Cass.civ., sez. lavoro, 4 febbraio 2015, n. 2023, sent.
Il lavoratore che non rientra al lavoro a conclusione del periodo di malattia è sanzionabile a livello disciplinare, nonostante la comunicazione informale delle proprie precarie condizioni fisiche, prima, e l'invio del certificato medico, poi. Inoltre se, come nel caso di specie, non si tratta della prima sanzione disciplinare nell'anno l'azienda è legittimata al licenziamento del lavoratore
Assenza. A dare il ‘la' alla vicenda è l'«assenza ingiustificata» in azienda del lavoratore, una volta concluso il suo legittimo «periodo di malattia». Passaggio successivo è la «sanzione disciplinare» adottata dall'azienda – una «associazione assistenziale» –, che ufficializza la «sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, per quattro giorni», perché, come detto, il dipendente «alla scadenza del periodo di malattia, non aveva comunicato che non sarebbe tornato al lavoro». Ma a mettere in crisi l'uomo è l'ultima azione messa in pratica dall'azienda, ossia il «licenziamento per recidiva nella sanzione disciplinare, irrogata tre volte» nel corso del 2002.
Per i giudici di merito, nonostante le proteste del lavoratore, la linea seguita dall'azienda è assolutamente corretta. Indiscutibile, difatti, innanzitutto la «assenza ingiustificata» contestata al dipendente. Acclarate, poi, anche le precedenti due «sanzioni disciplinari», la prima «per smarrimento della chiavi di un armadio, affidate alla sua custodia» e la seconda «per non veritiera denunzia di un infortunio».
Licenziamento. Punto essenziale della questione è l'«assenza» priva di giustificazione attribuita al lavoratore. Quest'ultimo contesta, ovviamente, la visione dell'azienda, e la decisione dei giudici di merito, spiegando, col ricorso in Cassazione, di avere provveduto, all'epoca, all'«invio del certificato medico», sanando così, a suo dire, «ogni omissione circa la tempestiva comunicazione dello stato di malattia».
Chiaro l'obiettivo dell'uomo: vedere delegittimata la «sanzione disciplinare» relativa alla «assenza» post malattia, e, di conseguenza, crollato il ‘castello' che lo ha condotto al «licenziamento».
Di contrario avviso sono i giudici della Suprema Corte i quali, mostrando di condividere la linea di pensiero tracciata tra primo e secondo grado, ricordano, contratto alla mano, che «le assenze debbono essere segnalate, prima dell'inizio del turno di lavoro, alle persone o all'ufficio a tanto preposto dalla struttura sanitaria, giustificate immediatamente e, comunque, non oltre le ventiquattro ore, salvo legittimo e giustificato impedimento», e, comunque, «eguale comunicazione deve essere effettuata, prima dell'inizio del turno di servizio, anche nel caso di eventuale prosecuzione della malattia stessa». E tale visione è legata, evidenziano i giudici, anche alla «particolarità della funzione professionale degli assistenti»: difatti, «la tempestività della comunicazione è strettamente correlata alla necessità di trovare valide alternative di servizio, nel caso di improvvisa assenza degli addetti ai turni di assistenza».
Evidente, quindi, la gravità della condotta tenuta dal lavoratore.
A sostegno di questa valutazione, poi, anche la sottolineatura che «ove il contratto collettivo preveda che il lavoratore, che si assenta dal servizio per malattia, abbia l'obbligo di comunicare al datore di lavoro l'inizio della malattia, la omessa comunicazione vale ad integrare una infrazione suscettibile di sanzione disciplinare», essendo «irrilevante», concludono i giudici, il fatto che «il lavoratore abbia comunque inviato il certificato medico giustificativo dell'assenza».
Sanzione disciplinare non discutibile, quindi, e, allo stesso tempo, decisiva: essendo la terza in un anno, difatti, è legittimo, e definitivo, il «licenziamento» deciso dall'azienda.