Il whistleblowing in Italia tra profili lavoristici e privacy del dipendente

13 Aprile 2017

Il whistleblowing, istituto di derivazione anglosassone e previsto per le società quotate americane dal Serbanes-Oxley Act del 2002, ha trovato nel tempo applicazione anche nel nostro ordinamento attraverso l'implementazione di procedure finalizzate ad accertare e sanzionare gli illeciti compiuti dai dipendenti. Il whistleblowing pone tuttavia dei problemi, sia dal punto di vista puramente giuslavoristico, che da quello della tutela della privacy. Solo per il lavoro pubblico, con la Legge anticorruzione n. 190/2012, il legislatore ha inteso normare questo istituto.
Definizione e origine

Per whistleblowing si intente la denuncia o la rivelazione, all'interno di una società, di fatti o comportamenti illegali realizzati da altri dipendenti dell'azienda.

Si tratta di un istituto di derivazione dagli ordinamenti di common law, che disciplinano non solo la denuncia, ma anche la procedura sottesa alla realizzazione, nonché le conseguenze per il denunciante, soprattutto dal punto di vista della tutela da assicurargli contro possibili azioni di contrasto da parte del denunciato.

Dal punto di vista del diritto italiano, tale istituto coinvolge due profili fondamenti: quello della tutela della privacy del soggetto denunciato, in quanto la denuncia comporta il trattamento di dati, anche sensibili, e quello della giuslavoristico della conformità del sistema di denuncia alla normativa di settore.

La Serbanes-Oxley Act 2002 (c.d. “SOX”)

La normativa statunitense che ha introdotto il sistema di whistleblowing è la Serbanes-Oxley Act 2002 (c.d. “SOX”), che trova applicazione a tutte le società operanti nel mercato azionario americano.

Questa normativa trova applicazione non solo alle società americane quotate in USA, ma anche a tutte le loro filiali mondiali ed anche alle società straniere che vogliano comunque quotarsi in USA.

Ciò comporta una evidente efficacia extraterritoriale della normativa americana.

Secondo la Section 806 della SOX, nessuna società quotata o suo dirigente, dipendente o agente, può minacciare, licenziare, sospendere dal suo incarico o in qualsiasi caso discriminare, nello svolgimento del suo incarico, a causa del comportamento del dipendente che abbia:

  1. fornito informazioni in investigazioni relative a comportamenti in violazione della legge in materia di frode agli azionisti, purché l'informazione sia stata fornita (o l'investigazione sia stata proposta) da un'agenzia federale, da un membro del Congresso degli Stati Uniti, da un superiore gerarchico del dipendente con avente la funzione di indagare e colpire violazioni della normativa perpetrate all'interno della società;
  2. agito giudizialmente o testimoniato in casi ove si sostenga la violazione delle normative in materia di frode degli azionisti.

La SOX prevede che, in caso di violazione della suddetta norma di tutela, il dipendente avrà diritto di ottenere dal giudice la reintegra, con mantenimento della medesima anzianità che avrebbe maturato in assenza della discriminazione, il pagamento delle retribuzioni arretrate maggiorate degli interessi ed il risarcimento del maggior danno causato dalla discriminazione.

Per quanto attiene al campo di applicazione della normativa americana, sebbene non si parli espressamente della inclusione delle filiali straniere delle società quotate USA, la SOX non esclude neppure in maniere esplicita le branch dal campo di applicazione della norma.

Sul punto, si sono osservati, da parte della giurisprudenza americana, orientamenti difformi (per tutti, in senso contrario all'estensione, Carnero contro Boston Scientific Corp. del 2004 e, in senso favorevole, D'Agostino contro J&J del 1993.

Alla luce di quanto sopra, numerose società multinazionali statunitensi presenti con delle filiali nel territorio nazionale hanno inteso applicare la normativa in materia di whistleblowing anche in Italia, favorendo nel tempo lo sviluppo di un nuovo fenomeno che necessita di inquadramento sia dal punto di vista del diritto della privacy che da quello del diritto del lavoro.

Profili giuslavoristici

Qualora un dipendente denunci, attraverso il sistema del whistleblowing, un comportamento disciplinarmente rilevante di un proprio collega, occorre valutare sotto il profilo giuslavoristico, il potere-dovere del datore di lavoro di perseguire una condotta che sia lesiva dell'integrità psicofisica di un proprio dipendente ovvero di un interesse aziendale attraverso l'esercizio del potere disciplinare.

Il rilievo giuslavoristico emerge per le violazioni da parte del dipendente degli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., in materia rispettivamente di diligenza e obbedienza alle disposizioni del datore di lavoro e di fedeltà.

L'art. 2087 c.c., inoltre, impone al datore di lavoro di assicurare ai propri dipendenti la salubrità dell'ambiente di lavoro, sia in senso fisico (integrità fisica), che in senso morale (personalità morale).

Ciò significa che, qualora un comportamento di un dipendente possa ledere un altro dipendente sotto il profilo psicologico o morale (si pensi a fenomeni quali il mobbing), il datore di lavoro è tenuto ad intervenire per rimuovere il comportamento pregiudizievole e sanzionare il responsabile.

La norma in questione introduce un contenuto precettivo volutamente non dettagliato in quanto si pone come norma c.d. in bianco, al fine di permettere, attraverso una interpretazione libera, un continuo processo di adeguamento della norma alla realtà fattuale concreta, assurgendo al ruolo di norma di chiusura dell'ordinamento in materia di infortuni sul lavoro.

Proprio per il suo contenuto in bianco, l'art. 2087 c.c. è stato utilizzato per imporre un obbligo di tutela da parte del datore di lavoro rispetto a tutti i propri dipendenti contro qualsiasi tipologia di rischio creato da terzi ma anche da altri dipendenti, ivi compreso il mobbing e le molestie sessuali.

Per quanto attiene il profilo pratico, come noto, in Italia ogni comportamento disciplinarmente rilevante deve essere contestato al presunto autore, assicurando le garanzie di cui all'art. 7 St. Lav.

In altri termini, in caso di whistleblowing il soggetto denunciato deve essere posto nelle condizioni non solo di conoscere in maniera dettagliata il comportamento contestatogli, ma anche di difendersi dalle accuse, eventualmente conoscendo anche il nome dell'accusatore.

Sotto questo profilo, la normativa SOX potrebbe apparire non “importabile” direttamente in Italia, in quanto uno dei principi cardine su cui si basa è quello dell'anonimato del denunciante.


Ebbene, nelle applicazioni pratiche delle cc.dd. whistleblowing policies, si è osservato come la rivelazione del nome del denunciante sia stata evitata con la descrizione puntuale delle condotte denunciate: una descrizione completa dei fatti, senza che vi sia la rivelazione della fonte dell'informazione.

Altro profilo interessante è quello rappresentato dall'accertamento della mendacità della denuncia. In altri termini, cosa accade se, una volta avviata la procedura di whistleblowing, la denuncia si rivelasse non fondata ed i fatti denunciati inventati o comunque non veritieri?

Ebbene in questo caso la procedura di contestazione disciplinare deve essere attivata dal datore di lavoro nei confronti del denunciante, per accertare il livello di consapevolezza della non veridicità della denuncia e per sanzionare l'abuso dello strumento del whistleblowing.

Particolare rilevanza in questo caso assume l'intenzionalità della condotta del lavoratore, ovvero quando sia accertato che il denunciante abbia agito con la consapevolezza che il denunciato non avesse compiuto alcuna violazione.

In tale ipotesi, si potrebbe determinare, a seconda del grado di volontarietà della condotta offensiva, una lesione del vincolo fiduciario tale da giustificare anche la risoluzione del rapporto di lavoro con il denunciante, essendo altresì legittimato il soggetto illegittimamente denunciato a tutelarsi nei confronti del whistleblower, in quanto non esistono limiti da parte del datore di lavoro di rivelare al denunciato il nominativo del soggetto denunciate al fine di tutelare i propri diritti in sede penale.

La normativa in materia di privacy, come si vedrà meglio nel paragrafo che segue, prevede un'esclusione della necessità del consenso dell'interessato in caso di trattamenti di dati personali aventi la finalità di tutelare un proprio diritto in giudizio.

Sul punto, si è pronunciata una sentenza della Cassazione, secondo cui “non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendete reso noto all'autorità giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda in cui lavora né l'averlo fatto senza avere previamente informato i superiori gerarchici sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell'esposto” (Cass. sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501).

Inoltre “se l'azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all'autorità giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale: diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti, ma impliciti, riconoscimenti di una sorta di dovere di omertà che ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento”.

Al fine di privare il whistleblower della libertà di denunciare comportamenti illeciti, dunque, il datore di lavoro deve indagare il requisito psicologico della volontarietà della denuncia infondata, essendo sanzionabile unicamente il soggetto per il quale sia dimostrato l'intento calunnioso della denuncia.

Profili privacy

La raccolta di dati personali conseguenti ad una denuncia di whistleblowing rappresenta certamente un'ipotesi di trattamento, ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. n. 196/2003, presso un soggetto diverso dall'interessato.

Si pone, tuttavia, vista la natura dell'istituto e della opportunità di evitare che il denunciato abbia notizia del contenuto della denuncia e dei dati trattati, quantomeno nella fase istruttoria successiva alla denuncia da parte del whistleblower, la necessità di verificare come affrontare due pilastri della normativa privacy, ovvero:

(i) l'obbligo di informativa ex art. 13, D.Lgs. n. 196/2003;

(ii) il consenso dell'accusato.

Per quanto riguarda il punto sub (i), l'art. 13, comma 4, stabilisce che l'informativa sul trattamento dei dati deve essere assicurata all'interessato “all'atto della registrazione dei dati o, quando è prevista la loro comunicazione, non oltre la prima comunicazione”.

Sulla base di questa previsione, si può ritenere che il datore di lavoro che riceva da un whistleblower un'informazione in merito ad un comportamento illecito compiuto da un altro dipendente non è tenuto a fornire all'interessato una informativa fino al momento in cui i relativi dati non vengano comunicati ad un soggetto interno. In altri termini, la prima notizia ricevuta in merito ad un certo contegno illecito non fa nascere un obbligo diretto di informativa fintanto che la notizia viene valutata dal solo datore di lavoro e non viene trasmessa ad altri soggetti.

In ogni caso, il successivo comma 5 dello stesso art. 13 introduce due esimenti molto rilevanti, stabilendo che non sussiste obbligo di informativa

(i) quando i dati sono trattati “in base ad un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria” (lettera a);

(ii) “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”.

Sulla scorta di questi esimenti, quando un datore di lavoro compia un trattamento di dati personali forniti da un whistleblower ai fini dell'adempimento di un obbligo previsto dalla legge (si pensi al citato art. 2087 c.c. in materia di salute e sicurezza dell'ambiente di lavoro, ovvero dell'adempimento alla normativa americana SOX), ovvero per far valere un diritto in sede giudiziaria (ad esempio per la violazione degli obblighi di fedeltà ed obbedienza, ovvero per ottenere un risarcimento danni) non deve fornire al dipendente accusato alcuna informativa, con ciò impedendosi che sia vanificata la riservatezza del dato fornito dal whistleblower.

Sotto altro profilo, per quanto riguarda il consenso del dipendente interessato, la previsione dell'art. 24, comma 1, permette di affermare che non è richiesto il consenso:

(a) “quando il trattamento è necessario per adempiere ad un obbligo imposto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria” (lettera a);

(b) “nei casi individuati dal Garante sulla base dei principi sanciti dalla legge, per perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo destinatario dei dati, anche in riferimento all'attività di gruppi bancari e di società controllate o collegate, qualora non prevalgano i diritti e le libertà fondamentali, la dignità o un legittimo interesse dell'interessato” (lettera g).

Sulla base di quanto previsto al paragrafo precedente sub (a), analogamente all'ipotesi dell'informativa, nei casi in cui il trattamento dei dati personali forniti dal whistleblower derivi dall'adempimento di un obbligo normativo, il consenso dell'interessato non è richiesto.

Per quanto concerne l'ipotesi sub (b), invece, il Gruppo dei Garanti Europei si è espresso nel senso di ritenere l'implementazione di un sistema aziendale di whistleblowing un legittimo interesse del datore di lavoro che, come tale, in un'ottica di bilanciamento deve prevalere sull'interesse del lavoratore di esprimere il proprio consenso rispetto al trattamento dei dati nel rispetto delle finalità previste dalla normativa.

In sintesi, si può affermare che non è necessario il consenso dell'accusato per trattare le informazioni riferite da un whistleblower quando il datore agisce nel perseguimento di un proprio legittimo interesse (quale quello di sanzionare delle condotte illecite sotteso all'introduzione di un sistema aziendale di whistleblowing), ovvero qualora voglia far valere un proprio diritto in sede giudiziaria

Il whistleblowing nel pubblico impiego

Il nostro ordinamento ha previsto l'introduzione del whistleblowing limitatamente al pubblico impiego con la Legge anticorruzione n. 190/2012.

L'art. 54-bis, Decreto Legislativo n. 165/2001 ha previsto infatti che il pubblico dipendente che denunci comportamenti illeciti all'interno dell'amministrazione, al di fuori dal caso di calunnia o diffamazione, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria” per motivi collegati alla denuncia.

Si tratta di una tutela generale ed astratta nell'interesse oggettivo dell'ordinamento per l'emersione dei fenomeni di corruzione e mala gestio.

L'ANAC ha espressamente previsto che non è necessario che il dipendente sia certo dell'effettivo avvenimento di fatti denunciati e dell'autore degli stessi, essendo invece sufficiente che il dipendente ritenga, sulla base delle proprie conoscenze, altamente probabile che si sia verificato un fatto illecito.

L'unico caso in cui il whistleblower non può essere ritenuto meritevole di tutela è quello in cui il denunciante sia riconosciuto colpevole di calunnia o diffamazione, proprio in ragione del perseguimento dell'interesse oggettivo dell'ordinamento.

Conclusioni

Il whistleblowing rappresenta sicuramente un elemento di novità e di apertura del nostro ordinamento verso la promozione della legalità nel lavoro pubblico e privato.

Tuttavia, nelle prime applicazioni pratiche che sono state osservate, si è potuto riscontrare come tale strumento sia stato utilizzato in maniera non conforme, se non addirittura in alcuni casi deviata, ovvero per compiere vendette personali all'interno delle aziende e non nel perseguimento del superiore interesse della trasparenza e del rispetto delle leggi.

In ogni caso, occorrerà vigilare affinché la sempre più massiccia introduzione di strumenti di whistleblowing sia altresì accompagnata dallo sviluppo della cultura delle legalità nel nostro ordinamento, meglio comprendendo le potenzialità di uno strumento che rischia di essere usato in maniera opposta rispetto al fine della legalità cui dovrebbe essere in realtà orientato.

Studio Legale Quorum

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