr., ad esempio, Cass. 17 giugno 2002, n. 8716) o che commetta un altro reato al di fuori dall'esercizio della sua attività lavorativa (cfr., ad esempio, Cass. 30 agosto 2000, n. 11430; relativamente ad un servizio pubblico in regime privatistico, cfr. Cass. 19 gennaio 2015, n. 776) o, ancora, che svolga un'altra attività lavorativa o tenga una condotte lesiva dell'obbligo di fedeltà (cfr. Cass. 26 agosto 2003, n. 12489 e, recente, Cass. 4 luglio 2014, n. 15365). A quest'ambito va ricondotta la sentenza in commento. Ciò, in quanto la condotta tenuta dal lavoratore – assente, come detto, in forza di una lamentata patologia, rivelatasi all'esito delle indagini insussistente o comunque non di gravità tale da impedire lo svolgimento dell'attività lavorativa - rappresenta una violazione degli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro, che determina una lesione del vincolo fiduciario, tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno temporanea, del rapporto di lavoro. Quanto, poi, all'assenza di pregiudizio economico eccepita dal ricorrente a fondamento della mancata proporzionalità della sanzione comminata, la Corte - in linea con il suo orientamento maggioritario – ha ritenuto integrata la giusta causa anche senza danno, attesa l'idoneità della condotta tenuta dal lavoratore a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento della prestazione lavorativa, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti (cfr., ex multis, Cass. 7 aprile 2003, n. 5434). La Suprema Corte ha, quindi, concluso nel senso che “(…) può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppur compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per come si manifesta ad arrecare un pregiudizio anche non economico al datore di lavoro”. Con riferimento alla seconda delle questioni giuridiche affrontate, la Corte di Cassazione, volendo esplicitamente dare continuità a quanto già statuito nella sua precedente sentenza del 3 maggio 2001, n. 6236, ha ribadito come il datore di lavoro possa disporre accertamenti non sanitari (e perciò fuori dall'ambito di applicazione dell'art. 5 L. n. 300/1970) per contestare le risultanze mediche prodotte dal lavoratore o, più in generale, quelle derivanti dagli accertamenti sanitari. L'art. 5 L. n. 300/1970 dispone, infatti, il divieto di accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, se non a mezzo, rispettivamente, di enti pubblici o istituti specializzati di diritto pubblico e dei servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti. Nel caso di specie, il Supremo Collegio ha ritenuto ammissibile che il datore si possa avvalere di ogni circostanza di fatto atta a contrastare con quanto rilevato in sede di accertamento sanitario, per dimostrare l'insussistenza di una malattia o l'inidoneità della stessa ad incidere sulla capacità lavorativa del proprio dipendente. Sul punto si riscontrano, oltre alla citata sentenza (Cass. 3 maggio 2001, n. 6236, cit.), altri precedenti giurisprudenziali, che escludono dal divieto di cui all'art. 5 L. n. 300/1970 l'accertamento disposto dal datore di lavoro, ad esempio, sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia (cfr., ad esempio, Cass. 27 aprile 1992, n. 5006, Cass. 26 febbraio 1994, n. 1974). Per altro profilo, la Suprema Corte ha escluso l'eccepito contrasto di una tale condotta datoriale con il divieto di cui all'art. 8 L. n. 300/1970, palese essendo che – nella fattispecie – non si era trattato di effettuare indagini (…) su “fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore” e che, quindi, si era trattato di una condotta che esula dal campo di applicazione del citato articolo. In relazione, infine, alla possibilità di effettuare i suddetti controlli sulla condotta del lavoratore in malattia, tramite una agenzia investigativa, il ricorso a tale strumento pare ormai pacificamente ammesso; si rinvengono, in proposito, in tema di assenza per malattia precedenti che ammettono la possibilità per il datore di verificare che il lavoratore non ponga in essere condotte che possano compromettere la sua guarigione a danno dell'azienda (cfr., ad esempio, Cass. 21 aprile 2009, n. 9474); nello stesso senso, di recente, in tema di licenziamento per giusta causa Cass. 9 gennaio 2015, n. 144; lo stesso dicasi per i lavoratori assenti durante i permessi ex legge 104/1992 (cfr., ad esempio, Cass. 4 marzo 2014, n. 4984).
Osservazioni
La sentenza in commento conferma l'orientamento della Suprema Corte volto a rispondere alla concreta esigenza datoriale di poter fornire, in un eventuale giudizio, la prova dell'insussistenza o comunque dell'inidoneità delle patologie lamentate dai lavoratori a giustificare l'assenza per malattia. La possibilità di provare tali circostanze anche mediante un accertamento non sanitario che ponga in discussione le risultanze mediche (peraltro, sindacabili in quanto prive di efficacia probatoria privilegiata) trova il suo fondamento giuridico – come correttamente osservato da S. Bartolotta, nel commentare la sentenza della Suprema Corte più volte citata, Cass. 3 maggio 2001, n. 6236 - nell'art. 24 Cost., che sancisce il diritto di ciascun individuo alla difesa dei propri diritti. Nella fattispecie, trova tutela il diritto del datore di lavoro, il quale in caso di malattia del lavoratore è tenuto a retribuire il lavoratore, pur a fronte della mancata prestazione. È, cioè, il datore di lavoro a dover sopportare le conseguenze della sospensione, seppur temporanea, della corrispettività delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro e avrà, perciò, diritto a vedersi riconosciuto un potere più ampio di accertamento dell'insussistenza della causa che tale sospensione ha determinato, anche oltre gli accertamenti sanitari di cui all'art. 5 L. n. 300/1970. Detta possibilità era stata, in un primo momento, messa in dubbio da parte della giurisprudenza, ritenuto che “qualora la legittimità dell'assenza è contestata sotto il profilo dell'inesistenza della malattia denunciata o dell'idoneità di essa ad escludere la capacità lavorativa del dipendente, il relativo controllo deve avvenire necessariamente attraverso i sanitari degli istituti previdenziali ed anche se l'accertamento così condotto può essere sindacato e contraddetto da altri elementi di prova, anche di carattere non sanitario dei quali il datore di lavoro sia venuto in possesso, è da escludere tuttavia che l'accertamento negativo della malattia possa avvenire sulla sola base di indagini di carattere non sanitario, condotte direttamente o per mezzo di terzi dal datore di lavoro” (cfr. Cass. 26 febbraio 1982, n. 1241, in Giust. civ. Mass. 1982, fasc. 2). L'orientamento sopra riportato è stato poi superato, atteso che - qualora l'accertamento condotto dal datore di lavoro, come quello del caso in esame, riguardi i comportamenti del lavoratore - non possa essere ricondotto alle ipotesi di cui all'art. 5 L. n. 300/1970, non avendo carattere sanitario. Analogamente, la condotta datoriale esula dal campo di applicazione di cui all'art. 8 L. n. 300/1970, che vieta i controlli aventi ad oggetto “fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore”; nel caso in esame, infatti, il controllo era volto a verificare se vi fossero i presupposti per sospendere l'obbligo di prestare l'attività lavorativa da parte del dipendente. Quanto, poi, ai profili inerenti alla tutela della privacy, il Garante con provvedimento del 9 novembre 2006 (doc. web. n. 1366180) in tema di violazione dell'art. 5 e 8 L. n. 300/1970 ha dichiarato il non luogo a procedere e, riportandosi al principio elaborato da Cass. 3 maggio 2001, n. 6236, ripreso dalla sentenza in commento, ha rinviato per la legittimità del licenziamento alle competenti sedi. La posizione della Corte di Cassazione alla luce di quanto sopra appare condivisibile. Tanto più ove si consideri l'oggettiva difficoltà di contrastare risultanze mediche e accertamenti sanitari che derivino solo dalle dichiarazioni effettuate dal paziente, quando abbiano ad oggetto patologie non accertabili con esami medici o strumentali. La sentenza in commento, dunque, nel consentire al datore di lavoro di disporre di maggiori poteri istruttori, offre non solo uno strumento volto a salvaguardare il rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro, ma anche un possibile rimedio contro gli abusi che indirettamente finiscono per ricadere sulla collettività.
Guida all'approfondimento
S. Bartolotta, Malattie “diplomatiche” e poteri di controllo del datore di lavoro, in Riv. it. dir. lav., fasc. 2, 2002, pag. 395
G. Girardi, Accertamenti del datore di lavoro sul comportamento del dipendente durante la malattia, Lav. giur., fasc. 12, 2001, pag. 1156
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