Onere della prova sul superamento del limite massimo di contratti a termine stipulabili
13 Luglio 2015
Massima
L'onere della prova dell'osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e lavoratori assunti con un contratto a tempo determinato, fissato dalla contrattazione collettiva, è a carico del datore di lavoro, secondo quanto previsto dall'art. 3 l. 18 aprile 1962, n. 230 applicabile ratione temporis.
Il caso
La lavoratrice ricorrente giunge dinanzi alla Corte di cassazione dopo aver visto respinta sia in primo che in secondo grado l'impugnazione del contratto a tempo determinato stipulato con Poste Italiane s.p.a., nella vigenza della l. 18 aprile 1962, n. 230, per il periodo 13 giugno 2011-30 settembre 2001. La questione
La questione che la Corte di cassazione affronta, e la cui soluzione porta con sé l'assorbimento degli altri motivi di ricorso, riguarda la violazione da parte del datore di lavoro della clausola di contingentamento stabilita dalla contrattazione collettiva, secondo quanto disposto dall' art. 23 l. 28 febbraio 1987, n. 56, vigente all'epoca dei fatti. Tale previsione consentiva l'apposizione del termine al contratto di lavoro nelle ipotesi, ulteriori rispetto a quelle previste dall'art. 1 l. n. 230/1962, individuate dai contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nei quali veniva altresì fissato il numero percentuale di lavoratori che potevano essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero di lavoratori impegnati a tempo indeterminato.
Le soluzioni giuridiche
La soluzione assunta dalla Corte di cassazione non si discosta dalla posizione già adottata in precedenti decisioni con riferimento alla previgente normativa: il rispetto delle clausole di contingentamento stabilite nei contratti collettivi rappresenta una condizione per la legittima conclusione di un contratto di lavoro a termine, per cui in caso di controversia trova applicazione l'art. 3 l. n. 230/1962 a mente del quale “l'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro sia l'eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro” (cfr., fra le più recenti, Cass. 28 giugno 2011, n. 14284, Cass. 19 gennaio 2010, n. 839. In senso contrario v. l'isolata Cass. 11 dicembre 2002, n. 17674, la quale - senza richiamare l' art. 3 l. n. 230/1962 – ha affermato che, in applicazione dell'art. 2697 c.c., l'onere della prova del rispetto dei limiti percentuali incombe sul lavoratore che abbia posto a sostegno delle sue richieste l'illegittimità del contratto a termine). Una siffatta soluzione interpretativa era agevole considerato che nella vigenza della l. n. 230/1962 e della l. n. 56/1987 la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro al di fuori delle ipotesi previste in modo tassativo dall'art. 1 l. n. 230/1962 era limitata alle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva ed entro i limiti percentuali ivi necessariamente previsti. Il rispetto di tali limiti veniva, perciò, configurandosi come condizione di legittimità dell'apposizione del termine.
Infatti, in tale decreto la regola del riparto dell'onere probatorio contenuta nell'art. 3 l. n. 230/1962 non è stata riproposta, né è stata sostituita con un'altra previsione (salvo quanto previsto dal quarto comma dell'art. 2 che grava il datore di lavoro della prova dell'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'eventuale proroga del termine). Inoltre, è stato abrogato l' art. 23 l. 28 febbraio 1987, n. 56 e la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro è stata prevista – nella versione originaria del decreto - al ricorrere di una ragione tecnica organizzativa produttiva o sostitutiva, mentre l'art. 10 comma 7 – al netto di alcune ipotesi espressamente escluse - ha assegnato ai contratti collettivi nazionali stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative il potere di stabilire limiti percentuali alla stipulazione di contratti a tempo determinato. Anche nella vigenza delle regole del 2001, tuttavia, il rispetto della clausola di contingentamento fissata dal contratto collettivo applicato è stato inteso come condizione di legittimità dell'apposizione del termine, di modo che la relativa prova deve ritenersi addossata al datore di lavoro in applicazione della regola generale contenuta nell'art. 2697 c.c. In questo senso si è espressa la dottrina (cfr. L. Di Paola – I. Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, Giuffrè, 2011, p. 362), che – in assenza di pronunce giudiziali aventi ad oggetto casi regolati dal decreto legislativo del 2001 - ha ritenuto estensibile alla disciplina de qua l'interpretazione formatasi intorno all'art. art. 23 l. 28 febbraio 1987, n. 56 (ad esempio Cass. 3 marzo 2006, n. 4677 e Cass. 12 marzo 2009, n. 6010).
Quanto alla prima questione va detto che il settimo comma dell'art. 10 non chiarisce se la previsione della clausola di contingentamento da parte del contratto collettivo sia condizione essenziale per la conclusione di un contratto a termine. Gli argomenti di chi si è espresso per l'essenzialità della previsione di tetti massimi al ricorso al contratto a tempo determinato sono di natura letterale (la fissazione di un tetto massimo di contratti a termine è elemento essenziale della fattispecie, dal momento che il legislatore si preoccupa di indicare le ipotesi in cui tale elemento non è necessario) e di natura sistematica (l'avvenuta estensione delle ipotesi in cui è possibile l'apposizione del termine richiede come contrappeso, per evitare un abuso del ricorso a questa forma instabile di lavoro, la fissazione di limiti massimi al suo utilizzo). L'opinione avversa si fonda sulla considerazione che l'assenza di un'espressa sanzione per la mancata previsione di una clausola di contingentamento da parte del contratto collettivo, impedisca di ritenerla un elemento essenziale della fattispecie, per cui il datore di lavoro potrebbe comunque concludere un contratto a tempo determinato. Si tratta – a giudizio di chi scrive - della lettura preferibile, anche considerato che la regola in esame è collocata nell'articolo 10 rubricato “Esclusioni e discipline specifiche”, lontano - cioè - dall'art. 1 che indica i requisiti essenziali per la valida apposizione del termine.
Osservazioni
La questione del rispetto della percentuale massima di contratti a termine stipulabili dal datore di lavoro diviene centrale nel nuovo assetto della materia, fuoriuscito dal Decreto Poletti (d.l. 20 marzo 2014, n. 34 convertito con l. 16 maggio 2015, n. 78) e sostanzialmente recepito nel Codice dei contratti varato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri l'11 giugno scorso (d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in GU del 24 giugno 2015 n. 144, SO 34). In questa sua nuova veste, il contratto a tempo determinato è pressoché liberalizzato, non essendo più richiesto il ricorrere di una ragione giustificatrice che sorregga l'apposizione del termine. La garanzia che, in ossequio al principio di matrice europea ribadito nell'art. 1 del Codice dei contratti per cui “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”, il ricorso a questa tipologia di contratto non si tramuti in un abuso di lavoro non stabile è affidata oggi a due regole: la fissazione di una durata massima complessiva dei rapporti a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale (anche nell'ambito di somministrazioni di lavoro) compresi i periodi di interruzione (36 mesi) e la fissazione di un limite massimo di lavoratori a termine che il datore di lavoro può impiegare (il 20% del numero di lavoratori assunti a tempo indeterminato). Al mancato rispetto di questa percentuale (che peraltro non trova applicazione in alcune ipotesi previste dalla legge e che è derogabile – evidentemente anche in peius altrimenti il rinvio non sarebbe stato necessario - da parte della contrattazione collettiva) consegue per il datore di lavoro l'applicazione di una sanzione amministrativa (art. 23, comma 4, Codice dei contratti), mentre è espressamente esclusa la conversione del contratto in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per quanto concerne il riparto dell'onere della prova della legittimità del termine apposto al contratto, si deve ritenere che esso continui a ricadere sul datore di lavoro in applicazione della regola generale di cui all'art. 2697 c.c., e ciò sia con riguardo al superamento della durata massima dei trentasei mesi, sia con riguardo al superamento della percentuale massima di lavoratori assunti a tempo determinato, in quanto entrambi si configurano quali elementi essenziali della fattispecie. Alvino I., Autonomia collettiva e legge nella regolazione dei rapporti di lavoro a termine, in Del Punta R. – Romei R., I rapporti di lavoro a termine, Milano, Giuffrè, 2013, pp. 35 e ss.
Ciucciovino S., Il sistema normativo del lavoro temporaneo, Torino, Giappichelli, 2008
Di Paola – I. Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, Giuffrè, 2011
Menghini L., L'apposizione del termine, in Martone M. (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in Persiani M., Carinci F. (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Vol. IV, Tomo I, Padova, Cedam, p. 211 e ss.
Speziale V., La riforma del contratto a termine nella legge 28 giugno 2012, n.92, WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT, n. 153/2012 |