Il fatto materiale nei licenziamenti tra legge Fornero e Jobs act
12 Febbraio 2016
Abstract
A distanza di poco meno di due anni dall'emanazione della legge Fornero, l'apparato sanzionatorio in materia di licenziamento disciplinare ha trovato una nuova regolamentazione con il decreto legislativo 23 del 4 marzo 2015 applicabile ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Le modifiche normative introdotte a distanza di così poco tempo, che aggiungono una nuova disciplina rispetto a quella già prevista dalla legge Fornero ed applicabile ai dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015, sembrano riecheggiare il dibattito giurisprudenziale, che tuttavia non si è affatto sopito all'esito dell'entrata in vigore delle nuove norme. Il licenziamento disciplinare nella legge Fornero
Dopo un iter parlamentare faticoso e complesso, aggravato dal dibattito mediatico non sempre pertinente sul tema, la legge 92 del 28 giugno 2012 ha riscritto l' art. 18 della legge 300/70 , dettando una disposizione articolata e complessa che chiaramente risente della logica compromissoria che ne è alla base. La complessità della norma, unita alla resistenza della magistratura nell'utilizzo degli inediti strumenti interpretativi imposti, ne ha comportato un'applicazione del tutto lontana dalle aspettative del legislatore, che per tale motivo, a distanza di pochissimo tempo da quella che era stata definita una riforma epocale, è nuovamente intervenuto in materia di apparato sanzionatorio per i licenziamenti invalidi, dettando con il decreto legislativo 23/2015 una nuova disciplina in materia per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Con particolare riferimento al licenziamento disciplinare, oggetto della presente riflessione, la legge 92/2012
Il dibattito sorto sull'interpretazione dell'art. 18 comma 4 riformato si è concentrato, soprattutto, sulla “insussistenza del fatto contestato”, quale presupposto per l'applicazione della tutela reintegratoria, sia pure dimidiata, in luogo di quella indennitaria. Secondo una parte della dottrina, il “fatto contestato” si identifica con il “fatto materiale”, inteso quale comportamento omissivo o commissivo del lavoratore, del tutto disancorato dalla sua rilevanza disciplinare, con la conseguenza che l'indagine giudiziale deve limitarsi a verificare se il fatto oggetto di contestazione, naturalisticamente inteso, esiste o meno. Vi è tuttavia da evidenziare che il mero fatto materiale, estrapolato dal contesto in cui si è verificato e sradicato dalla normativa di riferimento utile alla ricostruzione della fattispecie, risulta del tutto irrilevante agli occhi del giurista, che in quanto tale guarda al fatto attraverso la norma. Quanto sopra soprattutto considerando che la legge 92/2012 art. 2119 c.c. art. 3 legge 604/66 art. 5 legge 604/66 art. 2106 c.c. Altra parte della dottrina ha viceversa ritenuto che il fatto materiale, per assumere giuridica rilevanza, deve essere in sé provvisto di una sia pur minima rilevanza disciplinare; il che significa che il fatto deve necessariamente connotarsi in termini di inadempimento contrattuale ( art. 1218 c.c. art. 1455 c.c. Conseguentemente, il giudice deve disporre la reintegrazione ove tale fatto inadempimento ingiustamente contestato al lavoratore sia carente in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi; se viceversa tali elementi sono presenti in misura attenuata ma tuttavia insufficiente a giustificare il licenziamento, il giudice non può disporre la reintegrazione e deve viceversa optare per l'indennità risarcitoria. Ovviamente, la verifica giudiziale in ordine alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo non può prescindere dalla qualificazione giuridica del fatto oggetto di ricerca, dovendo il giudice stabilire se il fatto contestato rientri nelle fattispecie astratte di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo. Diversamente opinando, infatti, si arriverebbe all'assurdo di ritenere che anche il fatto materiale totalmente privo di rilevanza disciplinare possa essere addotto come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.
L'operazione valutativa del giudice in ordine alla legittimità o meno del provvedimento espulsivo non può poi ovviamente prescindere dal principio di proporzionalità tra i fatti oggetto di contestazione ed i provvedimenti disciplinari adottati, in applicazione del disposto di cui agli artt. 2106 c.c. Conseguentemente, spetterà al giudice valutare la congruità della sanzione espulsiva rispetto ai comportamenti oggetto di contestazione secondo uno scrutinio unitario del comportamento complessivo posto in essere dal lavoratore, da valutarsi sia nel suo contenuto oggettivo - ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al grado di affidamento delle mansioni espletate, alle circostanze di luogo e di tempo in cui gli eventi si sono verificati - sia nel suo contenuto soggettivo - riferito all'intensità dell'elemento intenzionale e volitivo dell'agente. La reazione della Giurisprudenza
La reazione della magistratura, comprensibilmente resistente ad applicare norme di nuovo conio concettualmente in antitesi con il paradigma normativo esistente, non si è fatta attendere, con la conseguenza che alla tutela reintegratoria non è stata assegnata una collocazione residuale, o comunque circoscritta alle ipotesi che il legislatore della legge Fornero sembrava averle assegnato. Così, è stato chiarito che la sussistenza del fatto materiale va sempre riferita ad un fatto imputabile all'agente, dovendosi viceversa escludere che il fatto contestato possa ritenersi sussistente ove la consapevolezza e volontà del lavoratore oggetto di procedimento disciplinare fosse al momento dei fatti venuta meno, ad esempio per l'insorgere di una patologia incidente sulla consapevolezza degli eventi (Trib. Brescia, 16 gennaio 2015). La giurisprudenza di merito si è quindi orientata nel ritenere che “la norma in questione, parlando di fatto, fa necessariamente riferimento al cd. fatto giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell'unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l'elemento soggettivo” (Trib. Bologna, 15 ottobre 2012); è quindi “un'illusione che porta a risultati iniqui e incongrui quella di porsi alla ricerca di fatti da cogliere nella loro nuda storicità, decontestualizzati e depurati da qualsivoglia prospettiva valutativa” (Trib. Palmi, 24 aprile 2013). Come pure non pareva intaccato il principio di proporzionalità della sanzione, ritenuto immanente al sistema (Trib. Matera, 17 novembre 2014). Tale orientamento pareva essere confortato anche dalla Suprema Corte che, seppure in un obiter dictum, ha affermato che con la legge 92/2012 il giudice di merito “dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto (giuridico) che ha determinato il provvedimento espulsivo” (Cass. 7 maggio 2013 n. 10550). In controtendenza con l'orientamento sopra esposto è tuttavia intervenuta una sentenza della Suprema Corte, secondo cui “Il nuovo articolo 18 ha tenuto distinti, invero dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicchè occorre operare una distinzione tra l'esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione, La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, cosi che tale verifica si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza di tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento adottato” (Cass. 23669 del 6 novembre 2014). L'intervento della Corte è quindi chiaro per un verso nell'attribuire unicamente al fatto materiale l'elemento fondante del licenziamento disciplinare, con conseguente restrizione del sindacato giudiziale, e dall'altro nell'escludere qualsivoglia giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al comportamento oggetto di contestazione, in quanto criterio evidentemente non ritenuto necessario nella ricostruzione della fattispecie. Il licenziamento disciplinare nel Jobs Act
In esecuzione della delega ricevuta dal Parlamento, il decreto legislativo 23/2015 La scelta del Governo, probabilmente preso atto della resistenza della magistratura ad applicare le nuove disposizioni con gli obiettivi che erano stati dichiarati, è netta nel generalizzare la tutela indennitaria per la stragrande maggioranza dei licenziamenti privi di giustificazione, circoscrivendo l'applicazione della tutela reintegratoria ad ipotesi specifiche e predeterminate per quanto attiene al licenziamento disciplinare.
Altrettanto chiara è l'intenzione del legislatore di vincolare il sindacato giudiziale entro confini predeterminati, sia in termini di elementi da considerare rispetto alla costruzione della fattispecie, sia in termini di strumentario giuridico cui fare riferimento, sia, infine, in termini di sanzione, ancorata da un dato matematico quale è quello dell'anzianità di servizio, evitando che l'ammontare della condanna cui la parte datoriale era in precedenza esposta sia legata ad elementi assolutamente incerti e diversificati, legati alla durata dei processi. Con riferimento al licenziamento disciplinare, il decreto prevede che la reintegrazione cd. debole debba essere disposta esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio “l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento In tutte le altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara viceversa l'estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento con condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. Balza subito agli occhi che quello che nella legge Fornero era il “fatto contestato”, nel decreto legislativo 23/2015 Sempre l'esigenza di chiarezza sopra evidenziata, in funzione evidentemente limitativa dell'intervento giudiziale, ha portato il legislatore delegato ad ulteriormente specificare che rispetto alla verifica della sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, con tale specificazione volendosi chiaramente precludere al giudice ogni delibazione in ordine alla proporzionalità tra addebiti contestati e sanzione espulsiva applicata, nonostante la perdurante vigenza dell' art. 2106 c.c. Per concludere, la norma esige che l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore sia “direttamente” dimostrata in giudizio, quasi a voler rovesciare le norme in tema di riparto dell'onere probatorio in materia di licenziamenti ( art. 5 della legge 604/66 La Cassazione ritorna
In un rapporto quasi muscolare con il legislatore, la giurisprudenza è nuovamente intervenuta sul tema del fatto materiale nel licenziamento disciplinare, pronunciandosi sulla disciplina dettata dalla legge Fornero in relazione ad un licenziamento disciplinare. A riguardo, la Suprema Corte ha specificato che “Quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il legislatore, parlando di insussistenza del fatto contestato, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione…. In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18 quarto comma” (Cass. 20540 del 13 ottobre 2015; di analogo tenore, anche se se questione diversa, Cass. n. 20545 del 13 ottobre 2015). Si ritiene che le indicazioni interpretative fornite dalla Suprema Corte in ordine alla valutazione del fatto materiale con riferimento alla legge 92/2012 decreto legislativo n. 23/2015
Considerate le premesse, i tempi per un assestamento del processo interpretativo delle nuove norme si prevedono lunghi e faticosi.
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