Deve essere rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione la questione se i giornalisti dipendenti in possesso dei requisiti assicurativi e contributivi per la pensione di vecchiaia, abbiano o meno diritto a proseguire il lavoro sino al 70° anno di età in base all'art. 24, co. quarto del D.L. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011
Massima
"Deve essere rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione la questione se i giornalisti dipendenti in possesso dei requisiti assicurativi e contributivi per la pensione di vecchiaia, abbiano o meno diritto a proseguire il lavoro sino al 70° anno di età in base all'art. 24, co. quarto del D.L. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011"
Il caso
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato da un giornalista dipendente, licenziato dalla RAI a seguito del conseguimento dei requisiti assicurativi e contributivi per la maturazione della pensione di vecchiaia, il quale ha agito in giudizio al fine di ottenere il riconoscimento del diritto a veder accolta la propria richiesta di essere trattenuto in servizio sino al 70° anno di età, in applicazione dell'art. 24, co. quarto del D.L. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, con conseguente accertamento dell'illegittimità del licenziamento.
La questione
La questione da esaminare è se l' art.24, comma quarto, del D.L. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, possa trovare applicazione anche nei confronti degli iscritti all'I.N.P.G.I. (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani), quale istituto che gestisce, in regime di sostituzione, le forme di previdenza obbligatoria nei confronti dei giornalisti professionisti e praticanti.
Le soluzioni
Come evidenziato dalla Suprema Corte, il punto nodale della controversia è rappresentato dalla necessità di stabilire se, con riferimento al lavoro giornalistico (il cui trattamento pensionistico è a carico dell'I.N.P.G.I., quale forma sostitutiva dell'A.G.O.), sia o meno applicabile l'art.24, quarto comma, della L. n. 214 del 2011 (cosiddetta legge “Salva Italia”). La predetta disposizione, come è noto, stabilisce che “Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonche' della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall'articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”. La norma predetta ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti nella giurisprudenza di merito. Da un lato, l'orientamento (maggioritario) espresso dalla Corte d'Appello di Milano (nella sentenza oggetto del giudizio per Cassazione in cui è stata emessa l'ordinanza in disamina), favorevole al lavoratore, sulla base della considerazione che l'I.N.P.G.I., quale ente che attua una tutela pensionistica sostitutiva dell'A.G.O. gestita dall'INPS (come costantemente ribadito dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte - cfr. n. 1098 del 26 gennaio 2012) non può ritenersi escluso dalla previsione normativa di cui all'art.24, quarto comma, del D.L. n. 201 del 2011, convertito nella L. n. 214 del 2012. Ciò in quanto “tale norma, nello stabilire che per i lavoratori la cui pensione è liquidata a carico dell'A.G.O., delle forme esclusive e sostitutive e della gestione separata di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, la pensione di vecchiaia si può conseguire all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi, aggiunge che il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza (…), dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita” e che “nello stesso art. 24 cit., comma 4, è previsto che nei confronti dei lavoratori dipendenti l'efficacia delle disposizioni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, e successive modifiche, opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”. Dall'altro lato, l'orientamento (meno diffuso) seguito dalla Corte d'Appello di Roma nella sentenza 26 giugno - 4 luglio 2014, secondo cui il “trattenimento in servizio” fino a settant'anni è consentito solamente in favore dei dipendenti, assoggettati all'AGO o a forme previdenziali sostitutive, che beneficino di un regime pensionistico contributivo o misto, e non invece a quelli che fruiscano di pensione maturata in regime retributivo, come i giornalisti assicurati all'I.N.P.G.I., per i quali andrebbe esclusa la tutela reale in ipotesi di licenziamento per sopraggiunti limiti di età, prevista dal CCNL di categoria. Tale ultimo orientamento poggia sia su un dato di ordine testuale (la norma citata fa espresso riferimento alla pensione di vecchiaia), sia su una argomentazione di natura teleologica (scopo della norma è quello di assicurare il contenimento della spesa pensionistica, il rispetto del patto di stabilità, nonché la sostenibilità del sistema previdenziale). Secondo i giudici di Roma, pertanto, consentire ai lavoratori assoggettati al sistema retributivo - i quali, permanendo in servizio, potrebbero normalmente percepire, all'atto della fine del rapporto, una pensione più alta perché commisurata a una retribuzione presumibilmente superiore di quella di cui avrebbero goduto se collocati a riposo senza trattenimento - di fruire della possibilità di permanere in servizio, comporterebbe che questi ultimi riceverebbero una pensione più favorevole, a fronte di una contribuzione non (o non necessariamente) commisurata all'entità del trattamento. Al contrario, nel regime contributivo ed in quello misto, gli anni di trattenimento in servizio sarebbero coperti da una contribuzione in grado di sostenere (seppur nella valutazione globale di sistema) il miglioramento del trattamento pensionistico, cosicché la differenza di pensione a beneficio dell'assicurato non comporterebbe squilibri finanziari. Secondo la Suprema Corte, posto che l'I.N.P.G.I. gestisce una forma di assicurazione sostitutiva, ancorchè sia un ente privatizzato dal D.Lgs. n. 509 del 1994 (come espressamente ribadito dall'art.76 della L. n. 388 del 2000), nonché tenuto conto che, a differenza delle Casse dei liberi professionisti, l'autonomia finanziaria dell'Inpgi non è "integrale", perché in alcuni casi soccorrono, nei confronti dei suoi iscritti, la fiscalità generale (cfr. art.37 comma 1 bis L. 5 agosto 1981, n. 416, come introdotto dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 19, comma 18 ter, lett. a, punto n. 2, convertito in L. 28 gennaio 2009, n. 2) e la Cassa per l'integrazione dei guadagni degli operai dell'industria (L. 7 marzo 2001, n. 62), dovrebbe trarsi la inevitabile conclusione che anche nei confronti degli iscritti all'I.N.P.G.I. deve trovare applicazione la disposizione di cui al citato art. 24, comma 4. Tuttavia, prosegue la Cassazione, neppure possono ignorarsi le differenti argomentazioni poste a sostegno della conclusione di segno opposto. Si è sostenuto, in particolare, che il ventiquattresimo comma del citato art. 24, sull'autonomia gestionale degli enti e delle forme gestorie di cui ai D.Lgs. n.509 del 1994 e n.103 del 1996, nell'adottare misure tese ad assicurare l'equilibrio finanziario tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche, escluderebbe in radice l'applicabilità, agli enti privatizzati dotati di autonomia (come l'I.N.P.G.I.), della previsione del proseguimento dell'attività lavorativa fino a settanta anni, trattandosi di misura finalizzata al contenimento della spesa pubblica. Sotto altro profilo, si è evidenziato che la gestione dell'I.N.P.G.I. adotta ancora il sistema retributivo, per cui la generalizzazione del metodo contributivo non sarebbe di per sè applicabile ai giornalisti, in regime di calcolo retributivo. Ciò in quanto la disposizione di cui al citato art. 24, comma 4, posta a base del riconoscimento del prolungamento del servizio fino a settanta anni, postula, da un lato, che il calcolo della pensione avvenga sulla base di coefficienti di trasformazione del montante contributivo più favorevoli per chi esercita l'opzione per il prolungamento del servizio, e, dall'altro, che l'ammontare della pensione sia calcolato col sistema di computo contributivo (o misto), condizioni che non ricorrono nel sistema retributivo adottato dall'I.N.P.G.I.. Da tali argomentazioni conseguirebbe l'inconfigurabilità di un diritto potestativo di opzione in capo al lavoratore, postulando il citato art. 24, comma 4 un consenso del datore di lavoro all'attuazione del suddetto sistema di incentivazione, possibile esclusivamente attraverso l'adozione dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settanta anni, come indirettamente confermato nell'ultima parte della norma in esame, laddove è stabilito che nei confronti dei dipendenti l'efficacia delle disposizioni di cui all'art.18 della L. n. 300 del 1970 opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità.
Osservazioni
Nella ordinanza in commento, la controversa questione non è stata risolta, ma ne sono state investite (salvo diverso avviso del Primo Presidente della Corte di Cassazione) le Sezioni Unite, in ragione del fatto che “l'estrema delicatezza e la particolare importanza della questione risiedono proprio nel fatto che qualsiasi soluzione venga adottata si finisce inevitabilmente per incidere sull'assetto degli equilibri del sistema pensionistico di una determinata categoria con ripercussioni a catena sul sistema contributivo, ipotizzato dalla normativa invocata, o su quello retribuivo, applicato nella fattispecie fino al momento del licenziamento”. In effetti, come evidenziato dalla Suprema Corte, se è vero che per i lavoratori assoggettati a sistema retributivo il trattenimento in servizio sino all'età di settanta anni potrebbe far ipotizzare la erogazione in loro favore di un trattamento pensionistico più favorevole, a fronte di una contribuzione non necessariamente commisurata all'entità della pensione, è altrettanto vero che l'adozione del sistema retributivo non costituisce ex se un ostacolo alla finalità perseguita dal legislatore di incentivazione del proseguimento dell'attività lavorativa fino al limite massimo dei settanta anni, posto che l'art. 24, comma 4, si limita testualmente solo a prevedere detta incentivazione e la sua operatività attraverso un meccanismo incentrato sull'utilizzo di coefficienti di trasformazione più elevati, in quanto calcolati fino all'età di settant'anni. Ragion per cui, tenuto conto della complessità e della oggettiva controvertibilità della questione, nonché delle evidenti ricadute sull'equilibrio del sistema pensionistico delle casse previdenziali a gestione separata, appare prudente e ben ponderata, e perciò pienamente condivisibile, la scelta di sottoporre la stessa all'esame del Primo Presidente della Corte di Cassazione, perché ne valuti l'opportunità di assegnarla alla Sezioni Unite.
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