Produzione in giudizio di documenti aziendali riservati e diritto di difesa del lavoratore

13 Maggio 2015

Il lavoratore che produce in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c..
Massima

Il lavoratore che produce in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c..

Il caso

Tizia, dipendente della società Alfa, intenta un giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro per ottenere un superiore inquadramento contrattuale. Nel corso di tale giudizio produce fotocopie di documenti aziendali – segnatamente: il manuale di qualità aziendale - ritenuti riservati dalla società datrice di lavoro che, ritenendo essere stata gravemente danneggiata dalla loro pubblicazione, avvia un procedimento disciplinare nei suoi confronti, licenziandola.

Il Tribunale accoglie il conseguente ricorso proposto da Tizia avverso il provvedimento espulsivo, dichiarando l'illegittimità del licenziamento disciplinare.

La sentenza viene fatta oggetto di gravame da parte della società Alfa ma la Corte d'Appello (tra l'altro) rigetta la domanda evidenziando:
a) che i documenti in questione non potevano essere considerati riservati in quanto non rientranti nel novero di quelli previsti dal Codice della proprietà industriale (art. 98 D.Lgs. 30/2005);
b) che detti documenti erano stati comunque prodotti dall'interessata nell'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito come quello alla difesa in giudizio (art. 24 Cost.)

Avverso questa sentenza propone ricorso per Cassazione la società Alfa, evidenziando il pieno diritto del datore di lavoro di secretare documentazione ritenuta rilevante per le proprie esigenze operative e gestionali: diritto, quest'ultimo, che ad opinione della ricorrente non potrebbe considerarsi automaticamente subordinato al diritto di difesa del dipendente, tanto più che nel caso di specie detta documentazione era a ben vedere risultata del tutto superflua ai fini dell'accoglimento della domanda di Tizia in punto di accertato demansionamento.

Quest'ultimo, infatti, era stato ritenuto sussistente sulla scorta delle sole dichiarazioni testimoniali assunte nel corso della fase istruttoria.

Il ricorso viene rigettato.

In motivazione si legge che “questa S.C. ha avuto modo di statuire ripetutamente (cfr. Cass. 14 marzo 2013, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3038; Cass. 7 luglio 2004 n. 12528; Cass. 4 maggio 2002 n. 6420) che il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.; infatti, da un lato la corretta applicazione della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale, dall'altro, in ogni caso, al diritto di difesa deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell'azienda”.

Sempre secondo la Corte, dunque, “correttamente i giudici di merito hanno escluso che tale addebito potesse integrare il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d'un diritto e, quindi, essendo coperta dalla scriminante prevista dall'art. 51 c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è noto, da sempre concordi)”.

La questione

La questione in esame è principalmente la seguente: il dipendente che produca nel corso di un giudizio intentato contro il datore di lavoro documentazione aziendale ritenuta da quest'ultimo riservata pone in essere una condotta costituente violazione dell'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2015 c.c., e come tale sanzionabile sul piano disciplinare fino addirittura a determinare il venir meno del rapporto fiduciario ed a determinare il conseguente licenziamento per giusta causa del lavoratore?

Accanto a tale questione principale si pongono poi altri interrogativi di indubbio rilievo, il primo dei quali è costituito dal rapporto tra il rispetto del dovere di fedeltà di cui si discute, il diritto del datore di lavoro alla riservatezza di propri dati aziendali ed il diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.) alla difesa: il tutto, nell'ottica dell'individuazione della scriminante costituita dal legittimo esercizio di un diritto (art. 51 c.p.) come espressione di un principio generale dell'ordinamento, in quanto tale operante anche sul piano delle dinamiche contrattuali.

Le soluzioni giuridiche

La giurisprudenza è stata sempre attenta nell'individuare contenuto e portata dell'obbligo di fedeltà del lavoratore, statuito dall'art. 2105 c.c. il quale, come è noto, afferma che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizi”.

La Corte di Cassazione ha in tale ottica più volte evidenziato che tale obbligo di fedeltà – correlato ai più generali principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro (artt. 1175, 1375 c.c.) – non si esaurisce nei divieti tipizzati dalla norma in questione, ma al contrario si traduce nel divieto di compiere ogni attività che possa anche solo potenzialmente nuocere agli interessi datoriali (cfr., sul punto, Cass., Sez. lav., 1 febbraio 2008, n. 2474, in Lav. prev. oggi, 2008, p. 2879: “in tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c. ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno”).

Tanto premesso, la sentenza in commento ha il merito di chiarire ulteriormente – riprendendo precedenti pronunce della stessa Corte di legittimità ivi espressamente richiamate – che la portata volutamente ampia (proprio perché non necessariamente tipizzata, nei termini appena sopra esposti) di tali obblighi negativi è destinata inevitabilmente ad essere considerata recessiva rispetto all'esercizio del diritto di difesa del dipendente, costituzionalmente tutelato dall' art. 24 Cost.

La pronuncia in esame, richiamando la portata generale della scriminante di cui all' art. 51 c.p., sembra quindi aver superato in senso garantista per l'interesse del lavoratore alla propria tutela giudiziaria anche alcune precedenti pronunce della stessa Corte di Cassazione che, al contrario, pur parimenti affermando la medesima tesi della prevalenza del diritto di difesa ex art. 24 Cost. sul diritto alla riservatezza aziendale del datore di lavoro avevano ammesso in linea di principio la potenziale censurabilità sul piano disciplinare delle modalità di impossessamento di tali documenti da parte del dipendente (in tali espressi termini, Cass., Sez. Lav., 7 dicembre 2004, n. 22923. in Riv. crit. dir. lav., 2005, p.223, a giudizio della quale “con riferimento alla utilizzazione da parte del lavoratore di documenti aziendali di carattere riservato occorre distinguere tra produzione in giudizio dei documenti detti al fine di esercitare il diritto di difesa, di per sè da considerarsi lecita (per la prevalenza di detto diritto ed anche in virtù di quanto previsto dall' art. 12 della legge n. 675 del 1996) e impossessamento degli stessi documenti, le cui modalità vanno pertanto in concreto verificate”).

Il lavoratore, sulla scorta del più recente indirizzo giurisprudenziale di legittimità che in questa sede si commenta, potrà quindi sempre produrre in giudizio documentazione ritenuta riservata dal datore di lavoro per supportare le proprie argomentazioni, purché però si tratti di documenti che riguardino “direttamente” la sua posizione lavorativa: e questo, va sottolineato, anche perché sul piano sistematico la corretta applicazione della normativa processuale in materia deve ritenersi idonea, ad opinione del collegio giudicante, ad impedire una vera e propria divulgazione della documentazione in questione.

Opera quindi in tal senso, ad opinione della Corte, una vera e propria scriminante di carattere generale come il legittimo esercizio di un diritto ex art. 51 c.p., la cui portata deve quindi considerarsi non limitata al ristretto ambito penalistico bensì, al contrario, espressione di un principio generale che opera anche sul piano contrattuale.

Non è affatto superfluo osservare al riguardo come, nel caso in esame, la rilevanza scriminante dell'esercizio del diritto costituzionale alla difesa ex art. 24 Cost. sia stata ritenuta dai giudici di legittimità talmente dirimente da rendere del tutto superflue valutazioni riferibili a ulteriori concreti aspetti del thema iudicandum quali: i concreti limiti del potere del datore di lavoro di secretare atti aziendali; la reale rilevanza di questi ultimi ai fini della decisione della controversia intentata dal lavoratore come possibile condizione di legittimità della loro produzione documentale in giudizio; il ruolo interpretativo del Codice della proprietà industriale (e segnatamente dell'art. 98 D.Lgs. 30/2005, a mente del quale costituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni:
a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;
b) abbiano valore economico in quanto segrete;
c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete, oppure la cui elaborazione comporti un considerevole impegno ed alla cui presentazione sia subordinata l'autorizzazione dell'immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche).

Si tratta infatti, ad opinione della Corte, di profili di fatto che possono ritenersi assorbiti nella generale valutazione di prevalenza del diritto costituzionale alla difesa di cui si è appena detto.

Osservazioni

Tale ultimo passaggio costituisce forse l'aspetto più importante, dal punto di vista pratico, della sentenza in commento.

In un ipotetico giudizio avente ad oggetto (anche) la legittimità della produzione documentale da parte del lavoratore di documenti ritenuti riservati dal datore di lavoro, quindi, sarà irrilevante per quest'ultimo sostenere e tentare di dimostrare che detti documenti sono a ben vedere irrilevanti ai fini della decisione.

La Corte di Cassazione ha al riguardo chiaramente affermato, nella sentenza in commento, che le modalità dell'esercizio del diritto di difesa vanno valutate ex ante e in astratto - ossia prima della decisione giurisdizionale, avuto riguardo soltanto alla loro connessione con il thema probandum - e non ex post e in concreto alla luce dell'esito della controversia e delle motivazioni espresse dal giudice, di certo non prevedibili dalla parte nel momento in cui imposta e documenta le proprie argomentazioni difensive.

Il diritto del lavoratore di produrre documenti aziendali riservati a sostegno dell'iniziativa giudiziale intrapresa a tutela di situazioni giuridiche soggettive sue proprie appare quindi quanto mai difficilmente comprimibile, se non addirittura assoluto.

In realtà, a leggere con attenzione la pronuncia in commento, deve pur sempre ritenersi sussistente un limite per così dire “sistematico” al suo esercizio.

La Corte, infatti, usa un'espressione ben precisa per delimitare l'ambito di producibilità in giudizio dei documenti aziendali riservati: questi, infatti, ad opinione del collegio giudicante devono indefettibilmente essere correlati al thema decidendum proprio della singola controversia in essere tra l'interessato ed il proprio datore di lavoro: si fa infatti menzione, al riguardo, di “atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa”.

Ciò significa che il diritto di produrre in giudizio documenti ritenuti riservati dal datore di lavoro è destinato ad operare solo fin quando la produzione documentale in questione abbia attinenza con la domanda esperita dal lavoratore.

Dovrà quindi ritenersi consentito al giudice non tenerne conto (oppure, eventualmente, disporne addirittura lo stralcio) nel caso in cui essi vengano prodotti in giudizio solo – come suol dirsi – ad colorandum, ovvero con il solo intento di delineare prassi operative od altri profili riconducibili all'attività datoriale non direttamente attinenti al profilo in contestazione (nel caso oggetto della decisione in commento, al presunto demansionamento di Tizia).

In tale ottica, la concreta articolazione del principio generale statuito dalla Cassazione nella sentenza oggetto di analisi dovrà quindi inevitabilmente essere verificata caso per caso, ed alla luce delle concrete modalità (e finalità) di allegazione e produzione.

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