Diritto di critica e denuncia penale

Stefano Costantini
10 Marzo 2017

Il diritto di critica deve rispettare i principi della continenza sostanziale e della continenza formale, intesa quest'ultima anche quale correttezza e civiltà del linguaggio utilizzato, temperata tuttavia dalla necessità di esprimere liberamente le proprie opinioni personali, anche con espressioni astrattamente offensive per il destinatario.
Massima

Il diritto di critica deve rispettare i principi della continenza sostanziale e della continenza formale, intesa quest'ultima anche quale correttezza e civiltà del linguaggio utilizzato, temperata tuttavia dalla necessità di esprimere liberamente le proprie opinioni personali, anche con espressioni astrattamente offensive per il destinatario.

Il caso

Una lavoratrice impugnava il licenziamento disciplinare conseguente alla presentazione di un esposto alla magistratura inquirente, ove, con toni anche aspri, rappresentava l'anomala situazione dell'impresa allorché, pur a fronte di una continua e rimarchevole crescita economica, la stessa era ricorsa massicciamente agli ammortizzatori sociali, realizzando, a dire dell'esponente, una truffa ai danni dello Stato.

Il datore di lavoro aveva ritenuto tale condotta lesiva degli obblighi di diligenza e di fedeltà, oltre che dell'immagine dell'impresa, considerata anche la successivamente accertata infondatezza delle violazioni denunciate, con conseguente irrimediabile lesione del rapporto fiduciario.

Il giudice d'Appello, riformando la decisione di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento, ritenendo che la condotta della lavoratrice, che aveva riportato nel proprio esposto tematiche ed argomenti già emersi nel pubblico dibattito, fosse, anche nelle forme e nei toni, coerente con la situazione di tensione individuale e collettiva determinata dalle, pur legittime, scelte aziendali sull'utilizzo della Cassa Integrazione Guadagni e della mobilità.

Seguiva il ricorso per Cassazione, ove si confermava la decisione impugnata, ritenendo insussistenti i presupposti giustificativi del licenziamento.

Le questioni

La decisione in commento, dopo aver precisato i contenuti dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., delinea, in conformità ad un orientamento consolidato, i confini del diritto di critica del lavoratore, il cui esercizio, espressione del principio di libertà di manifestazione del pensiero, deve sempre contemperarsi con i diritti del destinatario all'onorabilità, alla salvaguardia dell'immagine, ma anche alla libertà delle scelte ed iniziative imprenditoriali, diritti tutti costituzionalmente tutelati (artt. 2 e 41 Cost.)

Le soluzioni giuridiche | Osservazioni

L'art. 2105 c.c., nel sottoporre il lavoratore subordinato al cosiddetto “obbligo di fedeltà”, stabilisce, da un lato, il divieto di svolgere attività in concorrenza con quella del datore di lavoro e, dall'altro, il divieto di divulgare o di utilizzare pregiudizievolmente notizie attinenti all'organizzazione ed ai metodi di produzione dell'impresa.

La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia ricondotto al medesimo ambito anche altre condotte, meno specifiche, mediante il richiamo ai principi generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..

Si attribuisce così all'obbligo di fedeltà un contenuto più ampio di quello delineato dall'art. 2105 c.c., inibente, in generale, tutte quelle condotte extralavorative che possano danneggiare, anche solo potenzialmente, il datore di lavoro (Cfr. Cass. sez. lav., 18 giugno 2009, n. 14176; Cass. sez. lav., 1 febbraio 2008, n. 2474; Cass. sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, in Not. giur. lav., 2004, 180).

In buona sostanza, dal collegamento dell'obbligo di fedeltà con i principi generali di correttezza e buona fede, deriva che il lavoratore deve astenersi da qualsiasi condotta, ulteriore rispetto a quelle codificate nell'art. 2105 c.c., che, per sua natura e per le sue possibili conseguenze, “risulti in contrasto con i doveri connessi con l'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto” (Cass. sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957; così anche la sentenza in commento, con richiami, nel testo, di altra giurisprudenza conforme)

Su uno stretto crinale di possibile illiceità (o, a seconda del punto di vista, di liceità) si collocano le manifestazioni, da parte del lavoratore, di opinioni e critiche relative alla persona o alla figura del datore di lavoro o, ancora, all'attività, alla gestione, all'organizzazione dell'impresa.

Il cosiddetto “diritto di critica” trova un solido fondamento costituzionale nell'art. 21 Cost., in quanto espressione della libertà di manifestazione del pensiero, nonché, più specificamente, nell'art. 1, St. Lav., ;il quale garantisce ai lavoratori, nei luoghi di lavoro, il diritto “di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.

L'esercizio di tale diritto non può tuttavia essere incondizionato (così come si conviene, in una società civile, per tutti i diritti di libertà), incontrando necessariamente il limite del rispetto del diritto altrui, laddove parimenti tutelato.

Ecco, quindi, che la libertà di opinione del lavoratore non può eccedere il segno della protezione offerta ai diritti inviolabili della persona, sanciti dall'art. 2 Cost., tra cui quello alla reputazione, al decoro e all'onore, così come anche alla libertà di iniziativa economica, di cui all'art. 41 Cost.

In tale ottica, come bene evidenzia anche la sentenza in commento, si rende necessario un bilanciamento degli interessi coinvolti, per evitare, da un lato, limitazioni alla libera formazione e manifestazione del pensiero, ma, contemporaneamente, improprie lesioni dei diritti della personalità.

Detto bilanciamento si ottiene, secondo l'opinione ormai consolidata della giurisprudenza (per le “origini” dell'attuale approdo interpretativo, cfr. Cass. sez. lav., 18 ottobre 1984, n. 5259, in F. it., I, 1984, 2711; Cass. sez. lav., 25 febbraio 1986, n. 1173, in F. it., I, 1986, 1877, con nota di O. Mazzotta), scrutinando l'esercizio del diritto di critica alla luce di due categorie di limiti: uno esterno o finalistico, utile ad evidenziare la pari dignità (e tutela) dei diritti in campo, cosicché possa ritenersi legittima la critica solo se finalizzata a soddisfare un interesse equiparabile a quello leso; uno interno, marcato sul rispetto dei principi – per così dire, espositivi – di continenza ;sostanziale ;e continenza formale.

Il primo attiene ad una valutazione dei fatti esposti dal lavoratore, per i quali si richiede una corrispondenza alla verità oggettiva o, secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario, ad una verità “soggettiva”, riferita cioè a fatti che il denunciante ritiene, in buona fede, veri ;(cosiddetta verità putativa): “l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore, che non si contenga entro i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traduca in una condotta lesiva del decoro dell'impresa, costituisce violazione del dovere di cuì all'art. 2105 c.c. ed è comportamento idoneo a ledere definitivamente il rapporto di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro” (Cass. sez. lav., 29 novembre 2016, n. 24260; per l'orientamento meno rigido: Cass. sez. lav., 14 maggio 2012, n. 7471, in Riv. it. dir. lav., 2013, II, 85).

Il secondo impone che toni ed espressioni utilizzati, seppur aspri, siano improntati a correttezza e misura del linguaggio, senza accenti denigratori e senza l'uso di figure e strumenti linguistici, anche indirettamente finalizzati a ledere l'altrui decoro, di toni sproporzionalmente enfatizzati e scandalistici, di allusive suggestioni o vere e proprie insinuazioni.

Tutto quanto sopra osservato è ben sintetizzato nella massima seguente: Il rango costituzionale del diritto di critica del dipendente nei confronti del datore di lavoro, in quanto espressione della libertà di manifestazione del proprio pensiero, non legittima, infatti, un esercizio privo di alcun limite, occorrendo che sia rispettata la verità dei fatti e siano posti in essere modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro, in considerazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione che gravano sul dipendente” (cfr. Cass. sez. lav., 10 dicembre 2008 n. 29008; Cass. sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220).

Cosicché i limiti descritti, ove anche singolarmente superati, determinano la violazione dell'obbligo di fedeltà, nell'ampia accezione più sopra ricordata, cui possono riconnettersi conseguenze disciplinari, anche le più gravi, laddove la condotta extralavorativa sia idonea a ledere irreparabilmente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro.

Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, la Corte fa stretta applicazione dei principi di cui sopra, giungendo alla conclusione che la condotta della lavoratrice sia rimasta all'interno dei confini del legittimo esercizio del diritto di critica.

Particolarità, se vogliamo, del caso scrutinato, è data dallo strumento di esternazione dell'opinione critica del lavoratore, contenuta appunto in un esposto alla magistratura chiamata a verificare la sussistenza di reati, qualificati dallo stesso denunciante quali truffa ai danni dello Stato.

Proprio l'espresso addebito al datore di lavoro di condotte truffaldine veniva ritenuto da questi lesivo della sua onorabilità e come tale esorbitante i limiti al diritto di critica.

La Corte, tuttavia, non valorizza in modo particolare il contesto “giudiziario” ove si era realizzata la condotta della lavoratrice, se non per evidenziare, sotto il profilo della continenza formale, che l'uso di termini quali illecito o truffa era compatibile con una “richiesta di intervento di tipo tecnico alle autorità competenti”, integrando, in sostanza, una qualificazione giuridica di parte dei fatti esposti.

Ciò, in conformità ad un solido orientamento interpretativo, secondo il quale “in tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, sia necessario che il prestatore (anche nel caso in cui il suo comportamento si traduca in una denuncia in sede penale, la cui legittimazione si fonda sull'art. 24, co. 1, Cost., comma 1, e art. 21, co. 1, Cost.) si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l'impresa” (Cass. sez. lav., 26 ottobre 2016, n. 21649).

Tratta, invece, la questione con diverso accento una recentissima decisione della Suprema Corte (Cass. sez. lav., 16 febbraio 2017, n. 4125) che decisamente esclude che la denuncia di fatti (in ipotesi) penalmente rilevanti possa porsi a giustificazione di un licenziamento, a meno che non se ne rilevi una connotazione calunniosa ovvero che vi sia la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità dei fatti stessi e la conseguente intenzione di accusare infondatamente il datore di lavoro (Cfr. Cass. sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501; Cass. sez. lav., 8 luglio 2015, n. 14249).

Nel proprio argomentare, il Giudice di legittimità mette in evidenza la “specialità” della situazione giuridica propria del denunciante, la quale, a differenza delle ipotesi in cui è in discussione il diritto di critica, non soggiacerebbe neppure ai limiti della continenza sostanziale e formale, posto che “ogni denuncia si sostanzia nell'attribuzione a taluno di un reato, per cui non sarebbe logicamente e giuridicamente possibile esercitare la relativa facoltà senza incolpare il denunciato di una condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della reputazione dell'incolpato” (Cfr. Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2003, n. 15646).

A prevalere, in questo caso, è l'interesse pubblico superiore alla repressione dei fatti illeciti, per la cui realizzazione si richiede anche la collaborazione del cittadino, collaborazione cui lo Stato di diritto attribuisce particolare valore civico e sociale.

Deve così escludersi che l'obbligo di fedeltà possa estendersi al punto da imporre al lavoratore di astenersi dal segnalare, a chi di competenza, fatti illeciti o altre irregolarità o inadempienze che egli ritenga essere stati compiuti dal datore di lavoro, altrimenti “si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti ma impliciti – riconoscimento di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento” (Cass. sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501).

Unico limite, nell'ipotesi trattata, resta quello della pura delazione, dell'intento meramente calunnioso, dei quali non è tuttavia prova sufficiente il fatto che la denuncia si riveli poi infondata o che l'eventuale procedimento giudiziario o amministrativo di accertamento venga definito con una archiviazione o con una assoluzione.

Diversa valutazione, invece, vi sarebbe ove il lavoratore, a latere della denuncia, avesse assunto iniziative volte a dare pubblicità di quanto portato a conoscenza delle autorità competenti, posto che, in quel caso, non potrebbe ravvisarsi alcun interesse pubblico o personale di grado superiore a quello all'onorabilità del datore di lavoro, ma anche alla integrità reputazionale dell'organizzazione dell'impresa (Cfr. Cass. sez. lav., 11 maggio 2016, n. 9635).

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