Abolizione delle collaborazioni a progetto e dell'associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro

09 Luglio 2015

Con altri due decreti attuativi della delega sulla Riforma del lavoro, i decreti 81 e 82 del 2015, il legislatore ha introdotto delle modifiche al diritto del lavoro ed in particolare, con il decreto 81 entrato in vigore il 25 giugno 2015, ha abrogato due istituti: la collaborazione coordinata e continuativa a progetto e l'associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro. L'Autore sviluppa sinteticamente alcune considerazioni sugli effetti di tali interventi legislativi sulle tipologie e modalità di rapporti che sarà consentito instaurare in base alle nuove discipline.
La storia

Sono stati compiuti con altri due decreti attuativi ulteriori passi per l'introduzione nel nostro ordinamento in quello che viene usualmente definito il jobs act ed in particolare con il decreto 81/2015 vi è stato un significativo intervento sulle tipologie contrattuali. La modifica normativa prende spunto dalla tesi, sostenuta da più parti, secondo cui nella legislazione italiana del lavoro vi sarebbero state troppe forme contrattuali. Sono state così abolite la collaborazione coordinata e continuativa a progetto e l'associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro.

E se si può ritenere che la co.co.pro. possa essere stata un po' abusata come forma di acquisizione di prestazioni di lavoro assimilabili al lavoro subordinato ciò non toglie che l'istituto aveva, nella sua funzione originaria una specifica finalità anche perché tale forma di collaborazione scontava una durata predeterminata coincidente con quella del relativo progetto. Infatti lo spirito che permeava la co.co.pro. era quello di consentire l'instaurazione di rapporti non subordinati ma con uno specifico contenuto ed una durata ben determinata e limitata nel tempo. In sostanza il legislatore del 2003 aveva preso atto del fatto che esistesse nel nostro ordinamento la collaborazione coordinata e continuativa, che rappresentava una forma di lavoro autonomo, ma proprio perché tra i suoi requisiti vi erano quelli della continuità e del coordinamento con le esigenze del committente, si era pensato di mitigare questa forma un po' troppo “liberistica” di lavoro con l'obbligo di legare il rapporto ad uno specifico progetto e quindi, implicitamente anche ad una durata prestabilita coincidente con quella del relativo progetto.

Ma già nel 2012, con la riforma Fornero, si erano introdotti dei requisiti più stringenti per la legittimità della collaborazione coordinata a progetto ad esempio introducendo un concetto più restrittivo di progetto.

L'ultimo intervento legislativo

Con l'ultimo intervento legislativo la collaborazione a progetto è stata abolita consentendo la permanenza solo per i contratti già in essere alla data del 25 giugno 2015.

In prospettiva, quindi non si potrà più acquisire la prestazione di un collaboratore legandola ad uno specifico progetto o programma. Ma ciò non vuol dire, ad avviso di chi scrive, che non sussistano ancora le collaborazioni coordinate e continuative. Però, la prestazione fornita in termini di collaborazione dovrà avere tutti i requisiti del lavoro autonomo e quindi, quanto meno il coordinamento, non potrà che essere più attenuato di quello che si riteneva potesse configurarsi in un contratto a progetto.

Peraltro il vantaggio della collaborazione a progetto era anche quello secondo cui il collaboratore, pur mantenendo il requisito di lavoratore autonomo, era assimilato sotto vari aspetti al lavoratore subordinato e, specificamente, non aveva adempimenti fiscali e previdenziali da eseguire in proprio come gli altri lavoratori autonomi, e questo era uno degli aspetti preferiti dai lavoratori soprattutto da quelli che non avevano intenzione o propensione a diventare dei veri “professionisti”.

Ora, con l'abolizione della collaborazione a progetto, i lavoratori che non vogliano o non possono diventare subordinati non avranno altra strada che quella di diventare lavoratori autonomi a tutti gli effetti, come si dice usualmente "partite Iva", perché non avranno altre alternative per fornire ai committenti una collaborazione senza i requisiti della subordinazione.

Infatti nel nostro ordinamento, al di là del lavoro accessorio e cioè quello che viene svolto in maniera del tutto saltuaria e con un preciso limite di reddito di € 7000 l'anno, ogni tipo di collaborazione che viene prestata deve ricadere in uno specifico regime e, nel caso in cui venga svolta in maniera autonoma, quando supera una certa soglia di reddito, diventa per il lavoratore interessato la sua professione abituale e quindi il lavoratore deve dotarsi di partita Iva e sottoporsi al relativo regime fiscale mentre sotto il profilo previdenziale dovrà sottoporsi a regime della gestione separata dell'Inps.

Naturalmente il dotarsi di una partita Iva e qualificarsi quindi come “professionista” nell'attività espletata dal lavoratore non sarà sufficiente ad evitare il rischio che il collaboratore stesso o gli istituti previdenziali non ritengano la prestazione genuinamente autonoma e quindi la riqualifichino come lavoro subordinato con intuibili conseguenze di carattere previdenziale e amministrativo.

Peraltro buona parte del contenzioso che affolla i nostri tribunali nasce proprio da vertenze relative a lavoratori autonomi che, in corso d'opera, ma più spesso alla cessazione della collaborazione rivendicano la riqualificazione del rapporto come subordinato per ottenere i benefici di quest'ultima forma di lavoro soprattutto in termini economici e, in alcuni casi, previdenziali.

E se da un lato l'abolizione del contratto a progetto ha segnato una differenziazione più certa tra lavoro autonomo e lavoro subordinato dall'altro lato deve permanere il principio secondo cui il lavoratore, ovvero entrambe le parti del rapporto, devono avere la facoltà di scegliere il tipo di collaborazione che intendono instaurare nulla escludendo che tale tipo di collaborazione possa essere anche di carattere autonomo.

Ciò comporterà però, soprattutto per parte datoriale, una maggiore attenzione alle modalità con cui si concretizzerà la collaborazione dovendosi escludere la possibilità, per il committente, di poter esigere modalità di esecuzione del rapporto che sottopongano il collaboratore a regole stringenti assimilabili a quelle del rapporto di lavoro subordinato quali obblighi di presenza, di osservanza di orari di lavoro, di giustificazione delle assenze ecc.

In concreto le aziende non potranno più acquisire prestazioni continuative e, in un certo senso, irreggimentate da parte di collaboratori autonomi ma dovranno avvalersi di veri professionisti con tutte le relative caratteristiche e quindi anche con l'iscrizione Iva. E naturalmente non potranno esigere che tali collaboratori si sottopongano a forme di prestazione vincolate in termini di orario, presenza ecc. ma dovranno invece richiedere al collaboratore, più che una presenza continuativa, un risultato o un servizio completo. Diversamente la collaborazione potrà essere facilmente ricondotta nell'ambito del lavoro subordinato che è comunque, e lo ha ribadito il decreto llegislativo 81/2015, la forma normale di rapporto di lavoro.

Anche l'associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro, recentemente abolita, era considerata una forma surretizia per configurare come autonoma una prestazione che in concreto aveva tutte le caratteristiche del lavoro subordinato

Però, per l'associazione in partecipazione, era stata prevista dalla riforma Fornero l'obbligatorietà della sottoposizione a contribuzione dei compensi erogati all'associato in partecipazione. Quindi l'unico aspetto critico di tale forma di collaborazione era rappresentato dal fatto che l'associato, pur lavorando, non aveva la certezza di ottenere un corrispettivo adeguato alla sua prestazione. Forse sarebbe bastato fissare dei requisiti minimi, anche di carattere economico,da riconoscere all'associato per mantenere in vita l'associazione in partecipazione con apporto di lavoro, che aveva il requisito, se configurata e svolta in modo corretto, di coinvolgere l'associato nei risultati dell'impresa costituendo così una forma di partecipazione che poteva essere di stimolo e consentire risultati economici più vantaggiosi per il collaboratore. Aver abrogato l'associazione in partecipazione che era una forma, in un certo senso, volta a favorire l'autoimprenditorialità rappresenta una limitazione alla possibilità di creare o sviluppare nuove iniziative ove il datore di lavoro non potrà più coinvolgere e far partecipare altri soggetti se non associandoli al capitale (ma in questo caso il lavoratore dovrà averne le risorse) ovvero assumendoli come lavoratori subordinati azzerando così lo stimolo alla compartecipazione.

In conclusione

Non pare quindi del tutto condivisibile l'approccio assunto dal legislatore che ha tendenzialmente irreggimentato nel lavoro subordinato anche forme di collaborazione che ben potevano rimanere nell'alveo dell'autonomia, che non sempre viene imposta dal committente ma che rappresenta, soprattutto per le figure professionali più qualificate, la forma più coerente e adatta per chi non solo vuole mantenere la propria autonomia ma, soprattutto, vuole esprimere la propria professionalità e le sue competenze nel modo migliore non gradendo l'incanalamento delle sue prestazioni nei rigidi schemi del lavoro subordinato.

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