Legittimo il licenziamento per riorganizzazione aziendale se i criteri di scelta sono ragionevoli
12 Aprile 2017
Massima
Quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili, il datore di lavoro deve improntare l'individuazione del soggetto da licenziare in base ai principi di correttezza e buona fede previsti ex artt. 1175 e 1375 c.c.
In tale contesto - nonostante l'art. 5, Legge n. 223/1991 individui alcuni parametri idonei ad assicurare che la scelta sia legittima - non può escludersi la facoltà per il datore di lavoro di utilizzare altri criteri (non codificati), purché gli stessi non risultino arbitrari e siano comunque idonei a determinare una graduatoria fra i lavoratori coinvolti. Il caso
La sentenza in esame concerne un caso di licenziamento intimato a fronte della intervenuta riorganizzazione della struttura aziendale, determinata dalla necessità di ridurre l'organico con soppressione di una posizione interna. La scelta del datore di lavoro ha coinvolto un reparto in cui operavano tre lavoratori (esercenti analoghe mansioni).
Nel caso di specie, il datore di lavoro ha esercitato il proprio potere di recesso avvalendosi di criteri diversi da quelli indicati ex art. 5, Legge n. 223/1991, ricorrendo a criteri atipici (ovvero al fatto che la risorsa individuata: fosse meno performante, disponesse di redditi diversi dal reddito di lavoro e risultasse – nell'ambito dello specifico reparto – la più onerosa).
Sulla base di quest'ultimi, il giudice di merito aveva ritenuto legittimo il licenziamento; la pronuncia era tuttavia stata impugnata in secondo grado dal lavoratore, il quale aveva dedotto che i criteri applicati dall'azienda non erano oggettivi, ma del tutto arbitrari (e, con riferimento allo specifico parametro dei “diversi redditi” percepiti dal lavoratore, che si trattava di circostanza del “tutto estranea, irrilevante e addirittura discriminatoria”).
La sentenza della Corte di Cassazione - che ha confermato la decisione del giudice di secondo grado - costituisce un interessante precedente sul dibattuto tema dei licenziamenti per ragioni organizzative. La questione
La questione ha ad oggetto i limiti e la portata dei poteri di discrezionalità del datore di lavoro nell'ambito dei criteri di scelta da adottare in occasione dei licenziamenti per ragioni oggettive. La soluzione giuridica
L'art. 3, Legge n. 604/1966 prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo venga intimato per ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa.
In via generale, la ragionevolezza della decisione assunta dal datore di lavoro in merito al licenziamento è soggetta (in caso di impugnazione) al controllo posto dall'autorità giudiziaria, che verifica l'effettiva sussistenza dei motivi addotti a sostegno del provvedimento espulsivo.
In questo contesto, il potere di licenziamento del datore di lavoro va calibrato con il principio sancito dall'art. 41 della Costituzione, che prevede la libertà dell'iniziativa economica privata.
Sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte ha in più occasioni precisato che “il giustificato motivo oggettivo di licenziamento sia rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost.” (Cass. sez. lav., 28 marzo 2011, n. 7046);
Ciò non equivale a sostenere che la scelta del datore di lavoro sia libera da vincoli ma, al contrario, essa deve essere ancorata ai principi di correttezza e di buona fede.
La giurisprudenza di legittimità qualifica la buona fede come una regola di condotta generale, in forza della quale le parti hanno l'obbligo di mantenere un comportamento rispettoso dei canoni di correttezza (cfr. fra le altre, Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 1986, n. 960; nello stesso senso, Cass. civ., 21 maggio 1973, n. 1460).
Tale principio costituisce un elemento “naturale” del contratto di lavoro, che opera in tutte le fasi del rapporto: dalle trattative, all'esecuzione, fino alla sua cessazione.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, il datore di lavoro è tenuto ad operare secondo buona fede anche nell'individuazione dei lavoratori da licenziare per motivi oggettivi.
Sul punto, in più occasioni la Suprema Corte ha affermato che in caso di licenziamento individuale, ai fini dell'individuazione dei criteri di scelta è consentito al datore di lavoro fare riferimento a quanto previsto ex art. 5, Legge n. 223/1991 per i licenziamenti collettivi (ex multis Cass. sez. Lav., 28 marzo 2011, n. 7046).
A tal fine l'art. 5, Legge n. 223/1991 individua tre criteri (che sono concorrenti tra loro):
Ebbene, tale principio viene applicato analogicamente anche ai casi – quale quello in esame – in cui il licenziamento sia motivato dall'esigenza di riduzione di personale che risulti omogeneo e fungibile ed in cui non siano richiamabili, né l'ipotesi di soppressione di una posizione lavorativa, né l'impossibilità del c.d. repechage.
I criteri di cui all'art. 5, Legge n. 223/1991, seppure improntati sul principio di correttezza e buona fede (gli stessi infatti sono volti a determinare una graduatoria interna dei dipendenti su presupposti e criteri oggettivi, trasparenti e non opinabili), non sono tassativi e non escludono la possibilità per il datore di lavoro di estendere la valutazione e la scelta dei dipendenti da licenziare su criteri non codificati.
Per essere legittimi questi ultimi, al pari dei criteri di legge, non devono essere discriminatori ed anzi devono consentire la creazione di una graduatoria tra i lavoratori in esubero.
Nel caso di specie, i criteri utilizzati a sostegno del licenziamento (il maggior costo della retribuzione, il minor rendimento lavorativo e le condizioni economiche complessive di ciascun lavoratore) rappresentano a tutti gli effetti dei criteri validi (oltre che ragionevoli) e non arbitrari.
La legittimità di questi ultimi si fonda sul fatto che gli stessi riguardano comunque le qualità e le condizioni soggettive dei lavoratori e consentono a tutti gli effetti una comparazione tra i lavoratori interessati dalla riduzione dell'organico.
Accertata, dunque, la genuinità dei criteri adottati e verificata l'effettiva sussistenza delle ragioni del licenziamento (ad esempio, come nel caso in esame, la riorganizzazione), lo stesso può dirsi legittimo. Osservazioni
La sentenza in commento offre senz'altro un approccio innovativo rispetto al tema in esame.
Oltre l'applicazione analogica dei criteri normativi posti in tema di licenziamenti collettivi a quelli individuali, la pronuncia consente all'interprete di valutare la legittimità del licenziamento alla luce di ulteriori criteri non codificati, purché conformi al principio di buona fede contrattuale.
Per essere legittimi i diversi criteri individuati dal datore di lavoro non devono ovviamente risultare arbitrari ed anzi devono comunque consentire una graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati.
In questo contesto la pronuncia in esame espone l'Autorità Giudiziaria ad un attento lavoro di analisi e valutazione della fattispecie, essendo la stessa chiamata a pronunciarsi caso per caso su criteri atipici e non codificati (e sulla loro genuinità). |