Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo in presenza di una mera svista del lavoratore

12 Febbraio 2015

Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento una mera svista commessa dal lavoratore nell'espletamento delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi.
Massima

Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento una mera svista commessa dal lavoratore nell'espletamento delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi.

È nulla per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, la contestazione disciplinare che addebiti al dipendente un generale atteggiamento di noncuranza delle ordinarie regole collaborative senza ulteriore specificazione delle circostanze in cui tale condotta si sarebbe estrinsecata.

Il caso

Un Istituto Bancario licenziava un proprio cassiere per aver questi, a seguito di un errore di digitazione del numero di c/c, contabilizzato l'addebito relativo ad una operazione di prelievo di danaro contante di un correntista sul c/c di un altro e per aver avuto un comportamento d'insieme indolente rispetto alle comuni norme di collaborazione.
Il Tribunale adito a seguito dell'impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore, rigettava il ricorso e la Corte d'Appello, successivamente adita, respingeva il gravame.
Avverso la sentenza della Corte Territoriale, veniva proposto ricorso per Cassazione che lo accoglieva cassando con rinvio ad altra Corte d'Appello.

La questione

I temi d'interesse affrontati nella sentenza, con ragionamento unitario, riguardano la legittimità o meno del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo intimato per una svista colposa del lavoratore seguita da un suo comportamento elusivo rispetto alla normale collaborazione e, se in assenza di danni all'istituto di credito e al correntista per essere stato l'errore subito emendato, la sanzione espulsiva sia da considerarsi proporzionata alla singola condotta colposa.
I Giudici della Suprema Corte hanno accolto il ricorso, dopo aver svolto un'interessante premessa volta ad affermare la possibilità, per il Giudice di legittimità, di verificare l'attività valutativa del Giudice di merito nell'applicare norme elastiche, quali sono quelle sui licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo: quando un giudizio in apparenza di fatto si risolve in un giudizio di valore che, in quanto tale, deve essere ossequioso dei criteri e dei principi (anche costituzionali) che informano l'ordinamento, si è in presenza di un'interpretazione di diritto che rientra, pertanto, nell'attività nomofilattica della Corte Suprema.

Le soluzioni giuridiche

Un licenziamento disciplinare, afferma la Corte, per essere legittimo deve trovare la sua giustificazione in fatti così gravi da ledere in maniera insanabile il vincolo fiduciario; ed in quest'ottica bisogna avere cura di valutare la vicenda in relazione alle mansioni del dipendente ed al grado di affidamento che esse richiedono, all'intensità dell'elemento psicologico e al danno eventualmente prodotto.
Principi, questi, disattesi dalla Corte Territoriale allorché, nel valutare la proporzionalità della sanzione applicata rispetto all'illecito contestato, si è limitata a considerare solo il grado di affidamento richiesto dalle mansioni di cassiere alla luce dei precedenti disciplinari senza tener conto, come avrebbe dovuto, dell'assenza di danno sia in capo all'istituto bancario, sia in capo al correntista cliente, delle circostanze che hanno determinato l'accadimento e della natura e del grado dell'elemento psicologico.
Ritenere corretto il teorema della Corte d'Appello, chiosano i Giudici di Piazza Cavour, significherebbe ammettere che qualsiasi svista o lapsus di un cassiere di banca possa dar luogo ad un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo trasformando così, in maniera inammissibile, ogni errore nello svolgimento della mansione in una “sorta di oggettivo e predeterminato criterio di applicazione della sanzione espulsiva”.
Chiariscono i Giudici Romani che la mera svista d'un cassiere nel digitare sulla tastiera del computer il numero di c/c del cliente cui addebitare l'operazione di prelievo o l'equivoco sulla corrispondenza tra la persona che effettua il prelievo contanti e il numero di c/c sul quale effettuare l'addebito, altro non è che un lapsus che in quanto tale, “consiste in una pura e semplice difformità tra un movimento, un'azione o un'affermazione elaborata a livello psichico e la sua concretizzazione motoria o verbale, difformità riconducitele alla sfera del controllo degli impulsi nervosi e/o dell'inconscio piuttosto che alla colpa propriamente intesa in senso disciplinare/giuslavoristico e che non mette in discussione neppure le competenze esigibili nei confronti del lavoratore adibito a determinate mansioni”.
Il mero lapsus, dunque, non può essere considerato un indice di colpa cosicché si rende indispensabile l'esame dell'elemento soggettivo della condotta addebitata come illecito disciplinare che, afferma la Corte, in nessun caso, può essere sostituita dal rinvio all'ulteriore addebito di aver mantenuto un "complessivo atteggiamento di completa noncuranza delle ordinarie regole collaborative", in quanto, priva di ogni ulteriore precisazione al riguardo, trattasi di una contestazione caratterizzata da manifesta genericità e, quindi, nulla per violazione dell' art. 7 L. 300/1970.
Riguardo alla valenza attribuita dalla Corte d'Appello ai precedenti disciplinari, la Corte Suprema, nel censurare la decisione anche su tale punto, osserva che di certo non possono costituire un'autonoma causa di licenziamento poiché ammettere tale principio porterebbe al paradosso di elevarli ad autonoma causa di licenziamento, con sostanziale inammissibile duplicazione della sanzione irrogata all'epoca.

Osservazioni

Il Collegio giudicante nella parte motiva della sentenza in esame, obiter dictum, ha ritenuto di dover preliminarmente affermare la possibilità per il Giudice di legittimità di verificare l'attività valutativa del Giudice di merito nell'applicare norme elastiche in cui rientrano quelle disciplinanti il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo (soggettivo) facendo propria la nozione "oggettiva" di giusta causa secondo cui costituiscono giusta causa di licenziamento anche quei comportamenti del lavoratore che non configurano un inadempimento contrattuale ma che fanno comunque venire meno il vincolo fiduciario sottostante alla base del rapporto.
In quest'ambito speculativo, va annotato, la giusta causa si caratterizza come nozione etico-sociale oltre che legale e, dunque, come norma elastica in quanto rientra nell'alveo delle c.d. clausole generali a contenuto assiologico variabile che, per la loro genericità e limitatezza, necessitano di essere specificate “mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama”(Cass. Sez. lavoro, 22 agosto 2002, n. 12414).
Posizione, questa, però non univoca.
Alla teoria oggettiva, infatti, si contrappone quella c.d. "contrattuale" che scorge nella giusta causa solo un grave inadempimento contrattuale “colpevole”, escludendo che vicende esterne al rapporto di lavoro possano legittimare un licenziamento.
Parte della dottrina, inoltre, considera l'elemento fiduciario elemento essenziale del rapporto di lavoro solo in quei casi in cui sussiste effettivamente l'intuitus personae per cui esclude possa parlarsi di lesione della fiducia in tutti quei rapporti in cui l'intuitus personae è solo marginale. È emersa, dunque, un'idea definitoria della fiducia “oggettiva” che si identifica nell'affidamento che il datore di lavoro può continuare ad avere sull'esattezza della prestazione del lavoratore.
I Giudici di Cassazione, poi, condividendo un pensiero sostanzialmente univoco in giurisprudenza, nell'affrontare il tema della proporzionalità tra sanzione irrogata e fatto contestato, in coerenza con le premesse, affermano che affinché un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo sia lecito è necessario che rappresenti una grave violazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, segnatamente, del vincolo fiduciario tenendo conto delle mansioni del dipendente, del grado di affidamento che esse richiedono, dell'intensità dell'elemento psicologico e del danno eventualmente prodotto (conforme, Cass. Sez. lavoro, 26 novembre 2014, n. 25162).
Possiamo dire, quindi, che il giudizio di proporzionalità deve concretizzarsi in una comparazione tra la gravità dell'inadempimento del lavoratore e la sanzione applicata all'esito dell'esame della condotta del lavoratore tenendo conto dei parametri sopra indicati vagliati in una proiezione futura di affidabilità dei comportamenti (Cass. Sez. lavoro, 18 settembre 2014, n. 19684).
In quest'ambito l'elemento del danno merita un maggiore approfondimento.
Parte della giurisprudenza è orientata nel ritenere che ai fini di qualificazione di un licenziamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo sia irrilevante il danno che possa derivare o sia effettivamente derivato dal comportamento del lavoratore al datore di lavoro privilegiando, invece, la ripercussione che esso ha avuto sull'elemento fiduciario e sulla futura di affidabilità del lavoratore nell'esecuzione della mansione.
La sentenza in commento, però, sul punto, in maniera condivisibile, ha censurato la Corte d'Appello perché nel suo giudizio di proporzionalità ha considerato solo il grado di affidamento richiesto dalle mansioni di cassiere alla luce dei precedenti disciplinari senza tener conto, come avrebbe dovuto, dell'assenza di danno per tutte le parti con ciò mitigando quell'orientamento che pone una maggiore rigidità valutativa per il settore bancario a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo.
Sul "complessivo atteggiamento di completa noncuranza delle ordinarie regole collaborative" solo poche battute dirette ad evidenziare come la contestazione debba essere specifica per consentire al lavoratore di sviluppare idonea difesa sui fatti a lui addebitati; ed in quest'ambito la recidiva assume valenza solo nell'ipotesi in cui questa sia elemento costitutivo dell'illecito; e, tanto, a pena di nullità del successivo licenziamento (Cass. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23924 e Cass. civ. Sez. Lav., 11 novembre 1988, n. 6098).
Nel caso che ci occupa in assenza di qualsivoglia riferimento al numero, alla natura ed all'epoca delle precedenti infrazioni addebitate al lavoratore, in maniera apprezzabile i Giudici della Suprema Corte hanno escluso la recidiva dagli elementi valutativi la gravità dell'infrazione chiosando, peraltro, che essi rappresentano solo uno dei parametri di valutazione della gravità dell'illecito.

Guida all'approfondimento

-

G. Amoroso -V. Di Cerbo - A.Maresca, Diritto del lavoro, Giuffré, 2014, vol. II, IV ed., 1366 ss..

- M. V. Ballestrero, in “Commentario del Codice Civile” diretto da E. Gabrielli, Utet, 2013, 41.

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