La linea sottile fra licenziamento e dimissioni per giusta causa: un'importante pronuncia della CGUE

Sabrina Apa
11 Febbraio 2016

La Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di «licenziamento» di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della medesima Direttiva.
Massima

La Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di «licenziamento» di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della medesima Direttiva.

In altre parole, secondo la Corte, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, a seguito del rifiuto del lavoratore di acconsentire ad una consistente riduzione della retribuzione, imputabile alla modifica unilaterale disposta dal datore di lavoro per ragioni non inerenti la persona del lavoratore, integra un'ipotesi di licenziamento ai sensi della Direttiva sui licenziamenti collettivi.

Ne consegue che nel numero di licenziamenti oltre il quale si configura un licenziamento collettivo vanno ricomprese anche le dimissioni o le risoluzioni consensuali provocate da modifiche di elementi essenziali del rapporto di lavoro adottate dall'impresa per ragioni non inerenti la persona del lavoratore.

Per un approfondimento sui profili del computo dei lavori a tempo determinato nella soglia numerica per l'applicabilità della disciplina sul licenziamento collettivo, si veda il commento di De Luca e Biasi "Licenziamenti collettivi: computo dei lavoratori a tempo determinato"

Il caso

Un lavoratore spagnolo agisce in giudizio per far dichiarare l'illegittimità della risoluzione del rapporto, avvenuta a seguito del suo rifiuto di acconsentire ad una consistente riduzione salariale, disposta unilateralmente dal datore di lavoro per ragioni di ordine economico e produttivo.

Il tribunale spagnolo, chiamato a pronunciarsi sulla controversia, invoca la Corte di Giustizia al fine di chiarire la portata interpretativa dell'art. 1 della Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.

Nel caso di specie, la pronuncia della Corte si articola su tre profili.

In ordine alla prima questione, la Corte statuisce che ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della Direttiva 98/59 i lavoratori che beneficiano di un contratto concluso a tempo determinato o per un compito determinato devono essere considerati lavoratori «abitualmente» impiegati, ai sensi di detta disposizione, nello stabilimento interessato. Con riguardo alla seconda questione, la Corte stabilisce che, al fine di accertare l'esistenza di un licenziamento collettivo, la disposizione secondo la quale «i licenziamenti siano almeno cinque» deve essere interpretata nel senso che essa non riguarda le cessazioni di contratti di lavoro assimilate a un licenziamento, bensì esclusivamente i licenziamenti in senso stretto.

Di particolare interesse è la terza questione, con la quale il giudice del rinvio chiede alla Corte di Giustizia se la Direttiva 98/59/CE debba essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, rientri nella nozione di «licenziamento» di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della medesima Direttiva, oppure costituisca una cessazione del contratto di lavoro assimilabile a un siffatto licenziamento, a norma dell'articolo 1, paragrafo 1, secondo comma, di detta Direttiva.

Sebbene sia stato lo stesso lavoratore a chiedere la cessazione del contratto di lavoro, acconsentendo alla risoluzione consensuale, la Corte rileva che l'estinzione del rapporto di lavoro trova la sua origine nella decisione unilaterale del datore di apportare una modifica considerevole ad un elemento sostanziale del contratto di lavoro, la retribuzione, per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore.

Invero, alla luce della finalità della Direttiva 98/59/CE, volta al rafforzamento della tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, la nozione di «licenziamento» di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) di quest'ultima, non può essere interpretata restrittivamente (in tal senso, sentenza Balkaya, C-229/14).

Ne consegue che qualsiasi normativa nazionale o interpretazione di detta nozione che conduca a ritenere che, in una fattispecie come quella in oggetto, la risoluzione del contratto di lavoro non costituisca un «licenziamento», ai sensi della Direttiva 98/59/CE, altererebbe l'ambito di applicazione di detta Direttiva, privandola così della sua piena efficacia.

In altre parole, la Corte di Giustizia assimila le fattispecie delle dimissioni per giusta causa e del licenziamento a fronte di una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto, disposta unilateralmente dal datore di lavoro per ragioni non inerenti la persona del lavoratore, e pertanto conclude dichiarando che “la Direttiva 98/59/CE deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, rientra nella nozione di «licenziamento» di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della medesima Direttiva”.

La questione

La questione sottoposta alla Corte di Giustizia è di particolare rilievo perché consente un'analisi comparativa della soluzione indicata dalla Corte in relazione alla disciplina ed ai principi giurisprudenziali in tema di estinzione del rapporto di lavoro.

Nel caso in esame, la Corte assimila al licenziamento la cessazione del rapporto di lavoro nell'ipotesi in cui il lavoratore acconsenta alla risoluzione consensuale a fronte di una modifica di un elemento sostanziale del contratto di lavoro, apportata unilateralmente dal datore di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, statuendo che tale cessazione costituisce a tutti gli effetti un licenziamento.

Nel nostro ordinamento la fattispecie concreta sarebbe stata qualificata come un'ipotesi di dimissioni per giusta causa, piuttosto che come licenziamento, con le conseguenti differenze di tutela per il lavoratore.

La pronuncia della Corte, invece, è espressione sintomatica dell'affievolimento di quella linea sottile che delimita la figura delle dimissioni per giusta causa dal licenziamento, da cui discende non solo l'ampliamento della nozione di licenziamento, ma soprattutto una tutela rafforzata per il prestatore di lavoro.

In tal senso, giova preliminarmente sottolineare l'ampiezza che il concetto di licenziamento ha assunto ed assume nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Nel caso in esame la Corte analizza la nozione di licenziamento di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della Direttiva 98/59/CE e rileva che, nonostante manchi una definizione espressa di licenziamento, in considerazione dell'obiettivo perseguito dalla Direttiva medesima, si tratta di una nozione di diritto dell'Unione che non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri.

Secondo la Corte di Giustizia, nel caso di specie, tale nozione deve essere interpretata in modo da comprendere qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e, quindi, determinata in mancanza del suo consenso.

Già in una sentenza di condanna del Regno Unito del 1994 (

Corte

Giust

. 8.06.1994, causa C-383/92

) la Corte aveva dichiarato non conforme al diritto comunitario gli artt. 99 e 100 dell'Employment Protection Act, concernenti i licenziamenti economici, poiché escludevano dalla protezione i lavoratori licenziati a seguito di una ristrutturazione dell'impresa che non comportasse anche riduzione dell'attività d'impresa.

Ulteriore conferma dell'interpretazione del concetto di licenziamento da parte della Corte si può ricavare dalla causa C-55/02 del 12.10.2004 avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell'art. 226 CE, proposto dalla Commissione delle Comunità Europee contro il Portogallo, nel quale la Corte aveva avuto modo di affermare che lo Stato, limitando la nozione di licenziamento collettivo ai licenziamenti per ragioni di natura strutturale, tecnologica o congiunturale e non estendendo tale nozione ai licenziamenti per qualsiasi motivo non inerenti la persona del lavoratore, era venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi degli artt. 1 e 6 della Direttiva 98/59/CE.

Allo stesso modo, in un'altra fattispecie (Corte di Giust., 7.09.2006, cause riunite C-187/05 e C-190/05, Georgios Agorastoudis ed altri), la Corte aveva dichiarato che sono sempre assoggettati alla disciplina, che impone il rispetto della procedura di consultazione, i licenziamenti determinati da cessazione dell'attività aziendale frutto di scelte unilaterali del datore di lavoro.

Da queste pronunce si desume che la finalità del legislatore comunitario è quella di tutelare tutte le ipotesi di licenziamento collettivo più o meno celate sotto forme diverse di cessazione del rapporto di lavoro e, pertanto, la nozione di licenziamento usata dalla Direttiva deve essere tale da ricomprendere anche altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, che raggiungano, unitariamente, il numero minimo di cinque casi, fra le quali, a titolo esemplificativo, le dimissioni incentivate.

In questo senso, autorevole dottrina (Ferrante) ha sottolineato come il diritto comunitario “si disinteressa della qualificazione giuridica che sta dietro alla interruzione del rapporto di lavoro e guarda a questa come ad un dato della fenomenologia economica”.

Dunque, a fronte dell'ampia nozione di licenziamento accolta dalla Corte di Giustizia, il caso in esame rientra nell'alveo del licenziamento, vale a dire del recesso ad opera del datore di lavoro, e non già nella disciplina delle dimissioni per giusta causa ex

art. 2119 c.c.

, intese quale causa estintiva del rapporto di lavoro intervenute con atto unilaterale recettizio del lavoratore.

Le soluzioni giuridiche

Alla luce dell'interpretazione del concetto di licenziamento proposta dalla Corte di Giustizia, la modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, imposta dal datore di lavoro unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, si inquadra nella nozione di «licenziamento» di cui all'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della Direttiva 98/59/CE.

Nel caso in esame, la riduzione della retribuzione fissa del lavoratore è stata imposta unilateralmente dal datore di lavoro per ragioni di ordine economico e produttivo e ha condotto, a fronte della sua mancata accettazione, alla risoluzione del contratto di lavoro accompagnata dal versamento di un'indennità, calcolata sulla stessa base di quelle dovute in caso di licenziamento illegittimo.

È opportuno rilevare la diversa disciplina che regola la libertà di recesso delle parti del rapporto di lavoro: se il datore di lavoro può licenziare solo in presenza di una specifica giustificazione, il lavoratore può invece dimettersi liberamente, senza dover addurre alcun tipo di motivazione, purché rispetti il periodo di preavviso, ai sensi dell'

art. 2118 c.c.

Operano una deroga al sistema, i casi del lavoratore in prova che può recedere senza preavviso ex

art. 2096 c.c.

e del lavoratore che si dimette per giusta causa ex

art. 2119 c.c.

In particolare, in presenza di dimissioni per giusta causa, il lavoratore non solo non è tenuto a dare il preavviso, ma ha anche il diritto di ricevere l'indennità sostitutiva del preavviso. Questo regime giuridico si giustifica in ragione del fatto che il lavoratore che recede dal contratto di lavoro per giusta causa, cessando fin da subito di prestare la propria attività lavorativa, è motivato da una ragione così grave da non consentire neppure provvisoriamente la prosecuzione del rapporto lavorativo.

A tal proposito va evidenziato che talvolta parte della dottrina (Comito) ha assimilato le dimissioni per giusta causa ad un licenziamento indiretto, dando rilievo al fatto che le dimissioni per giusta causa costituiscono spesso una reazione del lavoratore ad un comportamento grave ed intollerabile posto in essere dal datore di lavoro.

Nello stesso senso, altra parte della dottrina (Brollo e Pera) equipara le dimissioni per giusta causa al licenziamento illegittimo, sottolineando che entrambe le ipotesi sono caratterizzate da un'unica causa, la colpa del datore di lavoro, e da un unico effetto, la perdita del posto di lavoro.

Tuttavia, deve segnalarsi che l'impostazione che assimila le dimissioni per giusta causa ad un licenziamento indiretto non è condivisa in modo unanime in dottrina, rimarcando che, pur a fronte di un fatto molto grave, il lavoratore ha comunque la possibilità di scegliere fra dimettersi ex

art. 2119 c.c.

o ricorrere ad altri mezzi di tutela di carattere conservativo.

Sul fronte giurisprudenziale, invece, mentre la Corte Costituzionale è giunta ad equiparare le dimissioni per giusta causa al licenziamento illegittimo ai fini dell'indennità di disoccupazione (

Corte

Cost

. n. 269/2002

), detta equiparazione è esclusa a fini risarcitori dalla giurisprudenza maggioritaria (

Cass

.

nn

.

13782/2001

e

13060/2003

).

Va segnalato che la giurisprudenza ritiene che il prestatore di lavoro dimessosi per giusta causa - a titolo esemplificativo, a seguito di mobbing - ha diritto al risarcimento del danno, oltre che all'indennità ex

art. 2119 c.c.

, potendo il danneggiato esperire cumulativamente l'azione di responsabilità contrattuale ex

art. 2087

e

1218 c.c.

, e quella per far valere la responsabilità extracontrattuale ex

artt. 2043

e

2049 c.c.

(

Cass

. n. 12445/2006

). Ne deriva che trovano applicazione le ordinarie norme in materia risarcitoria del danno, anche alla persona del lavoratore, con ciò che ne consegue in ordine al profilo probatorio ed ai criteri di quantificazione.

Ciò posto, la giurisprudenza, ferma la distinzione fra licenziamento e dimissioni per giusta causa, ritiene che la giusta causa di dimissioni non possa essere individuata in base ad una valutazione soggettiva del lavoratore, ma debba essere riconducibile alle vicende intercorse tra le parti del rapporto di lavoro, realizzandosi solo quando si è in presenza di un grave inadempimento contrattuale ovvero di una violazione di principi o di una lesione di diritti costituzionali nell'ambito del rapporto lavorativo. In tal senso, si pensi alle ipotesi di reiterato non pagamento della retribuzione, o mancato pagamento di una congrua parte della stessa, di mancato versamento dei contributi previdenziali, di molestie sul luogo di lavoro, di mobbing, di modificazioni peggiorative delle condizioni lavorative. In questi casi può osservarsi come le dimissioni per giusta causa vedano enormemente scemare il carattere della volontarietà che connota l'atto di recesso del lavoratore, ponendosi quasi quale conseguenza necessaria del comportamento datoriale.

D'altra parte, però, va rilevato come all'origine delle dimissioni per giusta causa possano altresì rinvenirsi cause sopravvenute diverse dall'inadempimento contrattuale, bensì attribuibili al solo lavoratore, quali, ad esempio, le esigenze di salute o familiari.

La stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, stante la netta scissione fra le ipotesi di licenziamento e di dimissioni per giusta causa, ritiene che queste ultime, non vadano considerate, neppure ai fini dell'applicabilità dei danni verso il datore di lavoro, come un licenziamento illegittimo o ingiustificato. In particolare, con sentenza

n. 13782 del 2001

, la Cassazione

ha affermato che, pur in presenza di dimissioni per giusta causa (es. molestie sessuali, comportamenti illeciti, ingiuriosi od illegali del datore di lavoro), non spetta al lavoratore, in relazione alla risoluzione del rapporto, alcun risarcimento ulteriore rispetto all'indennità di preavviso che compete ex

art. 2119 c.c.

Dunque, per il susseguente stato di disoccupazione il lavoratore dimissionario non ha diritto ad un risarcimento del danno ex

art. 1453 c.c.

perché, se è vero che nei contratti a prestazioni corrispettive è ammissibile la richiesta di risarcimento del danno, è altresì vero che il contratto di lavoro ha una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella prevista dall'

art. 1453 c.c.

Ne deriva che il danno che scaturisce dalla risoluzione del rapporto di lavoro per inadempimento del datore di lavoro è determinato dal legislatore con la corresponsione di una indennità pari a quella di preavviso, restando salvo solo il diritto al risarcimento per tutti i danni eventualmente verificatisi ma diversi dalla risoluzione anticipata del rapporto.

Osservazioni

A conclusione della disamina del caso, sembra opportuno fare qualche considerazione in merito alla linea interpretativa seguita dalla Corte di Giustizia, vale a dire l'assimilazione delle dimissioni per giusta causa al licenziamento a fronte di una modifica unilaterale del datore di lavoro ad uno degli elementi essenziali del contratto di lavoro, la retribuzione, per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore.

In particolare, in senso favorevole ad una linea di demarcazione meno netta fra dimissioni per giusta causa e licenziamento, sembra porsi non solo una parte della dottrina, ma anche una risalente giurisprudenza (

Cass

. n. 1021/1998

). Invero, in merito ad un'ipotesi di dimissioni procurate da un comportamento del datore di lavoro, la Cassazione ha messo in luce come la risoluzione del rapporto di lavoro avesse avuto quale causa remota il comportamento datoriale e come causa prossima le dimissioni ex

art. 2119 c.c.

del dipendente, evidenziando il problema nella determinazione della scelta, tra il disvalore obiettivo della situazione creata dal datore di lavoro e la valutazione soggettiva del lavoratore. Così argomentando, la Cassazione accoglieva il ricorso del lavoratore concernente il suo diritto al risarcimento del danno derivatogli dalle dimissioni, affermando che in materia deve ravvisarsi un nesso causale fra l'inadempienza del datore di lavoro e lo scioglimento del contratto, in base al principio "causa causae est causa causati”.

Tale pronuncia ha il pregio di suscitare la riflessione su quale sia il vero motore delle dimissioni per giusta causa. Nei casi di inadempimento datoriale dovuti a molestie sessuali (

Cass

. n. 7380/1997

), mobbing (

Cass

. n.

31413/2006

), mancato pagamento della retribuzione (

Cass

. n. 1021/1998

), peggioramento delle condizioni lavorative, violazione degli obblighi di tutela dell'ambiente di lavoro e della sicurezza dei lavoratori (

Cass

. n.

12445/2006

), la causa primaria della risoluzione del rapporto di lavoro va rintracciata esclusivamente nel comportamento datoriale che di fatto pone il lavoratore in condizioni di dover recedere da un rapporto di lavoro, la cui prosecuzione è divenuta ormai intollerabile.

Si tratta infatti di situazioni, caratterizzate da obiettiva gravità, incidenti non solo sulla corretta esecuzione del contratto di lavoro, ma altresì sulla persona del prestatore di lavoro, leso nel rispetto del suo diritto alla personalità fisica e morale; in una parola, nella dignità, quale valore costituzionalmente tutelato.

Ne consegue che in casi del genere può osservarsi come le dimissioni per giusta causa, quali ultimo atto di un rapporto lavorativo oramai lacerato, vedano enormemente scemare il carattere della volontarietà che connota il recesso del lavoratore, configurandosi quale conseguenza necessaria del comportamento datoriale.

Non stupisce allora l'assimilazione operata dalla Corte di Giustizia fra le ipotesi di dimissioni per giusta causa e licenziamento, attraverso la quale si ristabilisce la giusta valenza del nesso causale fra l'inadempimento datoriale e l'atto di recesso del lavoratore dimessosi per giusta causa.

Riferimenti bibliografici

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Cass

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, Sugli effetti delle dimissioni per giusta causa, in Riv. it. Dir. lav., 2002, II, p. 597.

M. Del Conte, Le dimissioni e la risoluzione consensuale nel contratto di lavoro, Milano, 2012, p. 71 ss.