Ambito di applicazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti

Ileana Fedele
12 Maggio 2015

La nuova normativa sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, concernente essenzialmente il regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo, si applica ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015. Per individuare l'ambito di applicazione della nuova disciplina è determinante identificare il concetto di assunzione, esteso a ricomprendere le ipotesi di conversione in rapporto a tempo indeterminato. Una peculiare declinazione è poi dettata per l'ipotesi in cui l'azienda superi il requisito dimensionale di cui all'art. 18 in epoca successiva al 7 marzo 2015 nonché per i piccoli imprenditori e le c.d. organizzazioni di tendenza. Esaurita l'analisi letterale, l'autore si soffermerà sull'interpretazione teleologica della disposizione normativa, onde valutarne la compatibilità con il pubblico impiego privatizzato e determinarne l'incidenza rispetto al patto di prova, alla costituzione del rapporto lavorativo con soggetto diverso dal formale datore di lavoro, al lavoro in cooperativa, sino ad interrogarsi sulla derogabilità della nuova disciplina ad opera della contrattazione individuale e collettiva.
Il concetto di “assunzione”

La data del 7 marzo 2015 è destinata a diventare “epocale” perché segna l'abissale differenza di regime fra i “vecchi” assunti, nei cui confronti continua ad applicarsi la pregressa disciplina, ed i “nuovi” assunti, la cui tutela avverso il licenziamento illegittimo – a parte residue ed eccezionali ipotesi – sarà essenzialmente di tipo indennitario, sia pure crescente con l'anzianità di servizio. Diventa centrale, quindi, l'individuazione del concetto di “assunzione”, da interpretare in coerenza con il dichiarato scopo “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”. Rientrano, dunque, nel novero dei “nuovi” assunti non solo coloro che sono in cerca di prima occupazione, ma anche coloro che, già occupati, iniziano un nuovo rapporto lavorativo o perché hanno perso il precedente impiego o perché hanno optato per una nuova esperienza lavorativa; in tale ultimo caso, però, la perdita sul piano della tutela è tale da poter risultare addirittura disincentivante, con il conseguente rischio di un immobilismo nel mercato del lavoro.
Non è chiaro quale sarà l'interpretazione nell'ipotesi di contratto stipulato prima del 7 marzo 2015 ma con efficacia successiva a tale data: infatti, se si accedesse ad una nozione sostanziale di “assunzione”, potrebbe rilevare piuttosto la data dell'effettiva presa di servizio; il lavoratore, però, potrebbe obiettare di aver fatto affidamento sulla conclusione dell'accordo in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge.
La voluntas legis, peraltro, sembra essere quella di ricomprendere tutte le ipotesi di costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, non solo in virtù di un regolare contratto inter partes, ma anche in base ad accertamento (giudiziale) dei presupposti della subordinazione a tempo indeterminato, così come previsto per l'ipotesi di conversione del contratto a termine o di apprendistato dall'art. 1, comma 2, D.lgs. n. 23 del 2015.

La posizione dei dirigenti

La nuova disciplina si applica ai “lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri”, con ciò escludendosi i dirigenti, pur assunti dopo il 7 marzo 2015. La scelta non è priva di conseguenze, in quanto, se è vero che per raggiungere l'obiettivo di fondo – restringere drasticamente l'area della tutela reintegratoria – non era necessario includere i dirigenti, l'inapplicabilità del D.lgs. 23 del 2015 comporterà che, per i casi di licenziamento discriminatorio o nullo, ai sensi dell'art. 18, comma 1, legge n. 300 del 1970, continuerà ad applicarsi lo speciale rito di cui all'art. 1, commi 48 e ss., legge 28 giugno 2012, n. 92 in luogo dell'ordinario rito lavoro. Pertanto, mentre per le residue ipotesi di reintegrazione dei “nuovi assunti” non dirigenti si procederà con le forme ordinarie (art. 11 d.lgs. n. 23 del 2015), per i “nuovi” dirigenti occorrerà seguire il c.d. rito Fornero (con tutti i limiti sinora riscontrati, anche in ordine alla possibilità di ricomprendere l'ingiustificatezza del recesso), con una disparità di disciplina difficilmente comprensibile e giustificabile.

Le ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato

Il legislatore ha ricompreso nella nuova disciplina anche i “casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato” (art. 1, comma 2, D.lgs. n. 23 del 2015). La ratio della norma sembrerebbe essere quella di chiarire che anche la “conversione” rientra nel concetto esteso di “assunzione” che radica l'applicazione del nuovo regime, in quanto determina la costituzione del rapporto lavorativo a tempo indeterminato.

Non sembra, invece, legittima un'interpretazione che estenda l'applicazione del D.lgs. 23 del 2015 anche ai casi in cui la conversione determini l'instaurazione del rapporto a tempo indeterminato con decorrenza anteriore al 7 marzo 2015: infatti, se è pur vero che tale conclusione sembra avallata dal tenore letterale della norma, che si riferisce al momento in cui opera la conversione (“successiva all'entrata in vigore del presente decreto”), il dato temporale rilevante non può che essere ancorato alla data di costituzione del rapporto a tempo indeterminato – da individuare in relazione al tipo di vizio riconosciuto, se genetico (assenza di giustificazione, secondo la pregressa disciplina) ovvero sopravvenuto (prosecuzione del rapporto oltre i termini di tolleranza, rinnovo senza rispettare il periodo minimo di intervallo, etc.)-, in coerenza con la regola generale sull'epoca di assunzione, di cui al primo comma dell'art. 1 del D.lgs. n. 23 del 2015; altrimenti si determinerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento fra posizioni in tutto analoghe (coloro che sono stati regolarmente assunti prima del 7 marzo 2015 e coloro che hanno iniziato nella sostanza un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con pari decorrenza) sol perché la sentenza di accertamento interviene dopo una certa data.

Il superamento della soglia dimensionale ex art. 18 dopo l'entrata in vigore delle nuove disposizioni

Nell'ottica di favorire le assunzioni, eliminando i condizionamenti alla libera determinazione dell'imprenditore, la nuova disciplina è stata estesa anche ai “vecchi” assunti, nel caso in cui “il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300”. In queste ipotesi, dunque, non rileva il regime soggettivo del lavoratore nuovo assunto bensì il regime soggettivo del datore di lavoro, che, in base ad assunzioni effettuate successivamente al 7 marzo 2015 (anche in virtù di accertamenti giudiziali, da vagliare quanto all'epoca di riconosciuta costituzione del rapporto di lavoro), rientri nel requisito dimensionale per l'astratta applicabilità della c.d. tutela reale prevista dallo Statuto dei lavoratori. Pertanto, per coloro che erano già dipendenti, non si applicherà più la tutela ex art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604, bensì la nuova normativa (con i parametri indennitari ivi previsti). Quale ulteriore effetto, anche nell'ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo o orale, non sarà più applicabile il c.d. rito Fornero, bensì il rito ordinario di lavoro.

I piccoli imprenditori

Il tratto essenziale della nuova disciplina (tutela indennitaria crescente con l'anzianità di servizio) è stato esteso anche agli imprenditori c.d. “sotto soglia”, prevedendosi che “Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l'articolo 3, comma 2, e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.”. Si esclude, dunque, la tutela reintegratoria diversa dai casi di licenziamento discriminatorio, nullo o orale e si prevede il dimezzamento della tutela risarcitoria, con il limite di sei mesi (già previsto dall'art. 8 legge n. 604 del 1966). L'applicazione della nuova disciplina, dunque, è collegata alle caratteristiche del datore di lavoro ed all'epoca del recesso.

Le organizzazioni di tendenza

Il regime delle c.d. organizzazioni di tendenza è destinato ad essere coinvolto dall'applicazione della nuova normativa, posto che l'art. 9, comma 2, D.lgs. n. 23 del 2015 stabilisce espressamente che “Ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, si applica la disciplina di cui al presente decreto”. Anche in questo caso il criterio di collegamento è rappresentato non già dall'epoca di assunzione del lavoratore, bensì dalla qualità del datore di lavoro, dovendosi ritenere che la nuova disciplina sia applicabile ai licenziamenti intimati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo.

Il pubblico impiego privatizzato

Nonostante il silenzio serbato sul punto, l'opinione assolutamente maggioritaria esclude il pubblico impiego privatizzato dall'ambito di applicazione del nuovo regime, non solo per il riferimento a figure insussistenti (“quadro”) ovvero inconcepibili (“licenziamenti economici”) nella dimensione giuslavoristica pubblica, ma soprattutto per una incompatibilità di fondo della tutela differenziata dei dipendenti con i canoni costituzionali ex art. 97 Cost. ed il principio di parità di trattamento, ex art. 45 D.lgs. 30 marzo 2001, n.165, oltre che per una sostanziale irrilevanza della finalità perseguita dall'intervento normativo (“allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”) rispetto alle regole proprie dell'agire pubblico.

Il patto di prova

Ai sensi dell'art. 2096, quarto comma, cod. civ. “Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro”. Ne deriva che, se il contratto cui accede il patto di prova è anteriore al 7 marzo 2015, si applicherà il pregresso regime, in quanto il rapporto si costituisce (e si consolida con l'assunzione definitiva) sin dall'inizio. Ove, però, il datore di lavoro si avvalga della facoltà di recedere nel periodo di prova, per poi assumere il medesimo lavoratore in epoca successiva al 7 marzo 2015, il licenziamento sarebbe illegittimo, ai sensi dell'art. 1345 ovvero dell'art. 1344 cod. civ., in quanto intimato per finalità estranee alla funzione del patto di prova.

L'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a soggetto diverso dal formale datore di lavoro

Qualora il lavoratore deduca in giudizio la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze non già di colui che risulta formalmente datore di lavoro ma di altro soggetto (ad esempio, nel caso di interposizione illecita ovvero di utilizzazione promiscua all'interno di un gruppo di imprese, considerate come soggetto unitario), la pronuncia di accoglimento del giudice, in funzione di accertamento, costituirà il termine di riferimento per l'individuazione della data di assunzione. In tali casi, ove la sentenza indichi una data di inizio del rapporto anteriore al 7 marzo 2015, si applicherà la precedente disciplina; ove, però, in esito all'istruttoria, venga accertata una decorrenza successiva (anche semplicemente in ordine alle dimensioni dell'azienda), si applicherà il nuovo regime. Difficilmente, a meno di non estendere oltre misura il concetto di conversione (funzionalmente connesso ad un rapporto a termine), potrà sostenersi l'applicabilità, anche alle ipotesi in esame, della disposizione ex art. 1, comma 2, del d.lgs. 23 del 2015, sopra esaminata, dettata esplicitamente per i contratti formalmente a tempo determinato o di apprendistato.

Il regime applicabile al lavoro in cooperativa

Ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 3 aprile 2001, n. 142, “Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro”, anche in forma subordinata. Si tratta, dunque, di individuare il regime applicabile al socio lavoratore, posto che, ai sensi dell'art. 2 legge n. 142 del 2001, “Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell'articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo.” e che, secondo l'art. 5, comma 2, della medesima legge, “Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 del codice civile.”. Potrebbe, dunque, dubitarsi dell'applicabilità della nuova normativa, avuto riguardo alla specialità della disciplina, che riconosce uno stretto collegamento genetico e funzionale del rapporto di lavoro con quello associativo, tanto da attribuire preminenza alla delibera di esclusione del socio, che esime dalla necessità di irrogare uno specifico atto di licenziamento. In questo caso, la tutela del socio lavoratore è affidata all'impugnazione innanzi al tribunale ordinario, ai sensi dell'art. 2533 cod. civ. (Cass. Sez. L, sentenza 12 febbraio 2015, n. 2802), con il ripristino del rapporto ed il risarcimento del danno dalla messa in mora secondo il diritto comune (Cass. Sez. L, sentenza 5 luglio 2011, n. 14741). Esiste, però, un differente approccio, che riconduce alla tutela ex art. 18 legge n. 300 del 1970 anche il caso di accertata illegittimità del provvedimento espulsivo che si fondi esclusivamente su ragioni disciplinari (Cass. Sez. L, sentenza 23 gennaio 2015, n. 1259), in tal modo aprendo la strada all'applicazione del regime differenziato – ed in ipotesi meno favorevole – previsto dal riformulato art. 18, (per effetto della c.d. legge Fornero), e, forse, del contratto a tutele crescenti, ove si attribuisse al D.lgs. n. 23 del 2015 efficacia implicitamente abrogativa, in parte qua, del riferimento contenuto nell'art. 2 legge n. 141 del 2001.

Derogabilità da parte della contrattazione individuale e collettiva

Non dovrebbero sussistere dubbi sulla derogabilità della nuova disciplina da parte della contrattazione individuale e collettiva (si pensi, ad esempio, al precedente costituito dalla c.d. indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva per l'ingiustificatezza del licenziamento intimato al dirigente), anche se – verosimilmente – l'attenzione sarà incentrata non tanto sul piano dell'estensione dei casi di reintegrazione (apparendo difficile che le parti sociali e soprattutto le rappresentanze datoriali si determinino a significative aperture su questo tema, se non – forse – per meglio delineare, attraverso esemplificazioni, il concetto di “fatto materiale”), quanto in ordine alla diversa modulazione della tutela risarcitoria.

In conclusione

Pur a fronte della chiara ratio legis, rimangono aperte non poche questioni sull'effettivo ambito di applicazione della nuova disciplina, registrandosi, soprattutto, un'evidente disparità quanto al rito applicabile, difficilmente giustificabile, soprattutto ove rapportata alle residue ipotesi di reintegrazione mantenute nella disciplina del contratto a tutele crescenti. Almeno sotto questo profilo, sarebbe auspicabile una modifica che allinei le posizioni (ove del caso, abolendo del tutto il rito ex art. 1, comma 48 e ss., legge n. 92 del 2012), potendosi, in difetto, profilare denunce di illegittimità costituzionale volte a ricondurre a razionalità il quadro normativo.

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