Nessuna salvezza per il lavoratore che, abusando dell’auto aziendale, sia irreperibile durante la malattia
05 Febbraio 2015
Cass.civ., sez. lavoro, 13 gennaio 2015, n. 344
L'abuso palese del benefit dell'autovettura, utilizzata in modo abnorme e per lunghe percorrenze durante il periodo di sospensione del rapporto di lavoro per malattia, rendendo impossibili i controlli che il datore di lavoro avrebbe potuto chiedere, è configurabile come inadempimento degli obblighi contrattuali di buona fede e correttezza, integrando giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 344/15, depositata il 13 gennaio. Il caso. Dopo la pronuncia del Tribunale di Milano, circa l'illegittimità del licenziamento per giusta causa, intimato ad un lavoratore per essersi sottratto dalla reperibilità durante il periodo di malattia e per l'utilizzo spropositato del benefit dell'auto da parte del coniuge, con conseguente reintegrazione e condanna al pagamento delle retribuzioni dovute, la Corte d'appello ha riformato la sentenza. I giudici del secondo grado di giudizio ritenevano infatti che il comportamento del lavoratore fosse qualificabile quale giustificato motivo soggettivo di risoluzione del contratto da parte del datore di lavoro, convertendo, secondo tale definizione, la giusta causa del licenziamento. Sulla base della riqualificazione della causa di risoluzione del rapporto di lavoro, la Corte condannava il datore di lavoro al pagamento dell'indennità per mancato preavviso e il lavoratore alla restituzione delle somme percepite a titolo retributivo fino alla reintegra nel posto di lavoro. Il lavoratore ricorre per la cassazione della sentenza. Il comportamento del lavoratore integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento? Il ricorrente lamenta il fondamento della decisione dei giudici di merito, ritenendo che l'assenza dalla propria abitazione per lunghi periodi di tempo durante la sospensione del rapporto per malattia e l'utilizzo dell'auto da parte del coniuge, non siano mai stati rilevati dal datore di lavoro, neppure con la contestazione disciplinare ricevuta prima del licenziamento. Lamenta dunque il vizio circa la stessa sussistenza del giustificato motivo soggettivo ritenuto in fatto, affermando che la sua assenza da casa durante i periodi di reperibilità non ha concretamente impedito le visite di controllo, di cui il datore di lavoro non ha neppure fatto richiesta. Inoltre la diretta deduzione del giustificato motivo di licenziamento dal mero uso promiscuo dell'auto aziendale, uso comunque consentito, appare, sempre secondo le deduzioni del ricorrente, conclusione illogica e ingiustificata. La parola della Cassazione. I motivi così prospettati dal ricorrente vengono censurati per infondatezza da parte della Cassazione. L'apprezzamento dei giudici di legittimità considera la motivazione dei giudici dell'appello adeguatamente motivata e sostenuta da argomentazioni giuridiche corrette e logiche. Le ragioni della risoluzione del rapporto di lavoro sono state correttamente individuate nell'abuso dell'auto aziendale da parte del coniuge del lavoratore, utilizzo riferibile a lunghi periodi di tempo durante la sospensione del rapporto per malattia, durante i quali il lavoratore, assente da casa, rendeva impossibili i controlli medici che il datore avrebbe potuto richiedere. Il licenziamento così intimato al lavoratore trova inoltre fondamento nelle contestazioni disciplinari mosse al lavoratore con la lettera inviategli dal datore di lavoro, con la quale egli contestava i predetti comportamenti. Le condotte del lavoratore sono correttamente riconducibili alla violazione degli obblighi contrattuali di buona fede e diligenza, sussistenti anche durante la malattia del lavoratore. Infine la conversione della giusta causa del licenziamento in giustificato motivo soggettivo, rientra pacificamente nel potere di qualificazione giuridica riconoscibile in capo al giudice, potere che nulla toglie al principio dell'immutabilità della contestazione. La fondatezza delle argomentazioni della sentenza di secondo grado si sottrae dunque a qualsiasi tipo censura. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dal lavoratore. |