La proporzionalità del licenziamento disciplinare tra vecchie incertezze e nuove riforme legislative

Andrea Melchiorri
12 Marzo 2015

La valutazione del requisito di proporzionalità del licenziamento disciplinare previsto dall'art. 2106 c.c. deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la condotta oggetto del procedimento disciplinare e non limitarsi al solo accertamento del fatto materiale posto in essere dal lavoratore ed alla corrispondenza con le fattispecie per le quali il contratto collettivo nazionale applicabile prevede il licenziamento per giusta causa.
Massima

La valutazione del requisito di proporzionalità del licenziamento disciplinare previsto dall'art. 2106 c.c. deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la condotta oggetto del procedimento disciplinare e non limitarsi al solo accertamento del fatto materiale posto in essere dal lavoratore ed alla corrispondenza con le fattispecie per le quali il contratto collettivo nazionale applicabile prevede il licenziamento per giusta causa.

Il caso

La questione sottoposta all'esame della Cassazione (n. 854/2015):

Tizio veniva licenziato per giusta causa dalla società Alfa S.p.A. per aver sottratto, nel mese di settembre 2009, dagli scaffali del supermercato dove svolgeva la mansione di addetto alle vendite, delle confezioni di vino in scatola per consumarle direttamente sul posto di lavoro. Tale condotta è stata reiterata da Tizio in più occasioni in un breve arco di tempo.

La Corte d'Appello di Catanzaro, riformando la sentenza del Tribunale di Catanzaro, dichiarava l'illegittimità del licenziamento e conseguentemente ordinava la reintegrazione di Tizio, condannando la società al risarcimento del danno commisurato all'importo delle retribuzioni maturate e maturande dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegrazione.

A giudizio della Corte d'Appello, infatti, il licenziamento intimato da Alfa S.p.A. era sproporzionato rispetto alla condotta commessa da Tizio dal momento che si fondava su mancanze concentratesi in un breve arco di tempo nel quale il lavoratore attraversava una difficile situazione lavorativa, psicologica, familiare e personale come tali inidonee a pregiudicare il vincolo fiduciario tra le parti.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso per Cassazione la società Alfa denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2119 e dell'art. 3 della Legge n. 604/1966, anche in relazione all'art. 30, comma 3, legge n. 183/2010, nonché motivazione insufficiente ed illogica; omesso esame di circostanze decisive; omessa motivazione in ordine all'asserita prova di asserite circostanze attenuanti. In particolare, oltre a sottolineare la gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, la società ricorrente sottolineava la corrispondenza tra la condotta posta in essere da Tizio e l'ipotesi di recesso per giusta causa prevista dal CCNL applicabile, ovvero “l'appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi”.

Per la Corte d'Appello di Genova (n. 28/2015) il caso era il seguente:

Caio veniva licenziato per giusta causa dalla società Beta S.p.A. per non aver correttamente eseguito i lavori sulla rete telefonica di una cliente ed avere richiesto e accettato indebitamente dalla medesima la somma di € 25,00.

Il Tribunale di Savona, accogliendo il ricorso presentato da Caio ai sensi dell'art. 1, comma 48, della Legge n. 92/2012 (cd. rito Fornero), dichiarava con ordinanza illegittimo il licenziamento e per l'effetto ordinava a Beta di reintegrare il lavoratore nonché di pagare a suo favore un'indennità pari alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione nel massimo di dodici mensilità. L'ordinanza veniva confermata dalla sentenza conclusiva del giudizio di opposizione promosso dalla società Beta S.p.A. davanti al medesimo Tribunale.

Secondo il Tribunale di Savona, infatti, non era stata pienamente provata la non corretta esecuzione dei lavori da parte di Caio e la somma di € 25,00 doveva essere qualificata come mancia come tale non in grado di integrare la fattispecie oggetto di licenziamento per giusta causa in base al CCNL applicabile. Più precisamente, secondo il Tribunale, sebbene l'art. 48, lett. B), comma 4, lett. i) del CCNL preveda quale giusta causa di licenziamento “la richiesta o l'accettazione, a qualsiasi titolo, di compensi di carattere economico in connessione agli adempimenti della prestazione lavorativa”, tale fattispecie deve essere coordinata con il comma precedente (art. 48, lett. B), comma 3) che richiede che il comportamento del lavoratore abbia causato grave nocumento morale o materiale all'azienda ovvero si risolva in azioni costituenti delitto, tutti elementi non rinvenuti dal Tribunale.

Avverso la sentenza del Tribunale proponeva reclamo la società Beta S.p.A. sottolineando come siano stati pienamente provati i fatti materiali alla base della contestazione e come essi integrassero gli estremi del licenziamento per giusta causa anche in considerazione delle previsioni del CCNL applicabile.

La questione

Quali sono gli elementi su cui si fonda la valutazione di proporzionalità del licenziamento disciplinare? È vincolante per il giudice la valutazione espressa dal CCNL applicabile?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza della Corte di Cassazione (n. 854/2015) rigetta il ricorso e conferma la reintegrazione disposta dalla sentenza della Corte d'Appello di Catanzaro:

Secondo i giudici di legittimità il giudice dell'Appello aveva tenuto conto della tipizzazione contenute nei contratti collettivi e della condotta di impossessamento furtivo compiuta dal lavoratore, “ma semplicemente supera questi dati nell'ambito nel quadro di una valutazione della proporzionalità della sanzione…”. Ciò anche se la società ricorrente avesse opportunamente richiamato il disposto dell'art. 30, comma 3, legge n. 183/2010 che prevede che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi”.

In particolare, secondo i giudici della Corte di Cassazione, la condotta compiuta dal lavoratore Caio deve essere valutata più approfonditamente tenendo nella dovuta considerazione i seguenti elementi:

- l'impossessamento dei cartoni di vino è strettamente collegato alla finalità perseguita dal lavoratore ovvero il consumo del vino stesso e, in quanto tale, “l'appropriazione di beni aziendali non è del tutto sovrapponibile alla sottrazione funzionale al consumo immediato del bene” in questo senso ponendosi “in un'area molto vicina al furto d'uso”;

- il lavoratore ha scelto il prodotto di più bassa qualità;

- il lavoratore ha provveduto ad “un bisogno in qualche misura qualificabile grave ed urgente” e comunque concentrato in un limitato arco di tempo “frutto di una condizione anomala rispetto alla personalità ordinariamente manifestata dal lavoratore […] specie se si ha riguardo alle condizioni di salute dei familiari, dalla moglie in stato di gravidanza a rischio figlio di quattro anni con problemi respiratori”;

- il lavoratore non svolge mansioni di particolare responsabilità (compiti di sorveglianza e di tenuta della cassa).

Alla luce di queste ampie considerazioni di carattere più generale, secondo la Corte di Cassazione non sussistono gli estremi per ritenere pregiudicato il rapporto fiduciario tra le parti e l'affidamento del datore di lavoro sull'esatto adempimento delle prestazioni future.

I giudici dell'Appello di Genova (n. 28/2015) accolgono i motivi di gravame prospettati dalla società ricorrente e, conseguentemente, riformano la sentenza del Tribunale giudicando legittimo il licenziamento per giusta causa intimato nei confronti di Caio:

La Corte ha ritenuto che la tipizzazione contenuta nel CCNL applicabile (art. 48, lett. B), comma 4, lett. i) costituisca la specificazione dei criteri più generali previsti dal comma precedente (art. 48, lett. B), comma 3). Conseguentemente, secondo i giudici dell'appello, è sufficiente la corrispondenza tra la condotta compiuta da Caio e la fattispecie prevista dal CCNL per il legittimo esercizio del licenziamento per giusta causa.

Inoltre, secondo i giudici la valutazione compiuta dal contratto collettivo risulta “congrua sub specie dell'art. 2106 e dell'art. 2119 cod. civ.”.

Infine, la somma di € 25 non costituisce una mancia bensì era stata accettata da Caio a titolo di corrispettivo dell'intervento tecnico eseguito presso il cliente.

Osservazioni

Le due sentenze in esame affrontano la delicata questione dell'applicazione del principio di proporzionalità di cui all'art. 2106 c.c. al licenziamento disciplinare per giusta causa.

È significativo che a fronte di condotte similari (sottrazione di vino in cartone a fini del consumo nel caso della sentenza della Corte di Cassazione; indebita accettazione di 25 € da parte di una cliente nel caso della sentenza della Corte d'Appello di Genova), le sentenze in esame arrivino a soluzioni diametralmente opposte nell'esprimere il giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare.

La questione non è certo nuova, ma queste due recenti pronunce offrono l'opportunità per svolgere alcune brevi considerazioni sui recenti interventi legislativi che hanno cercato di favorire la certezza del diritto in questa materia.

Così la sentenza n. 854/2015 della Corte di Cassazione, relativa ad un licenziamento intimato prima dell'entrata in vigore della legge n. 92/2012 (cd. riforma Fornero), applica l'art. 30, comma 3, legge n. 183/2010 (cd. collegato lavoro).

Con quest'ultima disposizione il legislatore ha provato a favorire la certezza del diritto prevedendo espressamente per legge la possibilità per la contrattazione, tanto collettiva quanto individuale – quest'ultima purché sottoposta a certificazione – di tipizzare ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo di licenziamento, tipizzazione di cui “il giudice tiene conto” nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento.

La disposizione del collegato lavoro però non ha avuto particolare fortuna applicativa, ivi inclusa la sentenza della Corte di Cassazione in esame.

Infatti, la Corte di Cassazione, pur non negando espressamente l'ascrivibilità della condotta posta in essere dal lavoratore (sottrazione e consumo di cartoni di vino sul luogo di lavoro) alla fattispecie tipizzata dal contratto collettivo applicabile (“appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi”), decide in definitiva di non seguire la tipizzazione del contratto collettivo e ritiene prevalenti altre circostanze attinenti alla situazione del lavoratore licenziato.

In altre parole, nonostante la disposizione del cd. collegato lavoro sia stata opportunamente richiamata dalla società ricorrente, alla fine i giudici si sono riservati il giudizio sulla proporzionalità tra licenziamento e condotta contestata al lavoratore.

È forse proprio per evitare questa prassi applicativa che il legislatore del 2012 con la

legge n. 92/2012

(cd. riforma Fornero) decide di spostare l'attenzione dal piano della tipizzazione e dell'anticipazione della valutazione di legittimità del licenziamento a quello delle conseguenze derivanti dall'eventuale illegittimità del licenziamento.

Più in particolare, la legge n. 92/2012, riformando l'art. 18 della legge n. 300/1970, ha limitato la reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare illegittimo nei casi di “insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.

Peraltro, con la sentenza n. 23669/2014 la Corte di Cassazione ha espressamente chiarito che il giudizio sull'insussistenza del fatto contestato “esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.

In questo modo il legislatore ha finito per rimettere completamente alla contrattazione collettiva (ed ai codici disciplinari) l'unica ipotesi di reintegrazione derivante da un vizio di proporzionalità tra sanzione e condotta del lavoratore, ovvero quando per una determinata condotta disciplinarmente rilevante è prevista l'applicazione di una sanzione conservativa. In altre parole, a seguito della riforma Fornero, l'unica ipotesi di vizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare che possa dar luogo alla reintegrazione è quello della preventiva valutazione da parte della contrattazione collettiva della condotta del lavoratore come suscettibile di una mera sanzione conservativa. Altri e diversi vizi di proporzionalità del licenziamento, invece, danno luogo alla sola tutela economica dell'indennità.

Proprio la sentenza della Corte d'Appello di Genova, tuttavia, dimostra come anche le importanti novità introdotte dalla riforma Fornero non abbiano del tutto risolto il problema della certezza del diritto.

In effetti, è solo con la sentenza di appello che trova accoglimento la tesi della legittimità del licenziamento, mentre il Tribunale, tanto nel primo grado di giudizio quanto in fase di opposizione, aveva ritenuto il licenziamento illegittimo.

Sembrerebbe, quindi, che l'incertezza interpretativa più che essere effettivamente superata dalla legge n. 92/2012 si sia spostata dal piano della valutazione di proporzionalità del licenziamento a quello dell'interpretazione dei contratti collettivi. In effetti, se la volontà legislativa era quella di limitare la discrezionalità interpretativa della valutazione di proporzionalità del licenziamento disciplinare riservando la reintegrazione alle ipotesi desumibili e predeterminate dalla contrattazione collettiva, a ben vedere la discrezionalità interpretativa dei giudici si è spostata sul piano dei contenuti dei contratti collettivi.

Spesso, infatti, le clausole dei contratti collettivi contengono previsioni ampie e non distinguono in maniera puntuale le condotte alle quali è applicabile una mera sanzione conservativa da quelle suscettibili di essere sanzionate dal licenziamento. Ciò in quanto le parti sociali le hanno negoziate sotto la vigenza di un diverso quadro normativo nel quale l'ampiezza delle definizioni era principalmente volta ad abbracciare un ampio novero di condotte disciplinarmente rilevanti anziché essere un elemento in grado di favorire la discrezionalità del giudice nell'individuazione della sanzione applicabile in caso di illegittimità del licenziamento medesimo.

Così la discrezionalità connaturata al giudizio di proporzionalità è stata solo in parte ridimensionata e più che altro spostata sul piano dell'interpretazione del contratto collettivo come dimostra anche la sentenza della Corte d'Appello di Genova in commento.

È forse proprio per questo che il Governo ha deciso di tornare nuovamente sulla questione con il decreto legislativo sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti attuativo della delega contenuta nell'art. 1, comma 7, lett. c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183.

L'art. 3, comma 2 del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, infatti, rafforza l'intervento avviato dalle Legge n. 92/2012 e modifica, limitatamente alle nuove assunzioni, il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, ivi compreso quello disciplinare.

Il nuovo intervento legislativo prende posizione apertamente sul vizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare: il giudice potrà ordinare la reintegrazione solo in caso di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. La recente riforma, quindi, non solo cristallizza nella legge quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 23669/2014, ma viene definitivamente superata l'ipotesi della tipizzazione delle condotte da parte della contrattazione collettiva.

Conseguentemente, il vizio di proporzionalità del licenziamento rientra integralmente nelle ipotesi soggette al regime sanzionatorio generale previsto dall'art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015 che esclude la reintegrazione e prevede la condanna al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione, commisurata all'anzianità di servizio.

Sebbene limitatamente alle assunzioni effettuate successivamente all'entrata in vigore del Decreto Legislativo sulle tutele crescenti, ovvero effettuate a partire dal 07 marzo 2015, giunge così a compimento il processo di graduale contenimento della discrezionalità interpretativa sulla proporzionalità del licenziamento disciplinare. Occorrerà attendere le prime pronunce giurisprudenziali in materia, ma risulta chiarissima la scelta del legislatore sul licenziamento disciplinare: perseguire la certezza del diritto escludendo che l'eventuale vizio di proporzionalità del licenziamento possa dar luogo alla reintegrazione nel rapporto di lavoro.

Guida all'approfondimento

A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all'art. 18 Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., Giuffrè, 2012, I, p.415 ss.

G. Amoroso - V. Di Cerbo - A. Maresca, Diritto del lavoro – Lo statuto dei lavoratori e la disciplina dei licenziamenti – Vol. II, Giuffrè, 2014, pp. 697 e ss.

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