Tutele crescenti: licenziamento discriminatorio e reintegra
10 Novembre 2016
Massima
L'art. 2 D.Lgs. n. 23/2015, nel modificare l'art. 18 L. n. 300/1970, sanziona con la tutela reintegratoria "forte" il licenziamento nullo, intendendo per tale il recesso datoriale discriminatorio ai sensi dell'art. 15 L. n. 300/1970, e, in modo distintivo e non sovrapponibile, quello riconducibile “agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, da individuarsi alla stregua dell'art. 1418 c.c. nella nullità scaturente dalla illiceità del motivo ex art. 1345 c.c.
La prima fattispecie potrà considerarsi dimostrata nel processo qualora, pur provata la causa legittima del recesso ex art. 1 L. n. 604/1966, vi sia riscontro agli atti della sussistenza del cd. fattore di rischio e del dato oggettivo, che dia conto del fatto che il lavoratore, proprio a causa della sua condizione, o delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione, e ciò a prescindere dalla motivazione e dall'intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio. Con riguardo invece al licenziamento per motivo illecito, l'art. 1345 c.c. richiede ai fini della nullità del negozio che la volontà del datore di lavoro sia stata determinata in via esclusiva da un intento contra legem. Il caso
La ricorrente, lavoratrice avente mansioni di operaia con orario part time al 50%, adiva il Tribunale di Roma chiedendo di accertare e dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatole dalla società convenuta in quanto discriminatorio, ritorsivo, infondato in fatto e diritto e/o privo di giusta causa e di giustificato motivo, e/o perché intimato in violazione degli artt. 2 e 3 della L. n. 604/1966, per vizio di motivazione, delle regole di buona fede e correttezza e/o in violazione delle norme collettive e di legge disciplinanti il licenziamento del lavoratore.
Il Giudice, rilevata l'applicabilità del D.Lgs. 7 marzo 2015 n. 23 (tenuto conto della decorrenza del rapporto di lavoro dal 17 marzo 2015, ovvero dieci giorno dopo l'entrata in vigore della riforma), annullava il licenziamento intimato alla ricorrente e, in applicazione dell'art. 3, co. 2 del predetto decreto, condannava la società convenuta a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro in precedenza occupato e a pagare un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione. La questione
Nella prima parte della sentenza in argomento, una delle prime ad affrontare la disciplina introdotta con il D.Lgs. n. 23/2015 sulle “disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, l'attenzione del giudicante si focalizza sulla individuazione della illegittimità del licenziamento nullo sanzionato dall'art. 2 del decreto de quo.
Il Tribunale, analizzate le fattispecie di nullità del licenziamento tutelate con l'art. 2, riconduce la fattispecie concreta all'ipotesi disciplinata dal co. 2 dell'art. 3 del citato decreto attuativo del “Jobs Act”, escludendo la natura discriminatoria ed illecita del recesso datoriale in favore dell'illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto materiale accertata nel corso del giudizio. Le soluzioni giuridiche
Il Giudice, sulla scorta delle censure avanzate dalla parte ricorrente, si sofferma sulle ipotesi di licenziamento nullo per le quali il Legislatore del “Jobs Act” prevede la sanzione della tutela reintegratoria “forte”: il licenziamento nullo in quanto discriminatorio ovvero riconducibile agli altri casi di nullità “testuale” (“altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”). Dapprima, l'analisi del Giudicante si concentra pertanto sulla nozione di discriminazione come descritta dall'art. 15, L. n. 300/1970, ricercandosi la disciplina di riferimento nell'art. 4 della L. n. 604/1966, art. 3 L. n. 108/1990 ed art. 15 della L.n. 300/1970. La discriminazione opera in modo obiettivo, trascurando la volontà illecita del datore di lavoro, sulla base del solo trattamento deteriore del lavoratore rispetto a quello riservato agli altri lavoratori in ragione dell'appartenenza ad una categoria protetta (Cass. sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575, vedi il commento E. Sessa, Licenziamento discriminatorio e ritorsivo: nozione oggettiva di discriminazione) La fattispecie discriminatoria possiede una propria connotazione prettamente oggettiva: la dottrina e la giurisprudenza – e specialmente la giurisprudenza comunitaria – ritengono provata la condotta discriminatoria con il mero accertamento dell'effetto pregiudizievole per il lavoratore, non occorrendo invece la prova dell'intento discriminatorio da parte del datore di lavoro. In ordine alla ripartizione degli oneri probatori, spetta dunque al datore di lavoro provare l'assenza del fatto oggettivo (il trattamento sfavorevole che avrebbe subito il lavoratore), mentre sul lavoratore incombe l'onere di provare il cosiddetto “fattore di rischio” fornendo i dati di fatto che indicano la disparità di trattamento. Nel caso in esame, detto “fattore di rischio” poteva ricondursi alla possibilità della lavoratrice di ricorrere ai congedi parentali per malattia del figlio minore di tre anni, come sostenuto dalla ricorrente. Soltanto attraverso la prova della sussistenza del fatto oggettivo e del “fattore di rischio” il provvedimento adottato dal datore di lavoro può qualificarsi discriminatorio ed essere dichiarato nullo ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 23/2015. Nel caso di specie, tuttavia, la ricorrente non assolveva l'onere probatorio rispetto alla sussistenza di un fattore di rischio (la sua condizione di madre che avrebbe usufruito dei congedi parentali per malattia del figlio minore di tre anni) o all'allegazione di fatti dai quali dedurre una situazione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori per quanto riguarda la supposta natura discriminatoria del licenziamento.
È altresì nullo, in quanto riconducibile alle altre ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge, il licenziamento basato su motivo illecito ex art. 1345 c.c., anch'esso sanzionato con la tutela reintegratoria "forte" ex art. 2 D.Lgs. n. 23/2015. L'art. 1345 c.c., in combinato disposto con la norma prevista dall'art. 1324 c.c., fa sì che il recesso datoriale si configuri come un atto unilaterale nullo a causa dell'illecita volontà datoriale. Quest'ultima infatti, ponendosi quale motivo esclusivo e determinante del recesso, qualifica il licenziamento come negozio illegittimo: viene considerata “abnorme reazione alla condotta del lavoratore”. Ne discende che il datore di lavoro può negare l'esistenza del motivo illecito attraverso al prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. Ancora una volta, nel corso del giudizio della fattispecie concreta, non veniva forniva prova del motivo illecito del recesso, atteso che la ricorrente non provava l'abnormità della condotta di controparte qualificabile come ritorsiva, neppure attraverso presunzioni semplici. Alla luce dei fatti argomentati nel ricorso introduttivo e dei documenti ad esso allegati e provenienti comunque da parte datoriale (buste paga, lettere di contestazione e di licenziamento), il Giudice riteneva invece provata l'insussistenza del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo ai sensi dell'art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015. La summenzionata disposizione prevede la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro qualora “sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. Sulla scorta di un'interpretazione letterale della nuova norma prodotta dal Legislatore del 2015, l'insussistenza del fatto contestato può intendersi come insussistenza “materiale” del fatto posto a fondamento del licenziamento: la giurisprudenza, tuttavia, ha tentato di ampliare l'applicabilità della tutela reintegratoria alle ipotesi in cui il fatto sussista pur non essendo caratterizzato dall'illiceità necessaria a giustificare il recesso ma soltanto una sanzione conservativa. Quanto sopra può valere se si considerano le recenti pronunce della Cassazione secondo cui “non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea […] la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva” (Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540).
Il testo normativo da ultimo introdotto sembra pertanto voler tutelare il lavoratore con la reintegra nel posto di lavoro in ridotte ipotesi, spettando a quest'ultimo di fornire la prova dell'insussistenza del fatto. A partire dall'introduzione della riforma Fornero, la giurisprudenza è intervenuta al fine di ampliare l'applicazione della tutela reintegratoria con riferimento al licenziamento disciplinare, in antitesi rispetto agli intenti del Legislatore. Quest'ultimo, con l'intervento legislativo del 2015, specifica che il “fatto contestato” posto alla base del licenziamento deve essere altresì “materiale” sì da impegnare il giudicante nella ricerca della sussistenza di un elemento oggettivo avulso da ogni eventuale connotazione soggettiva. E così vengono meno la colpa, l'incapacità naturale e qualsiasi altro esempio di elemento soggettivo del fatto contestato: semplicemente non rilevano più, essendo invece sufficiente la mera prova negativa del fatto. Inoltre il Legislatore, sempre al fine di circoscrivere la portata dell'indagine giudiziale, ha espressamente negato ogni potenziale giudizio sulla sproporzione del licenziamento, premurandosi di esplicare che “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, inserendo l'inciso nel testo nella disposizione dell'art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015. Così facendo, il Legislatore ha eliminato ogni riferimento all'art. 2106 c.c. nonché ai CCNL e, quindi, all'applicabilità del potere disciplinare del datore di lavoro “secondo la gravità dell'infrazione”. Inoltre, il Legislatore ha voluto precisare che l'insussistenza del fatto materiale dovesse essere provata “direttamente” in giudizio. L'avverbio ha suscitato non poche perplessità sulla sua interpretazione in ordine all'eventuale obiettivo di stravolgere il riparto degli oneri probatori (tesi ritenuta, da parte della dottrina, ininfluente allo scopo) fornendo una prova diretta del fatto. La giurisprudenza appare tuttavia orientata ad escludere che il fatto posto a fondamento del licenziamento possa assumere una rilevanza meramente naturalistica, dovendo invece essere inteso come inadempimento con una connotazione più ampia, tenendo conto dell'elemento oggetto e soggettivo. Osservazioni
In conclusione, trattandosi di una delle prime pronunce di merito, è possibile osservare che il Giudice ha ritenuto di tutelare la ricorrente riconducendo la fattispecie all'ipotesi prevista dall'art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015 ed applicando la tutela reintegratoria: il Tribunale ha ritenuto provata direttamente in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato, “sia attraverso la documentazione prodotta dalla lavoratrice sia attraverso il mancato assolvimento da parte del datore di lavoro dell'onere probatorio che gli incombeva”. F. Chietera, Il fatto materiale nei licenziamenti tra legge Fornero e Jobs act; M. Russo, Licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act; T. Zappia, Il fatto materiale dopo il decreto n. 23/2015; E. Sessa, Licenziamento discriminatorio e ritorsivo: nozione oggettiva di discriminazione. |