La “difficile convivenza" tra giudice del lavoro e giudice del fallimento in caso di impugnazione del licenziamento
12 Maggio 2017
Massima
Ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all'interno dell'impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa, sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, estranei all'esigenza della par condicio creditorum. Il caso
Un lavoratore ricorre in Cassazione in quanto la Corte d'Appello di Brescia, nonostante avesse riformato la sentenza di I grado e dichiarato il licenziamento illegittimo, aveva omesso di disporre la reintegrazione e il conseguente risarcimento del danno.
I Giudici di II grado avevano rilevato la propria incompetenza funzionale ex art. 24, L. Fall., perchè la società datrice di lavoro, nelle more del procedimento, era fallita e aveva interrotto la propria attività.
Il ricorrente evidenziava che la mancata statuizione sulla reintegra gli aveva impedito di essere trasferito ex art. 2112 c.c. alle dipendenze di una ditta che, successivamente al proprio licenziamento, aveva rilevato il ramo d'azienda presso il quale era addetto. La questione
L'impugnazione del licenziamento è esclusa dalla c.d. “vis attractiva” del giudice fallimentare in forza dell'art. 24, L. Fall. e, pertanto, permane la competenza del giudice del lavoro? Soluzione giuridica
La Suprema Corte accoglie la domanda del lavoratore, affermando la competenza del giudice del lavoro.
Evidenzia che la statuizione sulla reintegrazione è una pronuncia dal contenuto non esclusivamente patrimoniale, ma volta anche a tutela d'interessi extrapatrimoniali, quale la conservazione della propria posizione all'interno dell'organico dell'azienda al fine di poter riprendere la propria attività lavorativa nel caso di ammissione all'esercizio provvisorio o nel caso di trasferimento d'azienda (cfr. Cass. civ., sez. trib., 6 marzo 2013 n. 5512, Cass. civ., S.U., 10 gennaio 2006, n. 141).
La sentenza in commento riprende l'approdo giurisprudenziale secondo il quale spetta al giudice del lavoro, anche in presenza di un fallimento del datore di lavoro, di decidere sulle questioni attinenti al rapporto di lavoro, quali accertamento della costituzione e qualificazione, corretto inquadramento professionale (Cass. sez. lav., 20 agosto 2009, n. 18557) o demansionamento e, in ultimo, legittimità del licenziamento. Subentra quella del giudice del fallimento qualora la domanda riguardi crediti derivanti dal rapporto di lavoro. Osservazioni
La sola lettura della sentenza in commento non permette all'osservatore giuridico di avvedersi del difficile coordinamento tra diritto del lavoro e diritto fallimentare.
Innanzitutto la sentenza potrebbe lasciare intendere che ogni qualvolta si decida sulla legittimità o meno del licenziamento la competenza è esclusivamente del giudice del lavoro. Invero tale soluzione non è quella al momento seguita in giurisprudenza.
La competenza permane in capo al Giudice del lavoro solamente nel caso in cui l'impugnazione del licenziamento rientri nell'ambito della c.d. tutela reale. La domanda del lavoratore mira alla tutela di diritti extra patrimoniali, in primis il diritto soggettivo al lavoro, garantito dagli artt. 1, 4 e 32 Cost. (Cass. S.U., 10 gennaio 2006 n. 141). Nell'ipotesi di tutela obbligatoria, invece, la competenza è del giudice fallimentare poiché non è possibile un risarcimento in forma specifica del diritto al lavoro leso, ma solamente in forma generica.
Non può sfuggire come le recenti riforme (Legge Fornero e Jobs act) abbiano ridotto l'ambito della tutela reale. Ne conseguirebbe, quindi, un restringimento della sfera di competenza del giudice del lavoro a favore di quello fallimentare.
Cionondimeno resta da domandarsi quale sia il giudice competente nel caso di “c.d. domande plurime”, ovvero quando il lavoratore in via principale chiede la tutela di natura reale e, in subordine, quella obbligatoria. È presumibile che un lavoratore - assunto in un'impresa con più di 15 dipendenti e in data posteriore all'entrata in vigore del Jobs Act (7 marzo 2015) - domandi, anche nell'ipotesi di licenziamento prettamente economico, in via principale la richiesta di accertamento della nullità del licenziamento (ad esempio perché discriminatorio) al solo fine di incardinare la questione dinnanzi al giudice del lavoro. Questa supposizione si basa sul convincimento, a sommesso parere dello scrivente non errato, che il giudice del lavoro è più specializzato ad affrontare tali tematiche e che il rito del lavoro è più celere di una procedura fallimentare.
La soluzione a questo “utilizzo improprio” della tutela reale per fini processuali potrebbe trovarsi nell'applicazione degli artt. 88 e 96 c.p.c. Cionondimeno l'interprete deve domandarsi se, accertata l'infondatezza della domanda di tutela reale, il giudice del lavoro possa pronunciarsi sulla domanda subordinata con la quale si chiede l'applicazione della tutela obbligatoria.
Per risolvere questo quesito può essere utile richiamarsi al principio stabilito dalla Suprema Corte con la sentenza 13 giugno 2016, n. 12094. In contrapposizione ad una precedente pronuncia (Cass. sez. lav., 10 agosto 2015, n. 16662), gli Ermellini hanno statuito che in un procedimento instaurato in base al c.d. rito Fornero, il giudice possa pronunciarsi anche sulla domanda subordinata di tutela obbligatoria una volta rigettata quella principale di tutela reale. Le ragioni di tale statuizione sono di economia processuale: evitare la parcellizzazione dei procedimenti per il medesimo fatto estintivo.
Questo principio, mutatis mutandis, può essere anche applicato a casi simili a quello analizzato nella sentenza in commento. In questo caso il ricorrente aveva circoscritto il proprio petitum alla mancata statuizione sulla reintegrazione consequenziale alla pronuncia di nullità del licenziamento, ma la Corte d'Appello aveva altresì omesso di quantificare il risarcimento del danno in base all'art. 18, comma 4, L. n. 300/1970.
La ripartizione di competenza tra giudice del lavoro e giudice del fallimento in merito alla quantificazione del risarcimento del danno a seguito di reintegrazione e in presenza del fallimento del datore di lavoro costituisce un altro punto dibattuto in giurisprudenza.
L'orientamento più risalente riteneva la competenza del tribunale fallimentare per la quantificazione del risarcimento derivante dal licenziamento dichiarato illegittimo in forza dell'art. 18, L. n. 300/1970 (ora in base anche agli artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 23/2015) al fine di garantire la par condicio creditorum (Cass. sez., lav., 4 aprile 1998, n. 3522; Cass. sez. lav., 5 dicembre 2000, n. 15447): il giudice del lavoro doveva limitarsi ad una condanna generica demandando l'effettiva determinazione del quantum al giudice del fallimento.
Due recenti sentenze si sono discostate da questo orientamento (Cass. civ., sez. VI, 29 settembre 2016, n. 3542, Cass. sez. lav., 25 febbraio 2009, n. 4547) ritenendo che il giudice del lavoro, una volta dichiarata l'illegittimità del licenziamento e ordinato la reintegrazione, possa anche determinare il risarcimento del danno. Le motivazioni delle due pronunce sono del tutto speculari. La domanda risarcitoria costituisce una conseguenza automatica della reintegrazione prevista dal Legislatore il quale ha prestabilito anche i parametri di quantificazione.
Proprio come sulla ripartizione di competenza in presenza di “c.d domande plurime”, ragioni di economia processuale e di ragionevole durata del processo ha indotto la Cassazione a ritenere che il giudice di lavoro debba quantificare il danno conseguente alla declaratoria di licenziamento illegittimo nell'ambito della tutela reale.
Sia, inoltre, concesso evidenziare che, se già con la riforma Fornero la discrezionalità del giudice nello stabilire il quantum risultava fortemente limitata, con il Jobs Act il giudice del lavoro deve solamente effettuare un'operazione matematica, basata sull'anzianità di servizio e senza avere alcun margine di valutazione.
La predeterminazione, quindi, del credito secondo rigidi parametri stabiliti dal Legislatore non comporta che la sua quantificazione debba essere assoggettata alla procedura fallimentare al fine di garantire gli altri creditori del fallimento.
In ultimo, un'ulteriore spinta centrifuga dalla competenza del giudice fallimentare si rinviene dalla “nuova” formulazione dell'art. 24, L. Fall. Dal testo in vigore è stato espunto qualsiasi riferimento, presente nella versione previgente, alle controversie di lavoro.
La portata innovativa del novellato art. 24 nella ripartizione di competenza tra giudice del lavoro e giudice del fallimento può essere limitata alla sola conferma del filone giurisprudenziale che ritiene che le sole domande del rapporto di lavoro aventi natura non esclusivamente patrimoniale permangono in capo al primo. Tuttavia, una lettura volta a dare maggiore rilevanza potrebbe estendere la competenza del giudice del lavoro a tutte le controversie, indipendentemente dall'applicazione della tutela reale o obbligatoria, nelle quali la causa petendi derivi direttamente o indirettamente da un rapporto di lavoro. |