Contrattazione collettiva e retribuzioni nel lavoro pubblico: la "ragionevole" durata del blocco
09 Ottobre 2015
Massime
È costituzionalmente illegittimo, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, il regime di sospensione della contrattazione collettiva sui trattamenti economici dei pubblici dipendenti, risultante dalle disposizioni adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013 (art. 16, co. 1, lett. b), D.L. n. 98/2011), nonché della legge di stabilità 2014 e della legge di stabilità 2015, in riferimento all'art. 39, comma 1, Cost.
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013 (art. 9, co. 1, 2-bis, 17 primo periodo e 21 ultimo periodo, D.L. n. 78/2010), nonché della legge di stabilità 2014, concernenti la limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, del trattamento accessorio, degli effetti economici delle progressioni di carriera nonché la sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, in riferimento agli artt. 2, 3, comma 1, 36, comma 1, 39, comma 1, e 53, comma 1 e 2, Cost. I casi
Alcune organizzazioni sindacali del pubblico impiego, firmatarie dei contratti collettivi stipulati con l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) per il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri e del comparto ministeri e per il personale degli enti pubblici non economici, chiedevano di accertare il diritto a dar corso alle procedure contrattuali e negoziali, relative al triennio 2010-2012, per il personale di cui all'art. 2, comma 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e di condannare l'ARAN ad avviare le trattative per il rinnovo dei contratti, deducendo, a sostegno di tali domande, l'illegittimità costituzionale della normativa che “congela” i trattamenti economici percepiti dai dipendenti e “blocca” la contrattazione collettiva con possibilità di proroga anche per l'anno 2014. Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ord. depositata il 27 novembre 2013 ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle disposizioni adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013.
Alcuni dipendenti del Ministero della giustizia, in servizio presso il Tribunale di Ravenna, chiedevano, previo accertamento dell'illegittimità costituzionale del blocco stipendiale e contrattuale disposto nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, di vedere riconosciuto il diritto all'aumento e/o all'adeguamento del trattamento retributivo, fermo al 2010, e comunque il diritto al risarcimento del danno patito per effetto della violazione del diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato o perlomeno adeguata all'inflazione e/o al costo della vita. Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con ord. depositata il 1° marzo 2014 ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle disposizioni adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013. Le questioni
La Corte Costituzionale è stata chiamata a esaminare la legittimità delle norme che, nell'ambito delle misure di razionalizzazione e contenimento della spesa in materia di pubblico impiego, hanno imposto il blocco della contrattazione collettiva e delle retribuzioni per i pubblici dipendenti "privatizzati". La normativa impugnata concerne le previsioni dell'art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122), che hanno disposto il blocco negoziale e stipendiale per il triennio 2011-2013 e dell'art. 16, comma 1 del D.L. 6 luglio 2011, n. 98 (conv. in L. 15 luglio 2011, n. 111) che autorizza, previa emanazione di apposito D.P.R., la proroga di un anno del blocco: secondo i giudici rimettenti il divieto della contrattazione collettiva e il congelamento delle retribuzioni nel lavoro pubblico 'privatizzato', prolungatisi per il periodo 2010-2014 senza alcuna possibilità di recupero, presenterebbero numerosi profili di contrasto con la Carta costituzionale, in riferimento ai princípi di solidarietà ed eguaglianza (artt. 2, 3, comma 1), di tutela del lavoro (art. 35, comma 1), di proporzionalità della retribuzione al lavoro svolto (art. 36, comma 1), di libertà sindacale (art. 39, comma 1) e di imposizione tributaria (art. 53).
Le diverse questioni di legittimità costituzionale sulle quali la Corte si è pronunciata con la sentenza n. 178, possono essere distinte in due aspetti, concernenti rispettivamente il blocco delle retribuzioni e, più in generale, dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici da un lato, ed il blocco della contrattazione collettiva come fonte di disciplina di quei trattamenti dall'altro lato. Pur tenuti distinti, i due profili procedono su piani paralleli. Sulla questione centrale, relativa alla dedotta violazione dell'art. 36, comma 1, e dell'art. 39, comma 1, Cost., la sentenza si iscrive in una prospettiva di ragionevole bilanciamento del diritto alla retribuzione proporzionata al lavoro svolto e della libertà sindacale con l'obbligo, costituzionalmente sancito, del pareggio del bilancio (art. 81, ma anche artt. 97 e 119) ed, a monte, con l'interesse, di ordine pubblico economico, al contenimento della spesa pubblica, costituente la ragione ultima della normativa impugnata. Il passaggio chiave del ragionamento della Corte, enunciato da subito (punto 9), è infatti la ragionevole durata del blocco, su cui la pronuncia è prevalentemente motivata. Le soluzioni giuridiche
a) Con riferimento al blocco delle retribuzioni per i lavoratori pubblici contrattualizzati, la Corte ha dichiarato non fondate (ed in parte inammissibili, come nel caso delle modalità di calcolo dell'indennità di vacanza contrattuale) tutte le censure, escludendo l'illegittimità costituzionale della normativa che “congela” i trattamenti economici anche accessori dei dipendenti non solo per il triennio 2011-2013, ma anche per l'anno 2014. La decisione della Corte si colloca sulla scia della precedente giurisprudenza costituzionale, che si è in più occasioni pronunciata sulle misure di blocco previste dall'art. 9, del D.L. n. 78 del 2010 con riferimento ad altre categorie di pubblici dipendenti non contrattualizzati, confermando in via generale (con l'eccezione del blocco delle retribuzioni dei magistrati, dichiarato incostituzionale con sent. 8 ottobre 2012, n. 223) la legittimità di misure del genere (sul personale diplomatico sent. 4 dicembre 2013, n. 304; sui docenti universitari sent. 17 dicembre 2013, n. 310; sugli ufficiali della guardia di Finanza sent. 21 maggio 2014, n. 154).
Compiuta la scelta sul metodo di scrutinio, da condurre all'insegna dell'orizzonte temporale dei sacrifici imposti, la Corte ha anzitutto disatteso gli altri profili di incostituzionalità denunciati che avrebbero condotto ad una condanna indiscriminata dei provvedimenti impugnati: l'invocabilità dell'art. 53 Cost., sulla premessa che il meccanismo di “blocco” non si sostanzia nell'imposizione di un tributo, traducendosi in un mero risparmio di spesa; la violazione dell'art. 35, comma 1, Cost., che non assume una propria rilevanza in ragione della sua funzione ancillare rispetto alle censure fondate sugli artt. 36, comma 1, e 39, comma 1, Cost.; l'ingiustificata disparità di trattamento (tra il lavoro pubblico e il lavoro privato, nonché tra pubblici dipendenti, contrattualizzati e non, ovvero tra i diversi comparti del lavoro pubblico regolato dalla fonte contrattuale) non solo per l'eterogeneità delle situazioni poste a raffronto, ma anche perché il blocco ha riguardato, seppur con i necessari distinguo, pressoché tutti i lavoratori pubblici, in una dimensione solidaristica di ripartizione dei sacrifici. Quanto ai lavoratori privati, ancor più della specialità del rapporto (pur rimarcata), l'argomento più insistito è quello della crescita incontrollata delle retribuzioni pubbliche, che ha poi richiesto interventi drastici e più prolungati di contenimento della spesa.
Nell'ottica del bilanciamento, la Corte ha concluso che il sacrificio del diritto alla retribuzione commisurata al lavoro svolto non è, in concreto, né irragionevole né sproporzionato, in quanto funzionale all'obiettivo, costituzionalmente sancito, di rispettare l'equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.) e circoscritto ad un periodo contenuto. Tra gli argomenti addotti a sostegno della legittimità del blocco spicca proprio quello relativo alla ragionevolezza dell'estensione temporale della misura, di durata limitata ancorché estesa ad un triennio, di cui deve apprezzarsi la congruenza con le politiche ormai necessariamente pluriennali di programmazione di bilancio. Ne segue che il concetto di transitorietà deve essere inteso in senso relativo, senza, in particolare, meccaniche «analogie con situazioni risalenti in cui le manovre economiche si ponevano obiettivi temporalmente delimitati» (punto 12.1, con esplicito riferimento alla fissazione, come tetto temporale massimo dei provvedimenti restrittivi del costo del lavoro, della misura annuale, ritenuta legittima con la sent. 18 luglio 1997, n. 245).
Sul secondo blocco, il discorso riguarda le norme della legge di stabilità per il 2014, che nel sostituire la normativa di matrice regolamentare annunciata nelle previsioni impugnate (D.P.R. n. 122 del 2013), hanno disposto l'estensione delle misure restrittive per un anno ancora. La Corte, pur ribadendo, in linea di principio, che l'emergenza economica che fa da cornice all'ulteriore intervento legislativo di contenimento e di razionalizzazione della spesa per il settore del pubblico impiego «non può avvalorare un irragionevole protrarsi del “blocco” delle retribuzioni», ha privilegiato l'altra e più consueta strada interpretativa, della necessità di una valutazione "complessiva"per verificare la conformità della retribuzione ai requisiti di proporzionalità al lavoro svolto indicati dall'art. 36, comma 1, Cost. L'orizzonte temporale delimitato (le disposizioni censurate hanno cessato di operare a decorrere dal 1° gennaio 2015), e l'assenza di evidenze documentate sul punto, ha consentito alla Corte di respingere tutte le censure mosse alla normativa impugnata (soprattutto quelle avanzate dal Trib. Ravenna, circa il congelamento degli effetti economici delle progressioni di carriera legato al blocco legislativo del turn over), con conseguente esclusione di «eventuali pretese risarcitorie o indennitarie» dei lavoratori (punto 14.2).
b) Sull'altro piano, quello delle dinamiche contrattuali nel lavoro pubblico, la Corte ha invece posto in particolare rilievo la lesione della libertà sindacale ex art. 39, comma 1, Cost. (punto 15), proprio in ragione dell'estensione temporale assunta dal 'blocco' della contrattazione collettiva, collocato in un orizzonte sistematico più vasto che deve tener conto oltre che delle disposizioni specificamente impugnate dai giudici rimettenti, anche della proroga disposta dalla legge di stabilità 2014, fino al rinvio operato dalla legge di stabilità per il 2015, che ha esteso l'ambito temporale del blocco della contrattazione economica al 31 dicembre 2015. Le nuove leggi consentono di rileggere, per una connessione logica e giuridica evidente, l'intero assetto normativo del blocco, facendo emergere la dimensione problematica che ha condotto alla decisione di accoglimento.
L'art. 39, comma 1, Cost. non risulta violato per il mero fatto dell'introduzione di misure volte a fissare limiti di compatibilità della contrattazione collettiva con le finanze pubbliche, che vincolino la libertà di azione sindacale, come la giurisprudenza costituzionale ha sempre ammesso per il settore privato (sent. 26 marzo 1991, n. 124). Vincoli del genere sono ancora più stringenti per la contrattazione collettiva pubblica, dove il legislatore interferisce molto più incisivamente ed in modo del tutto fisiologico, spettando alla legge di stabilità indicare, per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, le risorse destinate a finanziare i rinnovi contrattuali. Il primo blocco vede così indirettamente rafforzata la sua ragionevolezza, con piena coincidenza con la manovra triennale di finanza pubblica, e con sicura compatibilità di ratio tra (mancato) stanziamento delle risorse e dinamica negoziale allineata sulla durata triennale dei contratti (punto 12.1.).
Viceversa la reiterazione delle misure di blocco, così come congegnata negli anni successivi, ha bilanciato in maniera irragionevole e sproporzionata la libertà sindacale (tutelata non solo dall'art. 39, comma 1, Cost. ma anche dalle molteplici fonti sovranazionali richiamate in motivazione) e gli obiettivi di pareggio di bilancio e di risanamento economico (art. 81 Cost.). Secondo la Corte, inoltre, la valorizzazione della contrattazione collettiva quale fonte privilegiata di determinazione del trattamento retributivo dei pubblici dipendenti privatizzati, ai sensi dell'art. 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001, impedisce di addurre a compensazione del blocco la circostanza che i contratti collettivi dal contenuto prettamente normativo, che non incidono sulla spesa pubblica, non sarebbero stati preclusi. Di conseguenza, «l'estensione fino al 2015 delle misure che inibiscono la contrattazione economica e che, già per il 2013-2014, erano state definite eccezionali, svela, al contrario, un assetto durevole di proroghe. In ragione di una vocazione che mira a rendere strutturale il regime del “blocco”, si fa sempre più evidente che lo stesso si pone di per sé in contrasto con il principio di libertà sindacale sancito dall'art. 39, primo comma, Cost.» (punto 15.2). Osservazioni
La Corte non solo non è pervenuta ad un travolgimento integrale della normativa di blocco, ma ha ritenuto di calibrare l'efficacia temporale del dispositivo di accoglimento con una declaratoria di incostituzionalità sopravvenuta, che si traduce nella rimozione dell'illegittimo limite legale alla contrattazione a far data dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza in G.U. Con la formula dell'incostituzionalità ex nunc (inaugurata dalla sent. 11 febbraio 2015, n. 10), viene espressa in modo inequivoco la scelta di evitare qualsiasi ricaduta in termini finanziari sul passato, scongiurando le gravose implicazioni per il bilancio pubblico aperte dalla sentenza sulla mancata indicizzazione delle pensioni (sent. 30 aprile 2015, n. 70).
In particolare, si legge in chiusura, «rimossi, per il futuro, i limiti che si frappongono allo svolgimento delle procedure negoziali riguardanti la parte economica, sarà compito del legislatore dare nuovo impulso all'ordinaria dialettica contrattuale, scegliendo i modi e le forme che meglio ne rispecchino la natura, disgiunta da ogni vincolo di risultato. Il carattere essenzialmente dinamico e procedurale della contrattazione collettiva non può che essere ridefinito dal legislatore, nel rispetto dei vincoli di spesa, lasciando impregiudicati, per il periodo già trascorso, gli effetti economici derivanti dalla disciplina esaminata».
Quanto agli svolgimenti applicativi, da sottolineare l'inciso "senza vincolo di risultato", da intendere nel senso che non vi è un obbligo di stipulare il contratto collettivo, né un corrispondente diritto dei sindacati. Dopo questa pronuncia spetterà al legislatore stanziare le risorse necessarie alla riapertura delle tornate contrattuali: ciò previo apprezzamento della compatibilità con i vincoli di spesa e senza alcuna possibilità di recupero delle somme non percepite per effetto della sospensione quinquennale della contrattazione collettiva, stimate in 35 miliardi di euro dall'Avvocatura dello Stato (sul significato del divieto di recupero, in assenza del quale si vanificherebbero praticamente i risparmi di spesa ottenuti col blocco, v. già sent. 16 luglio 2012, n. 189). Il primo passo per sbloccare la contrattazione sarà pertanto l'approvazione della legge di stabilità per il triennio 2016-2018, in discussione in questi giorni. Sul piano operativo, vi è poi l'ulteriore questione della ridefinizione del comparti contrattuali, con la riduzione ad un massimo di quattro, che – prefigurata dalla riforma Brunetta del 2009 (art. 40, comma 2, D.Lgs. n. 165 del 2001) – è stata accantonata con il blocco dei rinnovi contrattuali sopravvenuto nel 2010.
|