Mancato adempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. e legittimo rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa

Angelo Giuliani
12 Giugno 2015

Ai sensi dell'art. 2087 c.c. il datore di lavoro è obbligato ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La violazione di tale obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l'inadempimento altrui, senza che da ciò possano derivare conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore di lavoro.
Massima

Ai sensi dell'art. 2087 c.c. il datore di lavoro è obbligato ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La violazione di tale obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l'inadempimento altrui, senza che da ciò possano derivare conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore di lavoro.

Il caso

Alcuni lavoratori – eccependo la violazione degli obblighi di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro – contestavano in giudizio il mancato pagamento della retribuzione di un'ora e mezzo di lavoro, trattenuta in ragione ed a seguito della astensione dal lavoro dei lavoratori a causa del freddo nell'ambiente di lavoro per il malfunzionamento della caldaia.

I giudici di merito hanno giudicato illegittimo il comportamento del datore di lavoro sul presupposto che nella giornata in questione non era stato proclamato alcuno sciopero, ma che l'astensione dal lavoro fosse riconducibile alla impossibilità della prestazione dovuta alla temperatura troppo bassa nell'ambiente di lavoro e al fermo a monte della lavorazione.

In entrambi i gradi di giudizio venivano accolte le doglianze dei lavoratori, a nulla rilevando le considerazioni svolte dall'azienda la quale aveva osservato che l'ambiente di lavoro era regolarmente riscaldato e che il fermo dell'impianto di riscaldamento aveva interessato solo il piano sottostante quello occupato dai lavoratori in causa.

La questione

Il problema che si pone è se a fronte del mancato, o inesatto adempimento, da parte del datore di lavoro, degli obblighi di sicurezza ai sensi dell'art. 2087 c.c., sia legittima l'astensione, totale o parziale, dalla prestazione lavorativa da parte del lavoratore. Con la conseguenza che, rientrando la mancata prestazione nella fattispecie della exceptio inadimplendi (art. 1460 c.c.) è illegittima la reazione del datore di lavoro che sanzioni la condotta del lavoratore (o, come nella specie, non corrispondendo la retribuzione dovuta o, coma accaduto in altre circostanze, agendo sul piano disciplinare).

La conclusione cui perviene la Cassazione con la decisione in commento sfugge ad un giudizio compiuto di congruità, non emergendo dalla parte in fatto se, come invece costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la condotta del lavoratore potesse essere giudicata legittima secondo i canoni della buona fede e della diligenza contrattuale.

Le soluzioni giuridiche

Sul piano generale, giova segnalare come la disposizione di cui all'art. 2087 c.c. sia considerato, per giurisprudenza consolidata, norma “elastica”, a contenuto atipico, meglio ancora “norma di chiusura” dell'intero sistema antinfortunistico. In questo senso l'art. 2087 c.c., è stato ripetutamente osservato, completa ed integra le norme specifiche in materia, imponendo al datore di lavoro di adottare, ai fini della tutela delle condizioni di lavoro, non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, nonché quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la sicurezza del lavoro in base alla particolarità dell'attività lavorativa, all'esperienza e alla tecnica (Cass., 24 gennaio 2014; Cass., 1° ottobre 2003, n. 14645; Cass., 19 aprile 2003, n. 6377; v. anche Cass., 8 aprile 2013, n. 8486; Cass., 7 febbraio 2012, n. 1716).

Infatti, pur non rivestendo natura oggettiva, la responsabilità posta in capo all'imprenditore dalla predetta disposizione codicistica non è limitata alla sola violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate; viceversa, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, la sua sfera si estende all'omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservarne l'integrità psicofisica e la salute sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità per il datore di lavoro di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v. le sentenze citate in motivazione: Cass., 3 agosto 2012, n. 13956, inedita per quanto consta; Cass., 1° febbraio 2008, n. 2491).

L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c., dunque, sollecita necessariamente il datore di lavoro ad improntare la sua doverosa condotta alla miglior scienza disponibile, manifestando apertura alle nuove acquisizioni tecnologiche (v. Cass., 8 aprile 2013, n. 8486, cit.; più diffusamente, sul criterio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile” Corte Cost., 25 luglio 1996, n. 312; sulla stessa materia in dottrina R. Guariniello, Il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, in DPL, 2008, n. 5, p. 338).

In particolare, le misure e le cautele da adottarsi da parte dell'imprenditore devono prevenire sia i rischi insiti nell'ambiente di lavoro, sia quelli derivanti dall'azione di fattori ad esso esterni, ma comunque inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, prevedibili ed evitabili alla stregua dei comuni criteri di diligenza (v. Cass., 21 maggio 2013, n. 12413; Cass., 8 aprile 2013, n. 8486, cit.).

Trattandosi di responsabilità di fonte contrattuale – in termini di ripartizione dell'onere probatorio – la giurisprudenza ha costantemente affermato che il lavoratore, il quale agisca in giudizio per il riconoscimento di un danno alla salute cagionato dallo svolgimento dell'attività lavorativa, deve dimostrare la sussistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso di causalità fra questi due elementi, mentre il datore di lavoro deve provare di aver apprestato tutte le misure idonee a prevenire il prodursi del danno lamentato (tra le tante Cass., 17 dicembre 2009, n. 3788 e n. 3786, Cass., 24 luglio 2006, n. 16881 e Cass., 7 marzo 2006, n. 4840, inedite per quanto consta).

Nel caso di specie, la mancata adozione delle misure di sicurezza aveva portato i lavoratori ad astenersi dalla prestazione lavorativa, e ciò in forza del rimedio contrattuale costituito dalla c.d. eccezione di adempimento, ritenuta legittima dal giudice.

Osservazioni

Il giudizio espresso dalla Suprema Corte con la decisione in commento si situa nel solco di un indirizzo giurisprudenziale che muove dalla natura “contrattuale” degli obblighi di sicurezza enunciati dal citato art. 2087 c.c.

In questa prospettiva va ricordato come, secondo la Cassazione, nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio comportamento inadempiente con l'inadempimento dell'altra, occorre procedere ad una valutazione comparativa del comportamento dei contraenti anche con riguardo ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle rispettive inadempienze in relazione alla funzione economico-sociale del contratto ed ai diversi obblighi su ciascuna delle parti gravanti. Tanto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell'altra di eseguire la prestazione dovuta.

Ove, in ipotesi, il comportamento "inadempiente" cronologicamente anteriore, seppure accertato, non risulti "grave", non può essere considerato di buona fede e, quindi, non potrà ritenersi giustificato il rifiuto dell'altra parte di adempiere correttamente alla prestazione secondo le istruzioni fornite (cfr. in tal senso, tra le tante, Cass. 7 novembre 2005, n. 21479)

Una giustificazione del comportamento inadempiente del lavoratore, specie con riferimento all'inosservanza delle misure di sicurezza predisposte dal datore di lavoro, deve quindi passare attraverso una comparazione tra il comportamento datoriale, cronologicamente anteriore, ed il successivo "adempimento" della prestazione con modalità non conformi a quelle indicate. In sostanza, il requisito della buona fede previsto dall'art. 1460, comma 2, c.c. per la proposizione dell'eccezione inadimplenti non est adimplendum sussiste quando tale rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l'art. 1175 c.c. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite (Cass. civ., 7 maggio 2013, n. 10553).

Calando tali principi nella particolare situazione dell'adempimento delle prestazioni nell'ambito del rapporto di lavoro e, nello specifico, nella valutazione della gravità del comportamento del lavoratore che ometta di rispettare le misure di sicurezza predisposte dalla parte datoriale, occorre verificare in concreto se tali misure debbano essere considerate così gravemente inefficaci e controproducenti da giustificarne il mancato rispetto.

Proprio muovendo da questo giudizio di proporzionalità Cass. civ., 10 agosto 2012, n. 14375 è giunta a ritenere legittimo il licenziamento irrogato da una Casa di cura nei confronti di una dipendente il cui comportamento di rifiuto della prestazione di lavoro era risultato esorbitante rispetto all'asserito inadempimento della datrice di lavoro.

Il mancato o non completo adempimento, da parte del lavoratore, della prestazione secondo le modalità specificate dal datore di lavoro può, in ipotesi, trovare una sua giustificazione nell'adozione da parte del datore di lavoro di misure inidonee a tutelare l'integrità fisica del prestatore di lavoro. Tuttavia, occorre accertare anche se quest'ultimo, prima dell'inadempimento e nel rispetto degli obblighi di correttezza nell'esecuzione della prestazione, abbia provveduto ad informare il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare ovvero ad evidenziare l'inidoneità di quelle adottate.

La sentenza in commento, nel confermare i due gradi di giudizio di merito, ha evidentemente ritenuto proporzionata la “reazione” dei dipendenti che, a fronte della mancata adozione delle misure di sicurezza, si erano astenuti dall'eseguire la prestazione di lavoro dovuta. L'aspetto della sentenza che suscita qualche perplessità è l'assenza, nella relativa motivazione, di riferimenti a quel giudizio di proporzionalità che solo può, in ipotesi, giustificare il (legittimo) rifiuto della prestazione lavorativa.

A tale riguardo, giova richiamare una interessante sentenza di Cassazione che, in una fattispecie del tutto particolare (si trattava di un lavoratore con mansioni di esattore presso un casello autostradale, il quale aveva subito, nell'arco di due mesi, tre rapine a mano armata durante il turno notturno ed aveva chiesto al datore di lavoro l'adozione di misure idonee a garantire e tutelare la sicurezza dei lavoratori addetti al casello), aveva escluso che l'astensione totale o parziale dalla prestazione lavorativa potesse integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento. In quella circostanza, infatti, il comportamento del datore di lavoro era risultato chiaramente e gravemente inadempiente, anche perché ripetutamente informato e avvisato dell'assenza delle misure necessarie di sicurezza da parte dello steso lavoratore (Cass. civ., 7 novembre 2005, n. 21479).