Il nuovo art. 2103 c.c.: potere del datore di lavoro e patto modificativo
18 Febbraio 2016
Abstract
Vedi anche I parte (Il nuovo art. 2103 c.c.: mutamento di mansioni orizzontale a parità di livello di inquadramento) Vedi anche II parte (Il nuovo art. 2103 c.c. : assegnazione (temporanea e definitiva) a mansioni superiori Nell'ambito della riforma del mercato del lavoro che va sotto il nome di Jobs Act, il legislatore ha, con l' art. 3 del d.lgs. 81/2015 art. 2103 c.c. Dal divieto di adibizione a mansioni inferiori (con poche eccezioni) al riconoscimento della possibilità del demansionamento del lavoratore (con qualche limite)
L' art. 2103 c.c. , prima delle modifiche apportate dal Jobs Act, enunciava, sia pur indirettamente, il divieto del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto alle ultime effettivamente svolte. Tale divieto si desumeva dal primo comma della disposizione, che prevedeva e disciplinava solo le ipotesi della promozione e della adibizione a mansioni equivalenti, e dal secondo, che dichiarava nullo ogni patto contrario.
La rigorosità di tale divieto era stata con il tempo parzialmente attenuata dalla giurisprudenza e dal legislatore che, con altrettante leggi speciali, aveva introdotto alcune eccezioni.
Sul versante giurisprudenziale, com'è noto, avvalendosi principalmente dell'argomento secondo il quale il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere irrogato solo se non vi sono altre mansioni disponibili nelle quali il lavoratore possa essere utilmente impiegato (extrema ratio), una parte della giurisprudenza aveva ammesso la configurabilità in capo al datore di lavoro di un obbligo di offrire al lavoratore l'impiego in mansioni inferiori nel caso in cui non fossero disponibili mansioni equivalenti (cfr. da ultimo Cass. , 23 ottobre 2013, n. 24037 , in Riv. it. dir. lav., 2014, II, 296, con nota di C. Zanetto).
In tale caso, la giurisprudenza aveva riconosciuto compatibile con il divieto di demansionamento sancito dall' art. 2103 c.c. un sacrificio della professionalità del lavoratore nel caso in cui l'adibizione a mansioni inferiori fosse l'unica alternativa alla perdita del posto di lavoro.
Con ragionamento analogo, la Cassazione aveva ammesso la possibilità di impiegare il lavoratore in mansioni inferiori nel caso in cui il lavoratore, a causa di un infortunio, avesse perso la capacità di assolvere alle mansioni in precedenza affidate (per tutte v. Cass., 7 agosto 1998, n. 7755 , in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 170, con nota di G. Pera).
Alle eccezioni al divieto di demansionamento introdotte in via interpretativa dalla giurisprudenza, si sono affiancate alcune eccezioni espressamente previste dalla legge speciali. Tali previsioni possono essere considerate tutt'ora vigenti, cosicché le stesse continueranno a trovare applicazione affianco alle fattispecie ora previste dal nuovo art. 2103 c.c.Il nuovo art. 2103 c.c. non prevede, infatti, l'abrogazione espressa di tali disposizioni, né detta norme con esse incompatibili.
In particolare, la legge prescrive l'obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, con diritto alla conservazione dell'originario trattamento economico, nel caso di:
Il nuovo art. 2103 c.c. modifica significativamente l'impostazione dell'ordinamento nei confronti della possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto alle ultime effettivamente svolte.
La nuova disposizione opera, infatti, su due versanti:
Il potere del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore
L' art. 2103 c.c. attribuisce ora al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a mansioni inferiori:
Per entrambe le categorie di ipotesi, il potere di modifica in senso peggiorativo non è però illimitato.
Le uniche mansioni inferiori assegnabili al lavoratore sono, invero, solo quelle riconducibili al livello di inquadramento contrattuale inferiore, sempre che le stesse siano però riconducibili alla medesima categoria legale delle ultime effettivamente svolte.
L'ipotesi della modifica degli assetti organizzativi aziendali
Il secondo comma del nuovo art. 2103 c.c. attribuisce al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali.
Il presupposto individuato dalla disposizione appare piuttosto generico e comunque di difficile delimitazione.
Una parte della dottrina ha peraltro rilevato che su questo profilo potrebbe porsi un problema di legittimità costituzionale della norma per violazione dei criteri direttivi indicati dalla legge delega ( l. 183/2014 ), la quale, all'art. 1, co. 7, lett. e), delegava il Governo a revisionare al disciplina delle mansioni “in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi”. Secondo questa opinione, il generico riferimento alla modifica degli assetti organizzativi aziendali comporterebbe l'attribuzione al datore di lavoro di un potere di demansionare il lavoratore molto più ampio di quello che il Parlamento intendeva conferire con la legge delega.
Accantonando in questa sede gli indicati dubbi di legittimità costituzionale, ci si deve chiedere quando ricorra il presupposto della modifica degli assetti organizzativi aziendali.
La prima indicazione che si può trarre dalla formula utilizzata dal legislatore è che la modifica degli assetti organizzativi non coincide con la modifica della posizione del lavoratore. Detto altrimenti, il demansionamento del lavoratore deve essere una conseguenza di un cambiamento intervenuto nella struttura organizzativa del datore di lavoro che produce come effetto la scelta del datore di lavoro di modificare l'attività affidata al lavoratore. La disposizione precisa, infatti, che il demansionamento è possibile in presenza di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che “abbia inciso” sulla posizione del lavoratore.
Fatta questa precisazione, resta comunque complicato attribuire un significato chiaro alla locuzione, alquanto generica, della modifica degli assetti organizzativi aziendali. L'assenza di ulteriori precisazioni sembrerebbe indurre a ritenere che qualunque modifica della struttura organizzativa possa giustificare un atto di demansionamento, anche laddove la modifica non costituisca un evento straordinario o non sia parte di un processo particolarmente complesso.
Analogamente, l'ampia formula utilizzata dal legislatore non fornisce indicazioni sul quanto debba essere estesa la modifica; non chiarisce, in altri termini, se la modifica debba interessare l'intera organizzazione aziendale o possa essere circoscritta solo ad una parte dell'azienda, alla struttura alla quale appartiene il lavoratore, o addirittura all'ufficio nel quale lo stesso è impiegato.
L'ampia formulazione della disposizione consente allora di affermare che l'accertamento sulla legittimità dell'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori dovrà essere condotto caso per caso, attraverso un'indagine che presenterà caratteri di similitudine con quella che deve essere svolta in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il datore di lavoro dovrà in particolare dimostrare di aver posto in essere una modifica della propria organizzazione (che potrà essere più o meno ampia) e che tale modifica abbia avuto come effetto la necessità per il datore di lavoro di procedere alla modifica delle mansioni del lavoratore (nesso di causalità), impiegandolo in un'attività riconducibile ad un livello di inquadramento inferiore. I dubbi che possono sorgere in questa ipotesi sono in particolare due.
Il primo è se il datore di lavoro, a seguito della modifica dell'assetto organizzativo, debba anche dimostrare di non poter utilmente impiegare il lavoratore in altre mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento. A questo quesito si può dare risposta affermativa, ritenendo che la nuova norma abbia ampliato lo ius variandi del datore di lavoro, ma altresì rafforzando l'obbligo dello stesso di ricorrere al demansionamento solo se non sono disponibili mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento.
Il secondo si pone nell'eventualità in cui la modifica dell'assetto organizzativo incida sulla posizione di più lavoratori e solo alcuni di essi debbano essere demansionati. In questo caso il datore di lavoro è libero di scegliere quale lavoratore demansionare, ovvero sarà tenuto ad operare la scelta sulla base di criteri oggettivi?
La norma non fornisce strumenti per dare una risposta certa a tale quesito.
La soluzione preferibile appare però quella che rimette al datore di lavoro, nell'esercizio della libertà di organizzazione dell'attività produttiva protetta dall' art. 41 Cost. , il diritto di individuare il lavoratore da demansionare. La tutela del lavoratore è assicurata dalla fissazione di un limite al demansionamento, costituito dal fatto che lo stesso non può essere adibito a mansioni che si collochino oltre il livello inferiore di inquadramento o che siano riconducibili ad un'altra categoria legale.
Limite che si traduce anche in una estensione dell'obbligo di repechage in caso di licenziamento, poiché si può ora affermare che potrà ritenersi sussistente un giustificato motivo oggettivo di licenziamento solo laddove il datore di lavoro dimostri di non poter impiegare il lavoratore in mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento o a quello inferiore rispetto a quello relativo alle ultime mansioni effettivamente svolte. Le ulteriori ipotesi di demansionamento previste dai contratti collettivi
Il quarto comma del nuovo art. 2103 c.c. rinvia al contratto collettivo la individuazione di ulteriori ipotesi nelle quali può essere conferito al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a mansioni inferiori.
In forza della norma generale di rinvio dettata dall' art. 51 d.lgs. 81/2015 , l'individuazione di ipotesi ulteriori può avvenire ad opera di tutti i livelli di contrattazione collettiva. La norma citata dispone infatti che per contratti collettivi “si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
Il potere di individuare ipotesi ulteriori di demansionamento è attribuito alla contrattazione collettiva senza che siano individuati limiti particolari, dal che può desumersi la facoltà per le parti sociali di collegare il potere di demansionamento sia a causali di tipo oggettivo sia a fattispecie di tipo soggettivo. Analogamente si può ritenere che la contrattazione collettiva possa disciplinare ipotesi di assegnazione anche solo temporanea alle mansioni inferiori.
Requisiti di forma dell'atto datoriale di demansionamento
Il quinto comma dell' art. 2103 c.c. prescrive che il mutamento di mansioni deve essere comunicato per iscritto a pena di nullità.
È dubbio se l'atto scritto debba contenere esclusivamente l'informazione relativa al cambiamento di mansioni ovvero se debba recare anche il motivo del mutamento: ossia il cambiamento degli assetti organizzativi aziendali ovvero l'ipotesi prevista dal contratto collettivo.
Il fatto che la disposizione faccia riferimento alla sola comunicazione e non ai motivi del mutamento induce a ritenere che questi ultimi non debbano essere indicati all'interno dell'atto scritto richiesto dal quinto comma in esame. I motivi potranno dunque essere indicati anche successivamente allorché il lavoratore ne faccia richiesta.
A conferma di tale conclusione si può richiamare in via analogica la giurisprudenza consolidata che, in relazione all'efficacia del provvedimento di trasferimento del lavoratore, ha affermato che “l' art. 2103 c.c. non richiede che siano enunciate contestualmente le ragioni del trasferimento stesso, atteso che tale norma, nella parte in cui richiede che le ragioni tecniche, organizzative e produttive del trasferimento siano comprovate, comporta soltanto che tali ragioni - ove contestate - siano effettive e seriamente provate dal datore di lavoro; pertanto, l'onere dell'indicazione delle ragioni del trasferimento sorge a carico del datore di lavoro - pena l'inefficacia sopravvenuta del provvedimento - soltanto ove il lavoratore ne faccia richiesta, trovando applicazione analogica l'art. 2 l. n. 604 del 1966, che prevede l'insorgenza di analogo onere nel caso in cui il lavoratore licenziato chieda al datore di lavoro di comunicare i motivi del licenziamento”(cfr.: Cass. , 28 maggio 2009, n. 12516 , in Not. Giur. Lav., 2009, 485; Cass. , 15 maggio 2004, n. 9290 , in Banca dati Foro It.; Cass., 29 aprile 2004, n. 8268 , in Banca dati Foro It.).
Temporaneità o definitività del demansionamento?
Sia nel caso in cui il demansionamento avvenga per una modifica degli assetti organizzativi aziendali, sia che venga disposto per una delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, il nuovo art. 2103 c.c. non stabilisce nulla sulla natura temporanea o definitiva del demansionamento.
Una parte della dottrina ha sostenuto che nel caso in cui il demansionamento sia disposto per una modifica degli assetti organizzativi e successivamente intervenga una nuova modifica che comporti il ripristino della posizione prima ricoperta dal lavoratore demansionato, questi avrebbe diritto ad essere reintegrato nella mansione precedente.
Tale soluzione non appare però conforme al dettato normativo che si limita ad individuare le condizione in presenza delle quali le mansioni affidate al lavoratore possono essere modificate anche in senso peggiorativo. Se ne desume che, salvo diverso accordo fra le parti, l'attribuzione delle nuove mansioni deve considerarsi definitiva.
Obbligo formativo e conseguenze dell'inadempimento Come anticipato nei precedenti contributi, il terzo comma dell' art. 2103 c.c. pone in capo al datore di lavoro un obbligo formativo nei confronti del lavoratore le cui mansioni vengano mutate.
Come prescrive lo stesso terzo comma, l'inadempimento dell'obbligo formativo non determina in ogni caso la nullità dell'atto di assegnazione, ma potrà condizionare la valutazione dell'eventuale condotta del lavoratore che abbia commesso un inadempimento ad obblighi contrattuali, ogni qual volta l'errore si sia verificato per il fatto di non disporre delle conoscenze necessarie al corretto e diligente esercizio della prestazione lavorativa. Effetti normativi e retributivi del demansionamento
Il quinto comma del nuovo art. 2103 c.c. prescrive che in caso di legittimo demansionamento per atto unilaterale del datore di lavoro, il lavoratore abbia diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento in godimento.
Si verificherà dunque uno scollamento fra le mansioni concretamente eseguite al lavoratore e l'inquadramento contrattuale allo stesso riconosciuto. Al lavoratore sarà infatti conservato l'inquadramento corrispondente alla mansioni svolte in precedenza e pagata la corrispondente retribuzione, anche se le mansioni affidate saranno riconducibili al livello inferiore.
L'effetto di conservazione della retribuzione non si produce soltanto per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Tali elementi potranno dunque essere eliminati dalla retribuzione corrisposta laddove, a seguito della modifica delle mansioni, la nuova attività richiesta al lavoratore non contempli più quelle specifiche modalità. La parte di retribuzione che dovrà rimanere inalterata sarà quella collegata alla natura intrinseca della prestazione in precedenza svolta che dovrà essere conservata al lavoratore nonostante il cambiamento della mansione.
La possibilità di eliminare dal trattamento retributivo gli elementi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione in caso di mutamento di mansioni era peraltro stato ammesso dalla giurisprudenza già sotto il vigore del vecchio art. 2103 c.c.
La Suprema Corte aveva rilevato infatti che “il principio dell'irriducibilità della retribuzione, dettato dall' art. 2103 c.c., implica che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto, salvo che, in caso di legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello ius variandi, la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estenda alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa; ne consegue che detto principio non impedisce che una delle voci della retribuzione (nella specie quella relativa all'indennità di trasferta di un dipendente di una società privata con funzioni di contabile) possa essere ridotta o soppressa purché la retribuzione base complessiva del dipendente medesimo non venga a risentirne negativamente”(cfr. Cass. 19 febbraio 2008, n. 4055 , in Banche dati Foro it.). Gli accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione
Tra le novità più importanti apportate con la riforma dell' art. 2103 c.c. vi è il riconoscimento della possibilità per le parti del rapporto di lavoro di sottoscrivere accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione.
Il divieto dei patti contrari, tuttora enunciato dal nono comma della norma codicistica, non è dunque più assoluto, essendo stata conferita all'autonomia privata la possibilità di sottoscrivere accordi modificativi degli elementi indicati, senza i limiti che invece incontra l'esercizio del potere datoriale di demansionamento. Accordi che, prima di tale modifica, non erano validi, salvo che non rientrassero in una delle ipotesi previste dalle leggi speciali ricordate in esordio o che non sussistessero i presupposti previsti dalla giusprudenza.
Questo ampio potere di modifica viene però riconosciuto alle parti solo in presenza di alcuni presupposti, destinati a garantire, da un lato, che vi sia una reale e libera volontà del lavoratore di modificare i citati elementi, e, dall'altro, che il mutamento avvenga per soddisfare uno specifico interesse del lavoratore. Gli accordi di modifica contemplati dalla disposizione non possono dunque essere posti in essere per soddisfare un esigenza organizzativa, produttiva o tecnica del datore di lavoro, ma sono previsti dall'ordinamento per permettere la soddisfazione di specifici interessi del lavoratore .
Sotto il primo profilo, il nuovo art. 2103 c.c. dispone infatti che gli accordi individuali in esame possono essere stipulati in una delle sedi di cui al quarto comma dell' art. 2113 c.c. , oppure dinanzi alle commissioni di certificazione.
Con tale previsione, alla quale può essere affiancata la previsione di cui all' art. 6, comma 6, d.lgs. 81/2015 in materia di inserzione di clausole elastiche nel contratto part time, il legislatore ha introdotto dunque una specifica ipotesi di deroga assistita rispetto alle previsioni inderogabili della legge.
Si tratta di una novità di grande rilevanza, destinata ad assicurare che il lavoratore sia adeguatamente informato ed assistito nel momento in cui decide di sottoscrivere l'accordo.
In tali eventualità, compito della sede assistita sarà infatti principalmente di appurare che il lavoratore abbia formato liberamente la propria volontà di sottoscrivere l'accordo di modifica, appurando che lo stesso abbia inteso fino in fondo il contenuto e gli effetti dell'accordo di modifica. Compito della sede sarà altresì quello di accertare la sussistenza di tutte le condizioni richieste dalla legge per la validità dell'accordo.
Sotto il secondo profilo anticipato, l'accordo individuale è valido solo in quanto il mutamento di mansioni sia disposto con la specifica finalità di soddisfare uno degli interessi qualificati del lavoratore, identificati dallo stesso co. 6 dell' art. 2103 c.c.
La disposizione in parola precisa, invero, che l'accordo deve essere sottoscritto nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Ai fini della validità dell'accordo, lo stesso dovrà dunque recare espressa indicazione dello specifico interesse che il mutamento di mansioni è destinato a soddisfare . Da questo punto di vista, la sede dinanzi alla quale viene stipulato l'accordo deve farsi carico di appurare tale condizione, richiedendo dalle parti, e dal lavoratore soprattutto, espressa conferma che il cambiamento di mansioni ha la precipua finalità di soddisfare uno degli interessi individuati dalla disposizione. Infine, la norma riconosce il diritto del lavoratore di farsi assistere, in occasione della riunione per la sottoscrizione dell'accordo di modifica delle mansioni presso una delle sedi indicate, da “un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”. La disposizione è evidentemente pleonastica, poiché, da un lato, non avrebbe potuto disconoscersi il diritto del lavoratore a farsi assistere anche nel caso in cui la disposizione non l'avesse espressamente previsto, e, dall'altro, deve ammettersi il diritto del lavoratore di farsi assistere anche da un professionista appartenente a tipologie diverse rispetto a quelle contemplate espressamente dalla norma (ad es. da un dottore commercialista).
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