Decorrenza del termine di decadenza per l’impugnativa giudiziale del licenziamento

Luigi Di Paola
10 Giugno 2015

L'art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, modificato dall'art. 1, comma 38, della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel prevedere l'inefficacia “dell'impugnazione” extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, comporta che il termine per proporre l'azione giudiziale decorre dal compimento della prima - da identificarsi, per esigenze di celerità e certezza, con il momento di spedizione dell'atto - e non dalla scadenza dei sessanta giorni concessi per l'impugnazione stragiudiziale. L'esigenza di celerità, intesa a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, indica ancora che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell'atto.
Massima

L'art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, modificato dall'art. 1, comma 38, della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel prevedere l'inefficacia “dell'impugnazione” extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, comporta che il termine per proporre l'azione giudiziale decorre dal compimento della prima - da identificarsi, per esigenze di celerità e certezza, con il momento di spedizione dell'atto - e non dalla scadenza dei sessanta giorni concessi per l'impugnazione stragiudiziale. L'esigenza di celerità, intesa a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, indica ancora che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell'atto.

Il caso

Una lavoratrice agiva in giudizio per il conseguimento della declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole. Il giudice d'appello, riformando la sentenza di primo grado, riteneva tempestiva l'impugnazione giudiziale del licenziamento, affermando che il relativo termine di decadenza decorre da quello di sessanta giorni per l'impugnazione stragiudiziale, sicché il termine complessivo per l'impugnazione giudiziale è di sessanta più duecentosettanta giorni. L'azienda, ricorrendo in cassazione, contestava tale opzione ermeneutica.

In motivazione

«A norma dell'art. 6, primo comma, l. n. 604 del 1966, “il licenziamento dev'essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta ... con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore...". Per l'impedimento di questa decadenza è sufficiente la consegna dell'atto all'ufficio pubblico che cura la spedizione, come ha stabilito Cass. Sez. Un. 14 aprile 2010 n. 8830, non rilevando perciò il giorno di ricezione da parte del datore di lavoro. Prima che il secondo comma di detto art. 6 venisse novellato dall'art. 32 l. n. 183 del 2010, una volta impedita la decadenza, il potere di impugnare in via giudiziale il licenziamento veniva assoggettato, a norma dell'art. 2967 cod. civ., al termine quinquennale di prescrizione di cui all'art. 1442, primo comma, cod. civ. Sembrò al legislatore che la durata di questo termine lasciasse troppo a lungo incerta la posizione del datore di lavoro, sottoposto alla possibilità dell'ordine di reintegrazione da parte del giudice e della condanna a risarcire un danno che aumentava col trascorrere del tempo. La lunghezza di detto temine poteva così favorire una sorta di abuso della prescrizione, ossia di inerzia del lavoratore, che traesse vantaggio dalla protrazione dell'esercizio del suo potere di impugnare e di chiedere il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo. Intervenne così il legislatore del 2010, che con l'art. 32, comma 1 cit., stabilì: “L'impugnazione (stragiudiziale) è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta (poi ridotto a centottanta dall'art. 1, comma 38, l. n. 92 del 2012) giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro”. La questione che la ricorrente pone ora alla Corte è se la decorrenza di quest'ultimo termine inizi dalla spedizione dell'impugnazione stragiudiziale, oppure, come deciso dalla Corte d'appello, dallo scadere del termine di sessanta giorni di cui all'art. 6 cit. La questione deve essere risolta nel primo senso. La lettera della disposizione contenuta nell'art. 32, comma 1, cit., che commina l'inefficacia “dell'impugnazione” extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo. L'esigenza di celerità, intesa, come s'è detto, a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, porta a precisare che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell'atto».

La questione

La questione in esame è la seguente: il termine per l'impugnativa giudiziale del licenziamento (nonché, per effetto di appositi rinvii normativi, di altri atti indicati nell'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183) decorre dalla scadenza dei sessanta giorni concessi al lavoratore per l'impugnativa stragiudiziale (a prescindere dalla data di effettiva proposizione della stessa), dal momento di invio dell'atto che la contiene (come ha ritenuto la cassazione con la sentenza in esame) o, ancora, dalla data di ricezione dello stesso da parte del datore?

Le soluzioni giuridiche

Nell'inserire, all'interno del sistema, un secondo termine di decadenza per l'impugnativa giudiziale del licenziamento, finalizzato alla pronta instaurazione della controversia nell'interesse, soprattutto, del datore di lavoro (ma più in generale a garanzia della rapida definizione di vicende delicate e del connesso soddisfacimento di esigenze di certezza dei rapporti), il legislatore ha fatto ricorso all'espressione “L'impugnazione è inefficace se non è seguita (…)”, sottovalutando il fenomeno - generato da una nota pronuncia della Corte costituzionale, emessa in materia di notificazione degli atti processuali ma con attitudine ad essere esportata in ambito sostanziale, come dimostrato, poi, da varie sentenze della Suprema Corte - del perfezionamento anticipato, a determinati fini, degli atti unilaterali.

Attualmente, infatti, l'impugnativa stragiudiziale idonea ad impedire il primo termine di decadenza produce effetto, per l'autore, dal momento dell'invio (purché la predetta impugnativa giunga validamente a destinazione, secondo la regola della recettizietà ex art. 1334 c.c.); il momento di decorrenza del termine per il compimento dell'atto consequenziale, in difetto di precisazione del legislatore, potrebbe rivelarsi, in tal contesto, di dubbia identificazione.

Si sono consolidati, così, in passato, tre indirizzi: a) il termine decorre dall'invio dell'impugnativa stragiudiziale (per come affermato dalla sentenza in commento), anche sul rilievo che, nell'ambito di riferimento, non vi è ragione di ammettere che il lavoratore - a conoscenza del giorno esatto della spedizione dell'atto - possa di fatto aggiungere ai giorni previsti dalla legge per il deposito del ricorso il tempo (variabile caso per caso) intercorso tra la data di spedizione e quella di ricezione dell'impugnativa extragiudiziale; b) il termine decorre dalla ricezione dell'atto da parte del datore di lavoro, in quanto la dissociazione degli eventi per il soggetto mittente e destinatario dell'atto, introdotta in deroga al principio generale della recettizietà, può valere solo nel caso in cui venga in evidenza il diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un'esistenza libera e dignitosa ex art. 4 e 36 Cost. Pertanto, la regola dell'efficacia prodotta per effetto della mera spedizione dell'impugnativa extragiudiziale viene in considerazione solo allo scopo di impedire la decadenza, non a quello, diverso, di far decorrere il successivo termine per il deposito del ricorso (peraltro in danno del lavoratore); c) il termine decorre dalla scadenza secca dei sessanta giorni concessi per il compimento dell'impugnativa stragiudiziale, a prescindere dal momento in cui è stata in concreto esercitata la predetta impugnativa.

Osservazioni

La sentenza – che offre (definitiva, probabilmente) soluzione ad una questione di estremo rilievo, densa di implicazioni sul versante dell'accesso alla tutela concessa per il recupero del posto di lavoro illegittimamente venuto meno - è certamente condivisibile nella parte in cui respinge l'interpretazione della norma adottata nella sentenza cassata, in quanto non sorretta dal dato letterale né da una particolare esigenza o “ratio”.

Meno comprensibile appare la rapida motivazione di sostegno alla soluzione accolta, tutta incentrata sull'esigenza di celerità intesa a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto; infatti la stringente affermazione ha una sua plausibilità solo se riferita all'originario sistema, ove l'esistenza di un solo termine di decadenza esponeva il datore (non disposto ad agire, preventivamente, in mero accertamento) al possibile abuso del prestatore, riottoso ad adire il giudice in tempi brevi e a volte propenso a lucrare gratuite poste monetarie entro il termine prescrizionale.

Ma non l'ha certamente più nel quadro di un meccanismo in cui al trascorrere del tempo il legislatore ha posto severo (nonché doppio) argine; sicché la celerità, qui, si risolve in una contrazione temporale, a favore del datore, di tre o quattro giorni, tale essendo il lasso ordinariamente intercorrente tra la spedizione dell'impugnativa stragiudiziale e la sua ricezione; e, in ogni caso, l'ulteriore appendice temporale non determina alcuna incertezza del rapporto.

Anche l'argomento fondato sul dato letterale è discutibile. È necessario, infatti, sgombrare il campo dall'equivoco di fondo, che si annida nel dibattito, secondo cui l'efficacia impeditiva della decadenza, determinata dall'invio dell'atto, equivalga a perfezione dell'atto stesso; basti il rilievo che la sussistenza della predetta efficacia è condizionata dalla successiva ricezione dell'atto. E poiché l'acquisizione di efficacia determinata dalla spedizione è relativa, condizionata e finalizzata esclusivamente all'impedimento della decadenza, il momento della spedizione stessa non sembra poter costituire il punto di riferimento oggettivo per il compimento del secondo atto. Nel caso, la fattispecie, pur unitaria, contempla una successione (rectius: concatenazione) di atti consequenziali; e la regola generale, fondata su un'ovvia esigenza di certezza, è che il secondo possa essere adottato solo una volta che si sia perfezionato, in modo oggettivo, e ad ogni fine, il primo, secondo le regole ordinarie in tema di recettizietà.

Le considerazioni di cui sopra portano verosimilmente a concludere che allorché il legislatore ha stabilito che l'impugnazione stragiudiziale è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni (poi ridotto a centottanta dall'art. 1, comma 38, l. n. 92 del 2012), dal deposito del ricorso, ha dato per scontato che l'impugnativa giudiziale dovesse far seguito ad un atto perfetto secondo le consuete regole incentrate sul dato della cognizione (o conoscibilità). In buona sostanza il legislatore, con tutta probabilità, non ha puntualizzato nulla perché nulla vi era, in proposito, da puntualizzare.

L'indirizzo oggi convalidato, che sbarra l'accesso alla tutela giurisdizionale in numerosi casi, dà una scossa all'assetto normativo tradizionale - retto, in materia, dal principio di recettizietà - sul quale probabilmente si era fatto affidamento nel considerare quale momento di decorrenza del termine per il deposito del ricorso quello della ricezione dell'impugnativa stragiudiziale.

Fedeltà a tale assetto sembra, tuttavia, esser mantenuta in due sentenze (aventi ad oggetto impugnativa di licenziamento) della Suprema Corte (Cass. 23 aprile 2014, n. 9203 e Cass. 7 luglio 2014, n. 15434), ove, nella descrizione della scansione temporale dei fatti rilevanti ai fini dell'operatività della decadenza, si indicano proprio le date dell'intimazione del licenziamento, di ricezione dell'impugnativa stragiudiziale da parte del datore di lavoro e di deposito del ricorso.

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