Licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act

Marianna Russo
16 Marzo 2015

Il D.Lgs. n. 23/2015 sul contratto a tutele crescenti, in attuazione del c.d. Jobs Act, ristruttura completamente la disciplina dei licenziamenti nei confronti dei nuovi assunti. Il presente contributo intende approfondire l'art. 2 del decreto delegato, concernente la disciplina dei licenziamenti discriminatori e nulli, tuttora tutelati con la reintegrazione.
Abstract

Il D.lgs. n. 23/2015 sul contratto a tutele crescenti, in attuazione del c.d. Jobs Act, ristruttura completamente la disciplina dei licenziamenti nei confronti dei nuovi assunti. Il presente contributo intende approfondire l'art. 2 del decreto delegato, concernente la disciplina dei licenziamenti discriminatori e nulli, tuttora tutelati con la reintegrazione. Alla luce della complessiva marginalizzazione della tutela reintegratoria, risulta utile una corretta individuazione del campo oggettivo e soggettivo di applicazione della norma in esame.

Il confronto con l'art. 18 St. lav.

Ad un primo sguardo sembra che la disciplina per i licenziamenti discriminatori e nulli prevista dall'art. 2 del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in attuazione della legge delega n. 183/2014, c.d. Jobs Act, riproduca pedissequamente la disciplina del vigente art. 18 St. lav., come modificato dalla L. n. 92/2012.

Appare, però, utile operare un raffronto testuale tra le due norme per verificare la loro effettiva sovrapponibilità, cioè la coincidenza dell'ambito di applicazione oggettivo e soggettivo, nonché delle tutele previste.

Tale operazione può risultare proficua anche al fine di approfondire il licenziamento discriminatorio e le ipotesi di licenziamento nullo, in quanto la sopravvivenza della tutela reintegratoria solo per queste fattispecie - e per l'insussistenza del fatto materiale nei licenziamenti disciplinari di cui all'art. 3, comma 2, del decreto delegato - comporta inevitabilmente un maggiore interesse nei loro confronti.

Già la c.d. riforma Fornero, intervenendo in maniera incisiva sull'art. 18 St. lav., ha operato un notevole restringimento del perimetro della tutela reale, che lasciava prevedere un incremento di pronunce giurisprudenziali e una conseguente valorizzazione della tutela antidiscriminatoria. Se tali previsioni non si sono - pienamente - avverate, è probabilmente opportuno dedicare qualche riflessione al tema, per individuare le ragioni ostative e cercare, ove possibile, di eliminarle o almeno ridurle, al fine di non lasciare la tutela reintegratoria solo sulla carta, ma di renderla fruibile laddove ne sussistano i requisiti.

Rilievi di natura processuale

Dal confronto tra l'art. 2, comma 1, del decreto delegato e il primo comma dell'art. 18 St. lav. affiorano alcune piccole differenze. Se è vero che lex tam dixit quam voluit, tali scelte hanno un significato e, pertanto, offrono l'occasione per qualche approfondimento.

Per quanto concerne la modifica lessicale, si può agevolmente rilevare che a “sentenza” (presente nell'art. 18 St. lav.) viene preferito “pronuncia” (art. 2 D.lgs. n. 23/2015). Si tratta soltanto di un abbellimento terminologico o è un'operazione di drafting legislativo che può avere incidenza a livello processuale?

Non sfugge all'interprete che il termine “sentenza” sia adoperato impropriamente dall'art. 18 St. lav., in quanto la legge n. 92/2012 ha introdotto per l'impugnazione dei licenziamenti un nuovo rito, che in primo grado non si conclude con una sentenza, ma con un'ordinanza immediatamente esecutiva (art. 1, comma 49, L. n. 92/2012). Forse per tale ragione, cioè per una più corretta terminologia, il legislatore delegato ha adottato il più generico e ampio “pronuncia”, che può riferirsi sia alle sentenze (intese in senso tecnico) che alle ordinanze.

In realtà, se così fosse, questa sostituzione lessicale si sarebbe potuta evitare, visto che, come previsto dall'art. 11 del decreto in esame, “ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell'art. 1, della legge n. 92 del 2012”, cioè il rito Fornero, bensì il previgente rito del lavoro, in cui il giudice, a norma dell'art. 429 c.p.c., pronuncia una sentenza. Forse si tratta solo di un eccesso di zelo del legislatore delegato, ma potrebbe anche essere l'implicita ammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. per chiedere al giudice la reintegrazione con provvedimento d'urgenza. E ciò non è un particolare trascurabile, dato che la questione dell'incompatibilità tra rito Fornero e ricorso ex art. 700 c.p.c. ha occupato per lungo tempo i Tribunali, spesso con soluzioni contrastanti (Cfr. Linee guida adottate dal Trib. Firenze in data 17 ottobre 2012, che ammette la compatibilità tra rito Fornero e azione ex art. 700 c.p.c.; in tal senso v. anche Trib. Santa Maria Capua Vetere 12 febbraio 2013; Trib. Ravenna 18 marzo 2013; Trib. Ravenna 13 maggio 2013. Contra Trib. Bologna 25 settembre 2012; Trib. Monza 30 ottobre 2012). Posizione intermedia è assunta da Trib. Perugia 9 novembre 2012, che afferma l'astratta permanenza dell'azione ex art. 700 c.p.c., a fronte, però, di un più rigoroso accertamento della sussistenza del periculum in mora alla luce del nuovo rito sommario. Inoltre, è opportuno segnalare che, già trent'anni prima della Riforma Fornero, erano stati sollevati dubbi sulla compatibilità tra rito del lavoro e procedimenti cautelari (A. Proto Pisani esclude il ricorso ai provvedimenti d'urgenza nelle ipotesi in cui “il legislatore abbia previsto nel libro quarto o in leggi processuali speciali procedimenti sommari tipici suscettibili di concludersi, quanto meno in una prima fase, con un provvedimento sommario esecutivo”). Alla luce di tali considerazioni la scelta terminologica del decreto delegato potrebbe apparire proprio mirata.

Ambito oggettivo di applicazione

La prima operazione da svolgere per verificare se nulla è cambiato rispetto alla disciplina dell'art. 18, comma 1, St. lav. è verificare l'ambito di applicazione oggettivo dell'art. 2 del decreto in esame, cioè in quali casi si utilizzano le tutele previste.

La rubrica dell'art. 2 si riferisce espressamente ai licenziamenti discriminatori, nulli e intimati in forma orale: si tratta delle medesime ipotesi disciplinate dal primo comma dell'art. 18 St. lav. Il perimetro disegnato dalle due norme non è, però, perfettamente coincidente.

Nell'iniziale formulazione dello schema di decreto delegato era stato espunto il riferimento del licenziamento discriminatorio all'art. 3 Legge n. 108/90, che, a sua volta, richiama l'art. 15 St. lav. sugli atti discriminatori. Questa eliminazione – forse dovuta a una mera esigenza di semplificazione e alleggerimento del testo – poteva, in realtà, essere interpretata come una dilatazione del licenziamento discriminatorio, non più circoscritto nell'alveo dell'elenco di motivi indicati espressamente dall'art. 15 St. lav. Il mancato riferimento a tale norma, infatti, rischiava di diventare l'occasione di un revival dell'antico dibattito sulla natura tassativa o meramente esemplificativa delle ragioni discriminatorie ed essere interpretato come un implicito accoglimento della seconda tesi.

Al fine di evitare confusione al riguardo, la Commissione Lavoro del Senato ha segnalato l'opportunità di “definire meglio il perimetro applicativo dell'articolo con ripresa, senza variazioni, dell'elenco di criteri di differenziazione vietati contenuto nell'art. 15 dello Statuto dei lavoratori”. Tale parere è stato pienamente accolto: il nuovo testo dell'art. 2 del D. lgs. n. 23/2015 si riferisce espressamente al licenziamento “discriminatorio a norma dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni”.

Nell'art. 2 – sia nello schema di decreto che nella versione definitiva e vigente – è stato eliminato l'elenco delle ipotesi di licenziamento nullo presente nell'art. 18 St. lav. o, meglio, è stato sintetizzato nella formula “ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”. In effetti, le ipotesi di nullità elencate nell'art. 18 St. lav. sono tutte previste in via normativa e, quindi, non si può che guardare con favore a questa opera di snellimento del testo. Però, nella formula adottata dall'art. 2 del decreto delegato c'è un avverbio in più: “espressamente” previsti dalla legge. Si tratta di una semplice coloritura? O è un'aggiunta significativa, tesa a restringere il campo di applicazione rispetto ai casi di nullità di cui all'art. 18 St. lav., che, dopo aver indicato i licenziamenti per causa di matrimonio, della lavoratrice gestante o con figlio minore di un anno e del padre che usufruisca dei congedi parentali, rimanda “ad altri casi di nullità previsti dalla legge”?

E cosa deve essere “espressamente” previsto dalla legge: la nullità del licenziamento intimato o, più in generale, la nullità del negozio? Come risulta evidente, a seconda della risposta si restringe o si allarga l'ambito di applicazione oggettivo della norma. Anche su questo punto si è soffermata l'attenzione della Commissione Lavoro del Senato, che, nel parere redatto, ha invitato il Governo a “specificare se esistono casi di nullità sottratti al regime descritto”. Il decreto delegato, però, è stato approvato senza alcuna modifica su tale argomento.

Se la lettera della legge può dare adito a qualche dubbio al riguardo, lo spirito della riforma è molto chiaro, come si rileva chiaramente dalla relazione che ha accompagnato lo schema di decreto: la finalità perseguita è quella di “riservare la tutela reintegratoria per il lavoratore licenziato oralmente o per ragioni discriminatorie (e per insussistenza del fatto materiale nei licenziamenti disciplinari)”. L'obiettivo è sicuramente quello di limitare il più possibile il campo della tutela reale. Inoltre, i licenziamenti nulli non sono neppure nominati nella citata relazione, diversamente da quanto indicato nell'art. 1, comma 7, lett. c) della Legge delega, la L. 10 dicembre 2014, n. 183.

Dal confronto tra l'art. 18 St. lav. e l'art. 2 del decreto delegato emerge anche una seconda eliminazione: viene soppresso il riferimento al licenziamento per motivo illecito determinante di cui all'art. 1345 c.c. Perché? Anche per questo interrogativo potrebbero esserci diverse risposte:

a) perché l'art. 1345 c.c. rientra nei casi espressamente previsti dalla legge;

b) perché, come sostiene un orientamento giurisprudenziale (v. Cass. 6 giugno 2013, n. 14319; Trib. Milano 18 febbraio 2013; Trib. Novara 13 settembre 2013), il licenziamento per motivo illecito determinante sarebbe incluso nel licenziamento discriminatorio;

c) perché si intende eliminare la tutela reintegratoria per questa fattispecie.

Come risulta evidente, ogni opzione presenta un differente scenario, volto ad ampliare o circoscrivere l'ambito di applicazione della norma. Nell'ultimo caso, ovviamente, si assisterebbe a un effettivo restringimento del campo oggettivo di applicazione della reintegrazione, perché verrebbe eliminata una delle fattispecie a cui l'art. 18 St. lav. riconduce la tutela reale.

La seconda ipotesi, ad avviso di chi scrive, si può scartare alla luce del riferimento - introdotto nella versione definitiva del decreto - all'elenco di cui all'art. 15 St. lav.

La soluzione più ragionevole sembrerebbe la prima, ma per aderire a tale risposta occorre trovare l'espressa previsione di legge che sancisce la nullità del licenziamento per motivo illecito determinante. Tale aggancio normativo può essere rinvenuto nel secondo comma dell'art. 1418 c.c., che sancisce la “nullità del contratto” anche nell'ipotesi di “illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345” c.c. Tale disposizione, benché sia espressamente riferita al contratto, è pacificamente applicabile anche agli unilaterali (v. Cass. 29 luglio 2002, n. 11191), come il licenziamento.

Per completezza, è opportuno segnalare che il regime di tutele apprestato dall'art. 2 si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale: la formulazione è identica a quella prevista dall'art. 18 St. lav.

Infine - e si tratta della seconda aggiunta - è stato introdotto un quarto comma all'art. 2, al fine di applicare tale disciplina anche alle ipotesi in cui il motivo del recesso consista nell'addotta disabilità fisica o psichica del lavoratore e il giudice accerti il difetto di giustificazione. La norma richiama espressamente l'art. 4, comma 4, e l'art. 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, cioè sia quando il lavoratore divenga inabile allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di un infortunio o di una malattia sia qualora il dipendente assunto come disabile subisca un aggravamento delle proprie condizioni di salute.

Nello schema di decreto delegato questa ipotesi era inserita nell'art. 3, concernente il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa, e veniva sanzionato con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il pagamento di un'indennità risarcitoria con una soglia massima di dodici mensilità. In sede di approvazione definitiva del decreto si è ritenuto di estendere a questa ipotesi la tutela più forte, che, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, non prevede un tetto massimo di indennità risarcitoria, bensì la soglia minima di cinque mensilità. Questa si presenta senz'altro come una novità rispetto all'assetto previsto dall'art. 18 St. lav., che inserisce “l'ipotesi in cui (il giudice) accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato […] per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore” nel comma 7, concernente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Inoltre, dal confronto tra i due testi normativi emerge il mancato riferimento all'ipotesi del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c., cioè per presunto – ma non effettivo – superamento del periodo di comporto. É comunque suggestivo l'accostamento o addirittura la riconducibilità di quest'ultima ipotesi di recesso al licenziamento per inidoneità psico-fisica, in quanto in entrambi i casi c'è un coinvolgimento della sfera fisica e psichica del lavoratore. E se è vero che la giurisprudenza distingue tra malattia e inidoneità al lavoro, in quanto la prima è di carattere temporaneo e la seconda, invece, permanente o, comunque, di durata indeterminata o indeterminabile (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1404), è, però, possibile individuare una - seppur timida e isolata – inversione di tendenza in una pronuncia che assimila lo stato di malattia (di lunga durata) all'handicap, con conseguente dichiarazione di nullità del licenziamento considerato discriminatorio (Trib. Milano 11 febbraio 2013).

Ambito soggettivo di applicazione

È importante, inoltre, definire l'ambito di applicazione soggettivo: a chi si applica l'art. 2 del decreto delegato?

Il primo comma dell'art. 1 D.lgs. n. 23/2015 individua il campo di applicazione: nel primo comma si riferisce ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati e quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 7 marzo 2015. La nuova disciplina, pertanto, esclude i dirigenti, che sono, invece, ricompresi nel primo comma dell'art. 18 St. lav.

Il secondo comma del citato art. 1 estende, inoltre, l'applicazione del decreto anche ai casi di conversione di contratti di lavoro a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.

Proseguendo nell'indagine, si rileva che la disciplina dell'art. 2 del decreto delegato, così come quella del primo comma dell'art. 18 St.lav., si applica ai datori di lavoro sia imprenditori che non imprenditori: la formulazione è identica.

L'art. 18 St. lav., primo comma, precisa che la tutela reintegratoria nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio o comunque nullo viene applicata “quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”, mentre le altre tutele previste dai commi successivi al terzo sono applicabili solo nei confronti dei datori di lavoro che occupino oltre quindici dipendenti. L'art. 2 del decreto delegato non fa alcun riferimento ai requisiti dimensionali del datore di lavoro, ma da una lettura sistematica si rileva che il campo di applicazione non prevede requisiti dimensionali, come si evince dagli artt. 1 e 9, primo comma.

Una novità interessante è l'applicazione della disciplina nei confronti delle c.d. organizzazioni di tendenza. L'art. 4 della legge n. 108/90 escludeva tali organizzazioni dal campo di applicazione delle tutele di cui all'art. 18 St. lav., mentre l'art. 9, comma 2, del decreto delegato afferma espressamente che “ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, si applica la disciplina di cui al presente decreto”. Questa disposizione apre un varco in un settore precedentemente considerato off limits e si propone come tentativo di soluzione del delicato e - al tempo stesso - intricato contenzioso sui limiti dell'operatività della tutela apprestata in caso di licenziamento discriminatorio. È vero che la tutela contro il licenziamento discriminatorio era già stata ritenuta – in via giurisprudenziale - applicabile ai dipendenti delle organizzazioni di tendenza (v. Cass. 25 luglio 2008, n. 20500), ma la previsione normativa ha, comunque, un peso notevole, che consente di ravvisare un allargamento delle tutele e una valorizzazione della tutela antidiscriminatoria in un campo particolarmente sensibile.

La rilevanza di questo punto emerge anche da un passaggio del già citato parere della Commissione Lavoro al Senato, in cui, in materia di enti e associazioni “di tendenza”, caratterizzati da un particolare rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, viene evidenziata l'“opportunità di conservare la vigente possibilità di risolvere il rapporto di lavoro, senza il rischio che una valutazione difforme da parte del giudice possa portare alla ricostituzione autoritativa del rapporto stesso”. Su questo tema, però, il decreto è rimasto invariato, nell'ottica dell'uniformità e generalizzazione delle tutele.

Anche se non vi è un espresso riferimento testuale, sembra che dal campo di applicazione siano esclusi i pubblici dipendenti, in attesa di un'organica riforma della P.A., e i lavoratori domestici. Ciò si può desumere dalla lettera dell'art. 1, che circoscrive l'ambito soggettivo di applicazione del decreto delegato ai “lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri”.

Le tutele

Dall'esame delle tutele apprestate dall'art. 2, comma 2, del D.lgs. n. 23/2015 si può riscontrare una perfetta sovrapponibilità con la disciplina introdotta dall'art. 18 St. lav. post Riforma Fornero in materia di licenziamenti discriminatori e nulli. Innanzitutto, il giudice, qualora accerti la nullità del licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro alla corresponsione di un'indennità risarcitoria.

L'unico elemento di novità può essere rinvenuto nella specificazione che l'indennità è commisurata “all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”: in mancanza di una nozione onnicomprensiva di retribuzione, tale precisazione appare molto opportuna. Tale indennità deve essere corrisposta dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività (il c.d. aliunde perceptum).

Per il medesimo periodo il datore di lavoro è tenuto al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Identica è anche la formulazione che prevede la corresponsione di un'indennità minima pari a cinque mensilità.

Fermo restando il diritto al risarcimento nella misura indicata, il comma 3 dell'art. 2 attribuisce al lavoratore – come anche l'art. 18 St. lav. – la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione (in questo caso senza versamento dei contributi previdenziali). Tale richiesta deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione.

Nell'ipotesi in cui il lavoratore non riprenda servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, il rapporto si intende risolto.

In conclusione

È, ovviamente, troppo presto per valutare l'impatto della nuova disciplina in materia di licenziamenti discriminatori e nulli, ma l'eco delle prime impressioni – che oscillano dal “nulla è cambiato” al timore di una notevole riduzione del campo della reintegrazione, dall'individuazione di una valorizzazione della tutela antidiscriminatoria alla preoccupazione per la sorte del licenziamento per motivo illecito determinante - induce a riflettere.

In effetti, come rilevato precedentemente, a seconda dell'orientamento interpretativo adottato, l'ambito di applicazione della norma può ampliarsi o restringersi. Dunque, il primo obiettivo, quello della semplificazione, non è stato pienamente centrato. E anche la coesistenza di un doppio binario di tutele rischia di creare confusione o, comunque, di non risolvere il problema della frammentazione della disciplina.

Infine, non si può non rilevare che - a fronte di una normativa antidiscriminatoria estremamente dettagliata e garantista - le pronunce in materia, nell'arco di quasi tre anni, sono poche (v., ad esempio, Trib. Genova 4 ottobre 2012 sul licenziamento discriminatorio per età; Trib. Taranto 5 dicembre 2013 sul licenziamento discriminatorio per ragioni di genere; Trib. Roma 21 gennaio 2014 sul licenziamento di una lavoratrice madre; Trib. Milano 3 giugno 2014 sul licenziamento nullo perché intimato per causa di matrimonio).

Probabilmente una delle ragioni dello scarso utilizzo di tale tutela può essere rinvenuto nella difficoltà di provare in giudizio la discriminatorietà del licenziamento. Anche se l'art. 28 D.lgs.1 settembre 2011, n. 150, prevede un regime probatorio agevolato - in base al quale il ricorrente può dedurre in giudizio dei dati statistici per provare la discriminatorietà del licenziamento - non è agevole per il lavoratore fornire informazioni che, nella maggior parte dei casi, risultano difficilmente reperibili. Al riguardo, Cass. 5 giugno 2013 n. 14206 ha affermato che non si tratta di un'inversione dell'onere della prova, ma di un mero alleggerimento di tale onere, definito “onere probatorio asimmetrico”. La difficoltà probatoria si riscontra anche nell'accertamento della ritorsività del licenziamento per motivo illecito determinante: il ricorrente deve provare l'animus nocendi del datore di lavoro, cioè il recesso “deve costituire un'ingiusta e arbitraria reazione, essenzialmente di natura vendicativa” (v. Cass. 3 agosto 2011, n. 16925).

Il restringimento della tutela reintegratoria per i neo-assunti alle sole ipotesi dall'art. 2 (e art. 3, comma 2) del D.lgs. n. 23/2015 potrebbe, comunque, essere uno sprone per l'approfondimento dottrinale e giurisprudenziale del quid pluris (v. Trib. Milano 11 febbraio 2013) del licenziamento discriminatorio o nullo rispetto ai licenziamenti - comunque ingiustificati - ma passibili della sola tutela indennitaria.

Le considerazioni esposte nel presente elaborato sono frutto esclusivo del pensiero dell'autrice e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l'Amministrazione di appartenenza.

Guida all'approfondimento

- A. Bollani, Il rito speciale in materia di licenziamento, in M. Magnani – M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffrè, Milano, 2012, p. 320;

- D. Borghesi, Il rito speciale dei licenziamenti, in L. Fiorillo – A. Perulli, La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, Torino, 2014, p. 186 ss;

- F. Carinci, Un contratto alla ricerca della sua identità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (ai sensi della bozza del decreto legislativo 24 dicembre 2014), in WP CSDLE “Massimo D'Antona”, 2015, 13 gennaio, p. 7;

- A. Lepore, Non discriminazione, licenziamento discriminatorio ed effettività delle tutele, in Riv. giur. lav., 2014, III, p. 535;

- M. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act (un commento provvisorio, dallo schema al decreto), in WP CSDLE “Massimo D'Antona”, 2015, n. 236, p. 21;

- I. Pagni, L'evoluzione del diritto processuale del lavoro tra esigenze di effettività e di rapidità della tutela, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, p. 100;

- A. Proto Pisani, I provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c., in A. Proto Pisani, Appunti sulla giustizia civile, Cacucci, Bari, 1982, p. 369;

- A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, Torino, 2012, p. 54.

Sommario