Ius resistentiae: la linea di demarcazione tra i doveri di diligenza e obbedienza contrattuale

09 Settembre 2016

L'impiegato che esegua prestazioni di lavoro, ben sapendo che le stesse sono orientate ad arrecare pregiudizio al proprio datore di lavoro, senza l'osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, può essere licenziato per giusta causa, stante il fatto che il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al prestatore di lavoro rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario.
Massima

L'impiegato che esegua prestazioni di lavoro, ben sapendo che le stesse sono orientate ad arrecare pregiudizio al proprio datore di lavoro, senza l'osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, può essere licenziato per giusta causa, stante il fatto che il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al prestatore di lavoro rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario.

Il caso

La società Poste Italiane S.p.A., già soccombente nei precedenti gradi di giudizio, ricorreva in Cassazione per far accertare la legittimità del licenziamento irrogato nei confronti di una lavoratrice con mansioni di operatore di sportello, imputabile della condotta (acclarata in quanto riconosciuta dall'interessata) di falsa autenticazione delle sottoscrizioni e falsa conferma dell'identificazione di clienti che richiedevano un prestito, nonché erogazione di bonifici relativi a prestiti nei confronti di persone diverse dai singoli clienti aventi diritto, senza ricevere la sottoscrizione per ricevuta del cliente. I Giudici di merito avevano censurato il provvedimento espulsivo, disponendo la reintegra e il risarcimento del danno quantificato in cinque mensilità, poiché i fatti addebitati, pur gravi e reiterati, sarebbero stati indotti del condizionamento ambientale in cui la prestazione lavorativa è stata resa e, più in particolare, ad un luogo di lavoro di ridotte dimensioni ed all'assoggettamento alle direttive del superiore gerarchico, anch'esso licenziato. Conseguentemente, secondo la Corte territoriale, le due posizioni dovevano essere differenziate, anche sotto un profilo sanzionatorio, e la condotta della lavoratrice, mera esecutrice materiale delle direttive impartite dal responsabile dell'ufficio, non risultava tanto pregiudizievole da legittimare il licenziamento per giusta causa.

Le questione

La questione che viene in esame è la seguente: il lavoratore soggiace a responsabilità disciplinare, ivi compreso il pericolo di licenziamento, qualora la condotta tenuta sia contraria ai doveri di diligenza e correttezza ma posta in essere in esecuzione di un ordine proveniente dal superiore gerarchico?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione ritenendo fondate le eccezioni proposte dalla società ricorrente, ha ritenuto che la condotta dell'impiegato che, pur eseguendo le direttive del responsabile dell'ufficio, abbia violato i propri doveri contrattuali e arrecato pregiudizio al proprio datore di lavoro, è passibile di licenziamento per giusta causa.

Nel caso di specie, la Suprema Corte rafforza la nozione e definisce i limiti di un tema oggettivamente complesso, ovvero quello che attiene alla determinazione dei doveri di correttezza e di buona fede relativi alla prestazione di lavoro subordinato. Se è vero che, in generale, il lavoratore subordinato non può sindacare il merito delle disposizioni impartite dall'imprenditore - in capo al quale si concentrano i poteri di indirizzo e le scelte di politica aziendale (cd. Potere direttivo) - è pur vero che lo stesso lavoratore non è dispensato dal dovere di valutare la legittimità della propria condotta e, quindi, deve essere considerato direttamente responsabile (con le relative conseguenze sul piano sanzionatorio) qualora abbia eseguito un ordine idoneo ad integrare una violazione di legge o dei doveri del proprio ufficio. In altre parole, se le disposizioni ricevute dal proprio superiore, evidentemente, non assolvono a strumento per l'esecuzione e la disciplina del lavoro, ma importano una violazione dei doveri di diligenza e correttezza, il lavoratore può legittimamente rifiutarsi di eseguirle attraverso una forma di autotutela, in caso contrario sarebbe anche lui stesso inadempiente in forza degli obblighi qualificanti la propria controprestazione.Tutto ciò costituisce una diretta applicazione dell'art. 2104 del c.c., che impone al lavoratore, nello svolgimento della propria attività, di usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione e dall'interesse dell'impresa (c.d. diligenza in senso tecnico) e, coerentemente, di osservare una condotta non contrastante con tali principi.

Il grado di diligenza, quindi, deve essere sempre determinato con riferimento al caso di specie, per cui fondamentale sarà l'affidamento richiesto dalla tipologia delle mansioni assegnate (Cass. 22 maggio 2000 n. 6664) in relazione alle capacità professionali ed esperienza acquisita (Cass. 26 maggio 2008 n. 13530). La violazione del dovere di diligenza integra una forma di inadempimento che, in relazione alla sua gravità, può determinare anche un licenziamento in tronco. Del resto, la nozione di “giusta causa” ex art. 2119 c.c., è una clausola generale che deve essere specificata in sede interpretativa attraverso la ponderazione degli elementi di fatto.

L'organizzazione dell'impresa e i fattori socio ambientali, allora, possono contribuire a delineare il quadro fattuale – ad esempio, in ordine alla natura e qualità del rapporti (Cass. 26 settembre 2000 n. 12708), all'elemento soggettivo (Cass. 14 maggio 1998 n. 4881), alle specifiche motivazioni che hanno indotto il lavoratore ad agire in un determinato modo (Cass. 4 dicembre 1995 n. 12484) – ma, in ogni caso, il lavoratore sarà responsabile tutte le volte in cui abbia liberamente e consapevolmente (come è ragionevole attendersi in relazione alla qualità delle mansioni assegnate) posto in essere una condotta contraria ai propri doveri e, perciò idonea a compromettere il rapporto fiduciario tra le parti.

Nell'ipotesi specifica in cui la condotta ascritta sia conseguenza di un ordine impartito da un superiore gerarchico, sarà onere del datore di lavoro dimostrare che il lavoratore avrebbe dovuto, in ossequio ai propri doveri contrattuali, riconoscerne l'illegittimità e rifiutare di eseguirlo, mentre il lavoratore dovrà provare che la propria volontà era stata coartata da elementi o fatti esteriori che hanno agito in maniera decisiva sulle sue determinazioni, ovvero, più in generale, la non imputabilità dell'inadempimento poiché non riconducibile alla violazione degli stessi doveri (Cass. 23 agosto 2006 n. 18375). Vale comunque la pena chiarire che l'aver agito per il cd. “timore reverenziale” (argomentando ex art. 1437 c.c.), e che si traduce nella preoccupazione di subire ripercussioni nell'ambito lavorativo in caso di inosservanza alle direttive impartite (eventualmente corroborato da elementi esteriori legati all'ambiente lavorativo e alle individualità dei soggetti), non è di per se idoneo ad escluderne la diretta responsabilità del lavoratore (come del resto, in materia contrattuale, non è causa di annullamento del contratto). Ovviamente l'onere del datore di lavoro sarà agevolato in tutti quei casi in cui il comportamento addebitato costituisce oggetto di un esplicito divieto da parte della legge ovvero del contratto collettivo, anche sotto forma di linee guida comportamentali (ad esempio il codice di comportamento di cui l'art. 54 del D.lgs. n. 165/2001 del T.U. sul pubblico impiego, che specifica e chiarisce la nozione degli obblighi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che delineano il corretto adempimento della prestazione lavorativa). L'entità della sanzione, comunque, dipenderà dal grado di violazione dell'elemento fiduciario.

Pertanto l'acritica obbedienza ad un ordine proveniente dal superiore che il lavoratore sa (o dovrebbe sapere in relazione alla qualità del rapporto) contrarie alla legge, importa la sua responsabilità diretta, ex art. 2104 c.c., per inadempimento degli obblighi di diligenza nascenti dal rapporto. In tal senso, non rileva la circostanza che il concorso di fattori ambientali potrebbero indurre il lavoratore al timore di possibili ripercussioni in ambiente lavorativo in caso di inosservanza, posto che l'ordinamento già contiene strumenti di tutela volti a sanzionare potenziali condotte indebite (es: tutela contro atti vessatori, cd. mobbing, ovvero alla nullità degli atti ritorsivi) e che la tendenza del nostro legislatore è quella radicare una “coscienza sociale” all'interno dei luoghi di lavoro, che invogli il singolo ad attivarsi per denunciare all'autorità ovvero anche al proprio datore di lavoro, eventuali illeciti di cui sia venuto a conoscenza in occasione dello svolgimento della propria prestazione, anche mediante esplicite previsioni nei modelli di gestione e organizzazione di cui la D.Lgs. n. 231/2001 (Whistleblowing).

Osservazioni

Sotto altro profilo, allargando i confini del ragionamento in chiave sistematica, l'ipotesi dell'esecuzione di un ordine illegittimo proveniente da un superiore gerarchico, sembrerebbe riprodurre nel settore giuslavoristico, la fattispecie, di cui all'art. 51 del c.p.

Tale norma, in particolare, stabilisce che quando un reato viene commesso per ordine dell'autorità, deve ritenersi responsabile non solo “il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine” ma anche colui che lo ha eseguito, ad eccezione dell'ipotesi in cui, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo”. Pertanto, solo nel caso di errore (scusabile) relativamente agli elementi costitutivi del fatto il sottoposto che ha eseguito un ordine illegittimo non dovrà essere punito.

Orbene, con riferimento a tale ipotesi, la Suprema Corte (Cass. sentenza del 29 ottobre 2013 n. 24334), chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità di un licenziamento irrogato nei confronti di un lavoratore che, pur obbedendo alle direttive del proprio superiore, era consapevole di porre in essere una condotta illecita integrante un fattispecie di reato (nella specie falso, abuso d'ufficio, peculato e truffa), ha stabilito che lo stesso lavoratore non è tenuto ad eseguire passivamente l'ordine ricevuto senza il dovere di valutarne la legittimità ed eventualmente, disattenderlo, in quanto, la condotta penalmente rilevante derivante dall'esecuzione del comando illegittimo integra un illecito disciplinare che può dar luogo a licenziamento per giusta causa.

Vale la pena di aggiungere che la circostanza per cui la condotta del lavoratore integri ipotesi di reato non assume importanza determinante per l'applicazione della sanzione disciplinare posto che, a tali fini, è necessario e sufficiente che la condotta sia valutata come contraria alle procedure aziendali e ai doveri di diligenza e obbedienza.

Nello stesso senso, allora, con la sentenza in commento, la Suprema Corte ritiene non rilevante che la dipendente sia stata mera esecutrice materiale degli ordini della responsabile dell'ufficio, per farne discendere il diritto ad un trattamento più favorevole. In tal modo, infatti, verrebbe eluso un reale giudizio di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione applicata che non può non fondarsi su un'attenta ponderazione della condotta tenuta e della sua idoneità e compromettere il rapporto fiduciario tra le parti per violazione del dovere di diligenza.

In conclusione, il cd. ius resistentiae riconosciuto al lavoratore a fronte di un ordine illegittimo, rappresenta proprio la linea di demarcazione tra i doveri di diligenza e obbedienza contrattuale, ed ha la funzione di tutelare il giusto rifiuto di eseguire la prestazione richiesta, senza che ciò configuri (naturalmente quando il rifiuto è giustificato) alcuna forma di insubordinazione o inadempimento contrattuale.

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